Jamal Crawford è il miglior compagno di squadra possibile. È un titolo che può anche mettere sul curriculum, in qualità di sesto vincitore del Twyman-Stokes Teammate of the Year Award dopo Chauncey Billups, Shane Battier, Tim Duncan, Vince Carter e Dirk Nowitzki. Riconoscimenti a parte, è difficile trovare anche un solo giocatore NBA che non parli in toni entusiastici del proprio rapporto con JC, della sua disponibilità a prendersi cura dei rookie e della sua incredibile intelligenza emotiva.
Alcune settimane fa in un’intervista con The Undefeated, la costola di ESPN che strizza l’occhio alla cultura afroamericana, Crawford ha rivelato che tra i motivi per cui a giugno ha deciso di non esercitare la player option da 4,5 milioni di dollari che gli avrebbe permesso di giocare un’altra stagione con i Timberwolves ci sono la poca soddisfazione per il proprio impiego e, più in generale, che “It just wasn’t a happy environment”. Una dichiarazione che fa il paio con quella di alcuni giorni prima nel podcast “The Full 48” di Howard Beck (Bleacher Report), quando ha definito lo spogliatoio di Minnesota uno dei peggiori in cui si sia mai trovato.
Il ragionamento su ruolo, minuti e palloni a disposizione denota un certo distacco dalla realtà per un giocatore di 38 anni che non ha più impatto positivo in campo quantomeno dal 2015 e la rinuncia economica è in pratica irrilevante se si considera che in carriera ha guadagnato 120 milioni di dollari, che ha appena firmato un annuale da 2,4M con i Suns e che gli Hawks gli devono comunque ancora 2,3M come conseguenza del buyout del 2017. Il commento sull’atmosfera che si respirava in spogliatoio e in tutti gli ambienti della squadra, invece, è decisamente significativo anche e soprattutto perché proviene da chi ha vissuto in prima persona situazioni come quella dei Knicks di Isiah Thomas, e quindi di rapporti tesi tra compagni, staff tecnico e dirigenti se ne intende.
Forse Crawford già tre mesi fa sapeva qualcosa riguardo a ciò che poi è accaduto a Minneapolis nell’ultimo mese, di certo ha deciso di non volerne sapere più nulla e per una franchigia questi sono segnali che qualche campanello avrebbero dovuto farlo suonare, giusto per far alzare a DEFCON 4 lo stato di allarme.
Cosa sia successo nel dettaglio questa estate ha provato a riassumerlo Jon Krawczynski diThe Athletic, senza dubbio la miglior fonte cui appoggiarsi per informazioni sulla faccenda, e per iniziare può essere ulteriormente sintetizzato così: il giocattolo si era rotto già a maggio e c’erano tutti i margini per rendersene conto, accettare la situazione e muoversi di conseguenza, ma Tom Thibodeau per indole, necessità di preservare il proprio (doppio) posto di lavoro e anche per la mancanza di pareri alternativi e punti di vista differenti con cui confrontarsi, ha deciso di nascondere tutta la polvere sotto al tappeto, convinto che poi tanto una volta tornati al lavoro tutto si sarebbe sistemato. E invece la bomba è esplosa appena prima che si tornasse al lavoro, anzi, proprio per evitare di dover tornare in quello spogliatoio. Come noto Jimmy Butler ha chiesto in modo definitivo e non negoziabile la cessione, tanto da potersi permettere di non presentarsi al Media Day e al training camp dei Timberwolves.
Jimmy Butler durante la luna di miele, in versione crocerossina.
L’inizio della fine
L’idillio tra Butler, i compagni e l’intera franchigia è, di fatto, durato il tempo di un training camp e un paio di settimane di regular season, perché esattamente undici mesi fa si è verificato il primo episodio critico, di cui già ci eravamo occupati. Al primo accenno di difficoltà la pazienza di Jimmy nei confronti di Towns e Wiggins in particolare si è sciolta come neve al sole. E da un certo punto di vista era prevedibile succedesse, perché risalendo alla radice del problema non serve nemmeno impegnarsi troppo per identificare il peccato originale di questa versione dei Timberwolves, cioè la totale inconciliabilità di due anime diametralmente opposte.
