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KaWhy?
20 lug 2018
Tutte le domande sullo scambio che ha portato Kawhi Leonard ai Toronto Raptors.
(articolo)
17 min
(copertina)
Mark Sobhani/Getty Images
(copertina) Mark Sobhani/Getty Images
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«That’s what’s all about!».

Tutti ricordiamo come fosse ieri una delle notti più emotivamente forti – solo sportivamente parlando, per carità – di due uomini all’epoca uniti come poche altre coppie allenatore-giocatore degli ultimi anni di NBA.

È il 15 giugno 2014. Sul parquet di casa i San Antonio Spurs hanno appena vinto il loro quinto titolo NBA nella più classica delle vendette sportive contro la Miami di LeBron, Wade e Bosh, al loro ultimo atto insieme. Kawhi Leonard, la nuova stella perfetta rappresentante di tutto quell’insieme di valori attorno ai quali è stata costruita l’epica della “Spurs Culture”, sta per sollevare il premio di MVP delle Finals, il più giovane dai tempi di Magic Johnson. Incredibile a dirsi anche solo un anno prima, all’inizio della sua terza stagione NBA. Ma il lavoro fatto dagli Spurs, dal coaching staff e soprattutto da coach Gregg Popovich l’ha già portato ad un livello che forse, in un’organizzazione differente, non avrebbe mai sfiorato.

Proprio Pop, uno dei pochi santoni della palla a spicchi capace di meritarsi sul campo anno dopo anno il rinnovo di tale status e stima incondizionata, è uno dei primi che Leonard incontra sul campo invaso da tifosi, media, coriandoli, famiglie dei vincitori. L’abbraccio è passionale: raramente Pop si è visto così emozionato (poco dopo si siederà su una sedia in disparte, la testa china e le lacrime nascoste alle telecamere). Si guardano e si riabbracciano, è impossibile anche a degli occhi profani non riconoscere il più classico degli invisibili legami padre-figlio: i loro occhi sprizzano troppo di orgoglio e soddisfazione.

Popovich, testa tra le più fini che la CIA si sia fatta scappare, sta già lavorando mentalmente sulla prossima stagione, con un Leonard ancor più forte al comando: “That’s what’s all about” dice alla sua giovane superstar, battendogli forte la mano sul cuore. Ricordati bene queste emozioni, questo momento, gli dice, “sono l’unica cosa che conta”. Tutto il viaggio ha un senso se questa è la ricompensa: ed è quello che ti devi ricordare, per riportarci qui ancora e ancora e ancora. Proprio come Timmy ha fatto prima di te.

Flash forward a qualche giorno fa, mercoledì 18 luglio 2018. Quattro anni dopo – mezza era geologica, con i ritmi NBA - quella stessa frase ha acquisito un significato ancor più denso. