Circa tre mesi fa ho avuto la fortuna di vedere dal vivo i Boston Celtics nelle trasferte quasi consecutive di Brooklyn e New York durante il weekend del Thanksgiving. Due partite tutt’altro che memorabili in verità, con i Celtics che sono riusciti a raddrizzare solo nell’ultimo quarto la sfida contro i derelitti Knicks per evitare due sconfitte in fila, mostrando un atteggiamento - diciamo così - più interessato alla nightlife newyorkese che al record di fine novembre. Uscendo da entrambe le gare, però, un solo pensiero mi continuava a girare per la testa: ma perché Jayson Tatum non è sempre così forte?
Di tutti i giocatori che ho visto in quei quattro giorni tra New York e Philadelphia, il numero 0 dei Celtics è stato certamente quello che mi ha fatto la maggiore impressione. Ogni volta che toccava la palla dava la sensazione che qualcosa di bello stesse per succedere, ma anche che lo stesso cuoio del pallone si trasformasse in qualcosa di diverso — più morbido, più setoso — ogni volta che lasciava le sue mani. In più, bisogna aggiungerci il senso di onnipotenza dato dai 56 punti realizzati in due partite (26 contro Brooklyn di cui 18 nel primo tempo, 30 al Madison Square Garden col massimo in carriera da 7 assist), facendomi trovare immediatamente senso all’espressione che Federico Buffa utilizzava quando diceva che “il talento gli sgorga dalle mani” quando parlava di un realizzatore di alto livello.
Nell’ultimo mese e mezzo, Jayson Tatum è stato il giocatore che io ho potuto vedere a New York in ogni singola partita giocata dai Boston Celtics, dando l’impressione di aver fatto davvero il salto di qualità da grande talento a All-Star, come certificato anche dalla convocazione alla partita delle stelle di un paio di settimane fa. Il percorso non è ancora del tutto completato e ci sono un po’ di contingenze che lo hanno reso possibile (non ultimo l’infortunio di Kemba Walker), ma oramai è chiaro che i Celtics sono la squadra di Tatum e lui è pronto a prenderseli definitivamente sulle spalle.
The Leap
La NBA è una lega gerarchica. Anche all’interno della cerchia ristretta degli All-Star, ce ne sono alcuni che sono nettamente di uno o più livelli superiore agli altri. In generale, per passare da “grande talento” a “All-Star” bisogna fornire un rendimento di alto livello non in maniera sporadica ma costante nel tempo, in casa o in trasferta, indipendentemente da ogni circostanza. La gran parte dei 450 giocatori che giocano in NBA hanno abbastanza talento nelle mani per segnare 30 punti in una singola serata fortunata, ma pochi possono riuscire a farlo sera dopo sera: già questo è un salto di livello che non riesce a tutti e che Jayson Tatum sta dimostrando di avere nelle proprie corde.
Nel mese di febbraio ha tenuto medie da 30.5 punti a partita con il 51.4% dal campo e il 50% da tre (l’ultimo Celtic a riuscirci? Larry Bird), aumentando enormemente le proprie responsabilità offensive sia in termini di tiri che di Usage e minutaggio. Con Kemba Walker alle prese con un fastidioso infortunio al ginocchio, i Celtics hanno dato la palla a Tatum e lo hanno messo nelle condizioni di fare ciò che sa fare meglio: segnare a ripetizione.
Come scritto da Jared Dubin su FiveThirtyEight, ora il 58% dell’attacco di Tatum è formato da azioni in cui ha il pallone tra le mani, una netta inversione di tendenza rispetto al suo anno da rookie nel quale il 63% delle azioni cominciava lontano dalla palla. A questo il numero 0 dei Celtics ha aggiunto un’efficienza di gran lunga superiore sia in isolamento (1.22 punti per possesso) che nel pick and roll (1.13), mostrando di aver imparato a controllare i tempi di gioco in maniera davvero sensazionale.
Il più grande difetto realizzativo di Tatum nei suoi primi due anni di carriera era l’incapacità di chiudere al ferro contro gli atleti NBA, un buco nel suo gioco che sembrava non aver sistemato in estate. A inizio regular season infatti ha segnato solo con il 44% a ottobre e con il 54% a novembre nella restricted area, ma da dicembre in poi ha fatto un salto di livello stabilizzandosi sempre ben oltre il 60% su un numero sempre maggiore di tentativi. Ciò è dovuto innanzitutto a una maggiore aggressività e una convinzione superiore nei suoi mezzi, che secondo il suo compagno Brad Wanakamer è dovuta al riconoscimento del suo talento con la prima convocazione all’All-Star Game. Ma è anche un miglioramento tecnico, visto che il ball-handling è certamente di un livello superiore rispetto al passato, permettendogli di arrivare dove vuole in giro per il campo secondo quelli che sono i suoi tempi.
Nel terzo quarto della partita contro i Thunder i suoi miglioramenti in palleggio sono stati evidenti e hanno aperto completamente il suo repertorio offensivo.
A tutto questo si aggiunge finalmente che lo staff tecnico dei Celtics dopo due anni è riuscito a inculcare nella sua testa la necessità di avere una migliore selezione di tiro. Tatum ha praticamente dimezzato il suo numero di long 2s rispetto alla scorsa stagione, passati dal 17% all’8.8% di quest’anno in favore di triple (da 30% a 37.4%) e, seppur in maniera minore, anche tiri in area (da 42.5% a 44.7%).