Da una parte c’è Butler, un giocatore di talento medio (tra quelli dell’assoluta eccellenza, si intende), con dimensioni fisiche nella media del ruolo, abilità al tiro media, trattamento di palla medio, visione di gioco media, che è entrato in NBA dalla porta di servizio come ultima scelta del primo giro del Draft 2011, si è issato una gigantesca carogna sulla spalla – l’inglese chip on the shoulder è più cortese senza che l’espressione perda di impatto – e ha basato tutte le proprie fortune su grinta, determinazione, applicazione difensiva, ricerca del contatto fisico con gli avversari, ossessiva voglia di competere e migliorarsi a discapito di tutto e tutti e che a ormai 29 anni inizia a sentire la pressione di dover vincere per dare definitivo lustro a una carriera comunque già parecchio luminosa.
Dall’altra parte Towns e Wiggins, accolti tra i professionisti con tutti gli onori che si riconoscono a una prima scelta assoluta, baciati da un talento tecnico (Towns) e atletico (Wiggins) assolutamente fuori dalla norma e che Butler stesso ha più volte sinceramente riconosciuto –e ci mancherebbe altro –, già forti di estensioni al massimo salariale e che però per età, carattere e probabilmente anche a causa delle poche difficoltà incontrate nel proprio percorso sportivo sono ancora decisamente lontani dal senso di urgenza del più esperto e affamato compagno di squadra e, più un generale, da quello richiesto a giocatori del loro status contrattuale.
Per dirla con le parole di un illustre filosofo del ventesimo secolo di nome Ben Parker, “Da grandi poteri derivano grandi responsabilità”, anche se nel loro caso è difficile ipotizzare che il talento cestistico derivi dal morso di un ragno, ma pur sempre di superpoteri si tratta.
Ingaggiare un giocatore del valore Butler, quattro volte All-Star e soprattutto due volte All-NBA, alle condizioni cui si è potuto farlo, cioè in pratica cedendo un solo asset veramente rilevante (che poi si è trasformato in Lauri Markkanen, senza dubbio positivo nella prima stagione a Chicago), è una decisione automatica, che chiunque all’interno della dirigenza dei Timberwolves prenderebbe nuovamente anche sapendo esattamente tutto quello che è successo nell’ultimo anno e mezzo. Perché alla fine dei conti è soprattutto grazie a lui e alle 37 vittorie ottenute nelle 59 partite che ha giocato che la squadra è tornata ai playoff dopo 14 anni di assenza, centrando l’unico vero obiettivo non negoziabile che il proprietario Glen Taylor aveva indicato a Thibodeau.
Ma che a un giocatore senza mezze misure e costruito sul duro lavoro potesse non andare troppo a genio che i due compagni che lo avrebbero dovuto accompagnare verso il successo siano così giovani e soprattutto passivi, nel caso di Wiggins forse in modo irrimediabile, era da mettere in conto, anche alla luce dell’insofferenza mostrata da Butler nell’ultima stagione a Chicago, quando insieme a Dwyane Wade contribuì a distruggere e spaccare lo spogliatoio facendo guerra aperta ai più giovani (e a Rajon Rondo, che si era schierato dalla loro parte). Contro non sufficienti a sconsigliare l’affare data la predominanza dei pro, come detto, ma che però sono molto probabilmente stati sottostimati da Thibodeau, che sin dall’inizio e fino a oggi ha continuato a credere nel “suo” Jimmy, quello che lui ha plasmato, il suo pretoriano, l’incarnazione di tutto ciò che lui trova di positivo nel basket. Il problema è che è arrivato a livelli di negazione della realtà simili a quelli di Mohammed Saeed al-Sahaf o “Baghdad Bob”, il ministro dell’informazione iracheno che smentiva l’avanzata americana mentre sullo sfondo carrarmati statunitensi prendevano possesso della capitale.
Resta il fatto che, una volta scoppiata la bolla, pare che durante le continue e incessanti sfuriate nello spogliatoio di Minnesota Butler non perdesse occasione di sottolineare come lui si fosse ricavato un posto nella NBA dal nulla, lui fosse da prendere come esempio, lui avesse ragione, lui fosse la dimostrazione che il lavoro paga, in evidente contrasto con l’atteggiamento quasi da bambini viziati e cresciuti nelle bambagia – o almeno questo è il suo pensiero – di Towns e Wiggins. È la sua versione della Mamba Mentality, senza la quale non sarebbe nemmeno lontanamente diventato ciò che è e che tutto compreso non può certo essere valutata in modo negativo, ma che innegabilmente presenta un lato oscuro, che in certe situazioni si manifesta in tutta la sua rigidità.
Il risultato di questo contesto? Nessuna comunicazione difensiva, un’onta incredibile per Thibodeau, e nessuna intesa offensiva, come testimoniato dagli incredibili dati riguardanti la collaborazione tra Butler e Towns nelle partite punto a punto: dopo lo sfogo di metà novembre, Jimmy ha fornito un solo assist a KAT in tutta la stagione in situazioni clutch. Uno. Uno solo. Ma vincere cura qualsiasi malanno, si dice, quindi aver raggiunto i playoff avrebbe dovuto sistemare tutto. Forse.
Foto di David Sherman/NBAE via Getty Images
Una dirigenza nel caos
Chi non ricorda le basketball reasons? Per i pochi che hanno alzato la mano si tratta della motivazione che David Stern – storico Commissioner NBA e nel dicembre del 2011 anche gestore dei New Orleans Hornets, che erano temporaneamente di proprietà della lega e quindi degli altri 29 proprietari –, diede dopo aver rifiutato di cedere Chris Paul ai Lakers nonostante l’accordo tra il GM Dell Demps e le controparti gialloviola, finendo poi con l’accettare l’offerta degli L.A. Clippers che ha dato vita all’era Lob City.
Sicuramente i teorici del complotto non cambieranno idea e non è questa la sede per valutare nel merito quella decisione – che a posteriori comunque portò Anthony Davis in Louisiana –, ma limitandosi alla cronaca è semplicemente successo che un proprietario ha avuto l’ultima parola su una trattativa, come è normale che sia e come capita molto più spesso di quanto si creda. Solo che raramente si viene a sapere, perché la maggior parte delle trattative viene condotta nell’ombra.
In situazioni normali dirigenza e proprietà sono in contatto, si muovono con unità di intenti e spesso i rifiuti che arrivano dall’alto si basano più su dettagli come le conseguenze economiche dello scambio, ad esempio la Luxury Tax, che sulla filosofia alla base dell’intera trattativa, cioè se cercare competitività immediata o ricostruire giocatori giovani e scelte al Draft. Ma quella palesemente non era una situazione normale, né una trattativa normale, anche perché arrivò immediatamente dopo la fine dell’ultimo lockout, con molti nervi tesi e molta fretta di riprendere le regolari attività.
Non è lontanamente normale neanche quello che è successo a Minneapolis. Mentre Thibodeau, forte del doppio ruolo di allenatore e dirigente, ha continuato o forse continua tuttora a rifiutare anche solo l’idea di cedere Butler (e sta anzi provando – invano – a fargli cambiare idea), il GM Scott Layden trascorre le giornate al telefono a declinare le offerte provenienti dalle altre squadre, se non addirittura a dare risposte ambigue per confondere le acque. Il proprietario Glen Taylor, già in prima linea al momento della cessione di Kevin Love nel 2014, invece ha approfittato di un recente incontro con i suoi parigrado in occasione del Board of Governors per fare presente che, nel caso si incontrassero resistenze attraverso i normali canali di trattativa, ci si può, anzi, ci si deve rivolgere direttamente a lui, perché il tempo di Butler ai Timberwolves è finito.
Per schematizzare e rendere meglio l’idea di questo caos, o forse per complicare ancora di più le idee: negli uffici di Minnesota chi risponde al telefono e gestisce in prima battuta le trattative (il GM Layden) prende gli ordini dalla stessa persona (il President of Basketball Operations Thibodeau) cui abitualmente dovrebbe dare gli ordini (l’allenatore, che però è sempre Thibodeau), mentre il proprietario invita gli interlocutori a non telefonare nemmeno a chi abitualmente risponde al telefono e a non trattare con chi abitualmente dovrebbe gestire le trattative.
Anche in questo caso si tratta di un proprietario che fa quelli che ritiene essere gli interessi della franchigia e, a conti fatti, i propri. Perché per quanto incredibilmente dannoso a livello di immagine e reputazione sia che il mondo venga a sapere quanto disfunzionali siano quell’ambiente in generale e i rapporti tra i massimi dirigenti in particolare, probabilmente questo danno è quantificato in una cifra inferiore a 23 milioni di dollari, cioè quanto Thibodeau guadagnerà da qui fino alla scadenza del proprio contratto nel 2021. Si può dubitare di questa valutazione, ed anzi pare doveroso farlo, dato che in seguito ai recenti sviluppi anche una cifra doppia, che poi è circa l’equivalente dell’attivo di bilancio dei Timberwolves, sembrerebbe nulla in confronto alle ripetute violenze fisiche perpetrate alla reputazione del brand, però tant’è.
