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È Jimmy Butler la stella mancante dei 76ers?
12 nov 2018
Philadelphia ha puntato sull’ex stella dei Timberwolves per fare il salto di qualità, ma è la scelta giusta?
(articolo)
11 min
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Alla fine della scorsa stagione, il capo-allenatore dei Philadelphia 76ers Brett Brown aveva espresso chiaramente quale fosse la necessità principale della sua squadra: una stella in grado di prendersi le responsabilità con il pallone tra le mani nel momento del bisogno. Al tempo pensava che sarebbe stato Bryan Colangelo ad avere il compito di trovarla, invece le ben note vicende legate agli account Twitter della moglie hanno portato Brown a occuparsi anche della gestione del front office, impiegandosi in prima persona alla ricerca della stella mancante.

La ricerca, come si sa, è stata infruttuosa: nonostante il nucleo giovane più intrigante della lega e abbastanza spazio salariale per un max contract, i colloqui con il grande obiettivo dell’estate LeBron James non sono andati oltre a un incontro con i suoi rappresentanti, mentre l’altra alternativa Paul George non ha nemmeno ascoltato nessun altro che non fossero gli Oklahoma City Thunder. Anche provando a raggiungere la stella mancante attraverso gli scambi le cose non sono andate meglio: Philadelphia ha provato a prendere Kawhi Leonard, ma i San Antonio Spurs hanno preferito il pacchetto di esperienza+gioventù offerto dai Toronto Raptors (DeMar DeRozan e Jakob Poeltl) piuttosto che quello dai 76ers, incentrato su Markelle Fultz. Una volta esaurite queste opzioni, i Sixers hanno deciso che non avrebbe avuto senso impiegare quello spazio salariale per un giocatore che non fosse un top 15-20 della lega, riportando in città l’amatissimo J.J. Redick e il veterano Amir Johnson, scambiando per Wilson Chandler e aggiungendo Mike Muscala non appena Nemanja Bjelica (che sarebbe stato perfetto per il gioco della squadra) ha preferito far finta di tornare in Europa prima di accettare il contratto più ricco offerto dai Sacramento Kings.

Perché ai Sixers serve uno come Jimmy Butler

Tutto questo preambolo serve per spiegare da dove arriva l’idea di prendere Jimmy Butler da parte della dirigenza dei 76ers, che nel frattempo è passata nelle mani del General Manager promosso dall’interno Elton Brand. Dentro alla franchigia c’era la sensazione che al puzzle di una squadra in grado di giocare davvero per il titolo mancasse un pezzo fondamentale, il giocatore in grado di tirare fuori dalle secche un attacco che, specialmente a metà campo, ha nel solo Joel Embiid un giocatore con punti nelle mani. Questo balbettante inizio di stagione non ha fatto altro che confermare quelle sensazioni: i Sixers sono una squadra Embiid-dipendente negli ultimi quarti, durante i quali hanno il quart’ultimo attacco della lega (101.7 punti su 100 possessi) e, ancora peggio, la terz’ultima difesa, complice una mancanza di concentrazione e di “consistenza” che a tratti è sembrata preoccupante.

Cambiare questi aspetti dei Sixers sarà il compito principale di Jimmy Butler, che arriva in Pennsylvania insieme all’infortunato Justin Patton in cambio di due titolari come Robert Covington e Dario Saric, oltre al contratto in scadenza di Jerryd Bayless e una seconda scelta al Draft 2020. Questo scambio “2 per 1” accorcia la già sospetta rotazione dei Sixers di un elemento, e i dubbi sul fit caratteriale di Butler in uno spogliatoio già pieno di personalità forti sono concreti, ma una volta che si guarda alla “big picture”, è facile capire perché i Sixers abbiano deciso di fare questo scambio. Prendere una stella è sempre stato il piano di Philadelphia sin da quando è cominciato il Process di Sam Hinkie, visto che — seguendo la dottrina di Daryl Morey — solo aggiungendone il più possibile si può pensare di arrivare al titolo. Per quanto siano stati importanti due giocatori come Covington e Saric, non è impossibile trovare giocatori che possano fare il 70/80% di quello che loro portavano alla causa; al contrario, il contributo in termini di carisma, personalità e doti tecniche di una stella è per sua definizione difficilmente sostituibile — ed è il motivo per cui Tom Thibodeau ha fatto così fatica a lasciar andare Butler, peraltro suo pupillo da sempre.

L'ultima prestazione da Jimmy Butler di Jimmy Butler in maglia T'Wolves.

In sostanza il ragionamento è: se hai la possibilità di prendere un top-15 della lega cedendo due giocatori certamente importanti, ma pur sempre “di complemento” nel grande schema delle cose, e per di più senza cedere nulla di importante in termini di talento giovane o di scelte al Draft, sei quasi obbligato a farlo da come si è evoluta la NBA contemporanea. In questo inizio balbettante i Sixers probabilmente si erano accorti che questa squadra, per come era costruita, non sarebbe riuscita a competere sul serio con le varie Toronto, Boston e Milwaukee della Eastern Conference, e probabilmente anche in una serie contro gli Indiana Pacers l’esito non sarebbe stato così scontato.

Butler invece può dare quella varietà offensiva che ai Sixers manca: è già da ora il miglior giocatore di pick and roll del roster, non ha alcun problema ad assumersi le responsabilità dei tiri pesanti (Karl-Anthony Towns vi direbbe “Pure troppo”) e in difesa è comunque in grado di prendersi in carico la stella offensiva degli avversari, che sia Jayson Tatum, Kawhi Leonard, Giannis Antetokounmpo o Victor Oladipo. Alla soglia dei 30 anni, Butler non è più il mastino difensivo dei tempi di Chicago, ma è un difensore sulla palla migliore rispetto a Covington (che dà il suo meglio muovendosi sulle linee di passaggio piuttosto che in uno-contro-uno) e, con tutto il talento di questa squadra, può almeno teoricamente spendere più energie nella metà campo difensiva piuttosto che in quella offensiva, lasciando che almeno per i primi tre quarti siano Ben Simmons (in transizione) e Joel Embiid (nell’attacco a metà campo) a prendersi a utilizzare il maggior numero di possessi.

La co-esistenza con Simmons ed Embiid

Proprio dalla co-esistenza con le altre due stelle — lasciando un attimo da parte la questione riguardante Markelle Fultz, sul quale la giuria è ancora chiusissima in camera di consiglio ma che potrebbe essere presto riportato in un ruolo in uscita dalla panchina, anche per la convivenza complicata con un altro non-tiratore come Simmons — derivano i dubbi maggiori riguardanti questo scambio. Butler ha avuto grossi problemi nel condividere lo spogliatoio con giocatori giovani tanto a Chicago quanto a Minneapolis, imponendo la sua cultura di “giocatore che si è fatto da solo” e il suo status di superstar con la forza piuttosto che conquistandoselo. Un difetto caratteriale che era già noto da tempo e che si è solamente acuito nel suo unico anno con i Timberwolves, finendo per stare sui nervi di buona parte dei suoi compagni — specialmente quelli più giovani e talentuosi.

E anche se Wiggins e Towns hanno caratteri completamente differenti rispetto a quelli di Simmons ed Embiid, sarà interessante notare che dinamica si creerà in quello spogliatoio: le due stelle dei Sixers sono personaggi in rampa di lancio della lega e sono in quella fase della loro carriera in cui vogliono affermarsi nella gerarchia dei grandi nomi della NBA più che vincere a qualsiasi costo (pensando che comunque ci sarà tempo in futuro), mentre Butler sente ticchettare le lancette dell’orologio all’interno del proprio corpo già piagato dagli infortuni e non ha più tempo da perdere se vuole competere davvero per il titolo. Gestire questa differenza tra le priorità dei giocatori più importanti sarà il compito più importante di coach Brett Brown, laddove gli ultimi allenatori di Butler — da Fred Hoiberg a Tom Thibodeau — hanno fallito miseramente.

Dalla parte dei Sixers gioca però la motivazione ulteriore (o forse sarebbe dire la più grande?) di Butler in questa stagione: il contrattone da firmare a fine anno. Non è un mistero che il peccato originale dei T’Wolves nei confronti di Butler sia stato quello di non offrirgli una rinegoziazione ed estensione di contratto al massimo salariale nel corso dell’ultima estate, per la quale avrebbero dovuto rinunciare a Andrew Wiggins sostanzialmente in cambio di nulla. Per quanto dica il contrario in pubblico, per Butler questa stagione è una questione di soldi: a fine anno vuole fortissimamente firmare quel contratto da 190 milioni di dollari in cinque anni che sistemerà definitivamente la sua carriera portandolo alla soglia dei 35 anni, e i Sixers — che comunque devono legittimamente pensare se vogliono darglielo, al netto delle parole di rito di grande positività dopo lo scambio — possono giocare questa motivazione a loro favore.

Innanzitutto Butler sa di non potersi permettere le “piazzate” che hanno contrassegnato il suo ultimo periodo in Minnesota, e che se dimostrerà di non poter coesistere caratterialmente e tecnicamente con le due stelle già sotto contratto, il suo tempo a Philadelphia sarà molto limitato — portandolo a dover considerare un contratto meno remunerativo da quattro anni e 140 milioni con un’altra franchigia. Inoltre, Philadelphia ha la possibilità di valutare da qui a fine giugno se il fit può funzionare sul lungo periodo, cosa che invece non avrebbe potuto fare a luglio del prossimo anno utilizzando il proprio prezioso spazio salariale per firmarlo con un contratto lungo e oneroso senza una base su cui poter fare le proprie considerazioni. Fondamentalmente Butler si trova davanti a un “periodo di prova” di sette mesi e mezzo in cui dovrà mostrare di poter essere il giocatore che porta Philadelphia a fare il salto di qualità.