Nella partita contro i Clippers è sembrato il miglior giocatore in campo in una partita nella quale spesso si è ritrovato accoppiato con Kawhi Leonard. L’ultimo canestro del secondo supplementare è particolarmente significativo: dopo aver creato separazione da Landry Shamet, non si è preso il tiro dalla media distanza che aveva a disposizione ma ha attaccato il ferro, andando a chiudere contro Montrezl Harrell.
Da All-Star a Superstar
Tatum ha fatto tutto questo diminuendo la dipendenza dai suoi compagni con molti meno canestri assistiti rispetto al passato, mettendosi di più in proprio e facendosi carico delle responsabilità creative della squadra. Di fatto, ora non c’è più dubbio che lui sia il giocatore di riferimento della sua squadra in attacco, quello attraverso il quale devono transitare la maggior parte dei palloni durante le partite. A questo aumento del coinvolgimento offensivo deve fare seguito anche quello della distribuzione del pallone: il numero di assist di Tatum rimane comunque inferiore ai 3 di media, poco per un giocatore che deve essere prima opzione offensiva della sua squadra.
Il salto di qualità da “semplice” All-Star a vera superstar a tutto tondo passa da questo aspetto e da un ulteriore miglioramento dal punto di vista mentale. Non basta più essere estremamente costanti nella propria produzione, ma serve anche salire di livello quando la partita lo richiede, essere in grado di decidere i quarti periodi e gli overtime delle gare. Per fortuna dei Celtics, sin dal suo anno da rookie Tatum ha dimostrato di sentirsi particolarmente a suo agio nei momenti più caldi, e l’incredibile arsenale di movimenti, finte e sensibilità di tocco a sua disposizione lo aiuteranno a essere decisivo anche nei momenti clutch.
A questo Tatum aggiunge una presenza difensiva per certi versi sottovalutata, magari non scintillante quanto il suo talento offensivo ma sicuramente solidissima, grazie alla possibilità di cambiare su tutti i blocchi: secondo Nylon Calculus, solamente lui, Royce O’Neale e Dorian Finney-Smith hanno passato almeno il 19% dei loro possessi difensivi contro point guard, guardie tiratrici, ali piccoli e ali forti. Tatum è un coltellino svizzero nelle mani di Brad Stevens, che lo utilizza anche contro i Leonard e i LeBron di turno compensando la sua mancanza di stazza fisica con la lunghezza delle braccia (211 centimetri su 203 di altezza), piazzandosi al terzo posto per Defensive Real Plus-Minus.
Il fatto che difenda così forte e che comunque non sia un giocatore che impone di avere il pallone tra le mani lo ha fatto ben volere all’interno della franchigia, dandogli un ruolo di leader a cui era destinato ma a cui non era scontato che arrivasse così in fretta. Il tutto senza oscurare i suoi compagni, visto che Jaylen Brown sta continuando a giocare alla grande (ed è il suo primo tifoso) e Gordon Hayward si sta ritagliando un ruolo di “tuttofare” per il quale è probabilmente sovra-qualificato, ma che può tornare estremamente utile a questa squadra. In questa equazione si inserisce Kemba Walker, il quale però fin dall’inizio della stagione è stato estremamente chiaro nel voler dare i giusti spazi ai suoi compagni, con un atteggiamento a volte “remissivo” per uno che comunque è partito titolare all’All-Star Game — in netto contrasto, volontario oppure no, rispetto a quanto succedeva un anno fa con Kyrie Irving.
Se la traiettoria ascendente dell’importanza e dell’incisività di Tatum continueranno su questa falsariga, le prospettive dei Celtics nel breve e nel lungo periodo cambiano. Questo Tatum è un giocatore da primi dieci nella lega, con concrete possibilità di ascendere a un livello ancora superiore (quello dei LeBron, dei Kawhi e dei KD) in caso di conferma ai playoff. Uno di quei giocatori che automaticamente ti rendono una contender ogni volta che scendono in campo e che, in prospettiva, può arrivare non solo a giocarsi il premio di MVP ma anche decidere una serie di finale come prima opzione offensiva.
È quello di cui stanno cominciando ad accorgersi anche i suoi avversari, con apprezzamenti che arrivano ormai a ogni partita e un’investitura pubblica da parte di LeBron James via Instagram, definendolo “UN ASSOLUTO PROBLEMA” dopo la splendida prestazione allo Staples Center, unica sconfitta in una trasferta a Ovest che li ha visti vincere a Minneapolis (39 punti per Tatum), Portland (36) e Salt Lake City (33) dopo aver sconfitto in casa i Clippers al doppio supplementare (39). Nell’ultimo mese solo una volta non ha superato i 20 punti a referto e per trovare una prestazione in singola cifra bisogna risalire al 5 novembre, l’unica della sua stagione.
Se poi Tatum non riuscirà a confermarsi stabilmente su questi livelli, non bisogna dimenticare che stiamo parlando solamente di un giocatore di 21 anni (!). Ma il rendimento avuto in questo inizio di 2020 e il probabile premio di giocatore del mese sono la conferma che le stigmate della superstar ci sono tutte — ed è una gioia da vedere.