È plausibile pensare che Taylor stia cercando di togliere potere al suo allenatore/presidente: Thibodeau – al netto dell’anomalia Popovich – è l’ultimo esemplare che separa dall’estinzione una figura che, definita così, sembra riferita allo sport di provincia, ma che a ben vedere non è mai stata in grado di ottenere nulla di positivo in nessuna delle sue emanazioni. Quella del doppio ruolo è stata un’esigenza nata esclusivamente da trattative a senso unico in cui la franchigia (Clippers, Hawks, Pistons e poi appunto Timberwolves) aveva bisogno di quello specifico allenatore (Rivers, Budenholzer, Van Gundy, Thibodeau) molto più di quanto l’allenatore avesse bisogno di quel posto di lavoro, e quindi finiva con l’accettare qualsiasi richiesta di quest’ultimo.
La proprietà potrebbe essere disposta a confermare l’allenatore per un’altra stagione, ma ne ha abbastanza del dirigente: nell’impossibilità di rimuoverlo solo dal secondo ruolo (ci ha provato Tom Gores a Detroit con SVG con pessimi risultati) ha probabilmente stabilito che è meglio chiudere del tutto il rapporto, cercando però il modo di frustrare e far innervosire Thibodeau al punto da spingerlo alle dimissioni o comunque alla disponibilità a garantire un cospicuo sconto sui 23 milioni di cui sopra al momento della separazione. Il risultato della combinazione tra questo contesto e le dinamiche di spogliatoio di cui sopra? Lo spettacolo indecoroso cui si è assistito negli ultimi giorni.
Foto di Ronald Cortes/Getty Images
Come si è arrivati fino a questo punto
Dopo aver chiesto di essere scambiato già a luglio ed essere stato ignorato, Butler è tornato dalla vacanze ancora più convinto della propria decisione ed ha ripetuto a Thibodeau quale fosse il suo desiderio, facendo filtrare la notizia ai media. Il fratello di Wiggins ha esultato, Butler ha risposto, Stephen Jackson per qualche ragione si è sentito in dovere di dire la sua, Wiggins stesso è intervenuto.
Ma lo spettacolo indecoroso non è certo stato questo, quanto il teatrino messo in piedi da Butler una settimana fa e ormai ben noto al mondo: dopo aver saltato Media Day e la prima settimana di training camp ufficialmente per “recuperare dall’operazione alla mano destra subita a luglio”, Butler si è presentato in ritardo all’allenamento, ne ha dettato modi e tempi, ha giocato insieme alle ultime riserve contro i titolari dominando un paio di partitelle, ha gridato in faccia al GM “You fuck**g need me!” e, una volta finito, si è seduto di fronte alle telecamere di ESPN, allertate per l’occasione, per raccontare a Rachel Nichols lo svolgimento della giornata e la sua versione dei fatti. Perché abbia deciso di comportarsi in questo modo appare, di nuovo, estremamente chiaro: Taylor gli aveva garantito che stava lavorando per accontentare la sua richiesta, ma le trattative procedevano a rilento, sia perché le pochissime squadre rimaste in gioco, cioè Miami e forse i Clippers, sanno benissimo che Minnesota deve cederlo e quindi si trovano in posizione di forza e non hanno alcun interesse a migliorare le proprie offerte, sia perché Thibodeau continua a non mostrare particolare entusiasmo all'idea.
E non avendo mezze misure Butler ha pensato che l'unico modo per forzare la mano a Minnesota e assicurarsi la libertà fosse creare il caos più totale, peraltro riuscendoci benissimo, ma senza raggiungere il suo scopo finale, perché il risultato è stato che Taylor gli ha nuovamente garantito che sta lavorando per accontentarlo ottenendo in cambio garanzia di impegno e professionalità, ma intanto la stagione è iniziata e Jimmy ha giocato in maglia Timberwolves, cosa che aveva giurato a se stesso non sarebbe più successa.
In una franchigia normale un incidente del genere non sarebbe mai successo e anche fosse successo non sarebbe certo finito rapidamente in pasto ai media, ma Minnesota non è una franchigia normale. Il giorno successivo Thibodeau ha cancellato l'allenamento, decisione già totalmente inusuale di per sé per un allenatore con le sue convinzioni e che oltretutto risulta totalmente paradossale perché segue a un’accesa critica alle tempistiche della preseason, che gli impedivano di svolgere allenamenti completi.