Si riparte da qui per fare molto meglio di così.

I Timberwolves possono cominciare a guardare al futuro

Merita un approfondimento anche la situazione dalla parte di Minnesota, che finalmente può mettersi alle spalle una situazione che è stata semplicemente imbarazzante per tutte le parti in causa. Senza tornare nel dettaglio in tutto quello che è successo, la cosa che spicca maggiormente nel report iniziale di Adrian Wojnarowski di ESPN è che Thibodeau si sarebbe convinto definitivamente che Butler andasse scambiato solamente dopo le cinque sconfitte consecutive culminate con quella a Sacramento, accorgendosi improvvisamente che le cose non potevano funzionare. Lo stesso Woj ha poi raddrizzato il tiro con un altro pezzo molto duro facendo capire come non sia arrivata una folgorazione sulla via di Damasco, quanto piuttosto una chiamata dall’alto del proprietario Glen Taylor per imporre di non vedere più Butler in campo con la maglia dei T’Wolves, premurandosi in prima persona di chiudere lo scambio con Philly.

La gestione del caso Butler dovrebbe essere stata la pietra tombale dell’esperienza di Thibodeau a Minneapolis, visto che — secondo quanto scritto da ESPN — già in estate il proprietario aveva pensato di sollevare lui e il General Manager Scott Layden dalle loro responsabilità. Al di là di tutto quello che ha fatto Butler, che di certo ha parecchie colpe con il suo comportamento non irreprensibile, la mancanza di punizioni da parte di Thibs e della franchigia in generale hanno fatto crollare la credibilità tanto all’interno dello spogliatoio quanto al resto della lega. Considerando il pessimo inizio di stagione dei T’Wolves, non è irragionevole pensare che l’ex coach dei Bulls stia allenando per la sua carriera, prima ancora che per il suo futuro in città che ormai sembra segnato. Questo è uno dei motivi per cui accettare quattro prime scelte da parte degli Houston Rockets non era realistico: Thibodeau dovrà dimostrare da qui a fine stagione di essere ancora un capo-allenatore appetibile per un’altra franchigia, evolvendo verso un gioco più moderno un roster che guadagna due giocatori in grado di giocare lontano dalla palla come Covington e Saric.

I due ex di Philadelphia potrebbero entrare in quintetto fin da subito, spostando Taj Gibson in un ruolo più consono al suo attuale momento della carriera in uscita dalla panchina e fornendo quelle spaziature così necessarie nell’attacco dei T’Wolves. Con Teague o Rose in cabina di regia, due esterni come Wiggins e Covington e due lunghi come Saric e Towns, Minnesota dovrebbe essere in grado di giocare in maniera quantomeno competente sui due lati del campo, anche se il grosso del lavoro andrà fatto dal punto di vista motivazionale più che tecnico. Thibodeau dovrà cancellare gli ultimi terribili mesi della sua gestione riconsegnando responsabilità tecniche e caratteriali nelle mani di Towns e Wiggins, ora definitivamente chiamati a fare un passo in avanti senza potersi più nascondere dietro alla personalità di Butler, cominciando a legittimare sul campo i contratti al massimo salariale firmati nell’ultimo anno.

Il calendario viene in loro favore: dieci delle prossime dodici partite si giocheranno davanti al pubblico di casa (per la verità piuttosto freddo in questo periodo, altro motivo di preoccupazione per la franchigia) e le uniche due trasferte saranno a Brooklyn e Cleveland. Questo periodo di gare tutto sommato abbordabile sarà già uno snodo cruciale della parabola della franchigia, visto che — se andassero male — non è impensabile che Thibodeau venga immediatamente sollevato dal suo incarico, al netto delle penali che i T’Wolves dovrebbero pagargli per togliergli entrambi i ruoli. Dopo i playoff raggiunti nella scorsa stagione per interrompere un digiuno durato 14 anni, a Minneapolis è già tempo di pensare di nuovo al futuro: se non altro, i contratti di Covington e Saric danno un po’ di stabilità a un gruppo che nelle ultime stagioni è cambiato moltissimo, creando un nucleo che ora condivide le stesse tempistiche degli sviluppi di Wiggins e Towns. Se sarà Tom Thibodeau a portarli verso la prossima fase non è dato saperlo, ma di sicuro sarà interessante seguirlo già dalle prossime dodici partite.

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