E poi nulla, come niente fosse accaduto: nessuna multa, nessuna sospensione, nessuna dichiarazione che non fosse di semplice facciata, e nessun confronto, a quanto ci è dato sapere. Secondo Jeff Van Gundy, amico personale e mentore di Thibodeau, è impossibile che l'ex coach dei Bulls sia soddisfatto della situazione, perché ogni allenatore cerca ordine e rispetto dei ruoli, ma Butler ha candidamente dichiarato che dal suo punto di vista non solo è tutto perfettamente normale, ma anche che un allenamento così duro è esattamente ciò di cui la squadra aveva bisogno e che Thibs non può che esserne soddisfatto. E la realtà è che forse ha ragione, perché l'assenza di provvedimenti disciplinari almeno in parte si spiega in questo modo, oltre alla cronica incompetenza di tutta la dirigenza e alla sottomissione a prescindere alle bizze del giocatore.
Provare a trovare aspetti razionali in tutta la faccenda è pressoché impossibile, come evidenziato anche da Zach Lowe che tocca due punti chiave: il primo è che dal punto di vista tecnico è difficile immaginare un compagno teoricamente migliore di Towns per Butler, almeno tra quelli con cui è possibile si ritrovi a giocare nelle prossime stagioni. Si diceva lo stesso di Irving quando ha lasciato LeBron, ma a Kyrie è andata come meglio non poteva e soprattutto per Jimmy e KAT la teoria del campo si scontra con fratture palesemente non sanabili dal punto di vista umano prima ancora che tecnico.
Il secondo è quello della narrativa del rispetto e della “vittoria come unico obiettivo per cui sacrificare tutto il resto”: in estate Butler sarà free agent e potrà firmare un contratto al massimo salariale di circa 190 milioni di dollari in 5 anni (la cifra esatta dipenderà dal Salary Cap 2019) con la squadra che ne deterrà i Bird Rights, cioè quella con cui chiuderà la stagione. E si aspetta che gli venga offerto, altro motivo per cui il mercato per la sua cessione è tiepido tendente al freddo, dato che chiunque si assicuri le sue prestazioni sa di dover mettere sul tavolo un'offerta simile e di dover presentare un progetto tecnico convincente, il che riduce enormemente il numero di pretendenti disposte a cedere asset di valore in questo momento. Minnesota in estate gli ha offerto il massimo possibile secondo le regole, cioè un'estensione (che segue dinamiche diverse rispetto alla firma di un nuovo accordo) da 101 milioni in 4 anni, ma Butler ha dichiarato che si aspetta che alle parole della dirigenza seguano i fatti. Il che fa dubitare delle sue reali intenzioni, perché se non sono fatti e non parole l'offerta del massimo contratto possibile e la concessione della libertà totale di azione e comportamento sia in campo che fuori, non si capisce quali lo siano.
O forse sì, perché le squadre che agiscono sotto al Salary Cap possono estendere i contratti rinegoziandone le condizioni già presenti e aggiungendo anni e incrementi successivi in seconda battuta, come fatto ad esempio dai Rockets con James Harden. Ma per poter scendere sotto al Cap abbastanza da poter offrire l'estensione da 157 milioni in 4 anni i Timberwolves avrebbero dovuto liberarsi di oltre 20 milioni di dollari in salari, cioè, in parole povere liberarsi di Andrew Wiggins - il che meriterebbe un'ampia valutazione in separata sede, ma certamente non è una richiesta che una dirigenza possa accettare né la dimostrazione che per Butler l'unica cosa che conta realmente sia vincere, quanto piuttosto farlo alle proprie condizioni, non negoziabili.
L’epilogo della vicenda pare ben delineato: certamente a luglio e molto probabilmente già entro febbraio Butler potrà vestire un’altra maglia. Quanti danni la vicenda abbia creato alla reputazione della franchigia e alla sua, quali ripercussioni ci saranno sulle sue decisioni future e se, quanti e quali altri episodi ai confini della realtà dovranno accadere perché si arrivi alla cessione sono però aspetti ancora da definire e, purtroppo, l'unico motivo di interesse o quasi per seguire i Timberwolves. Che, giusto per ricordarlo, cinque mesi fa festeggiavano il ritorno ai playoff dopo 14 anni e una delle migliori cinque stagioni della propria storia. Pensate le altre.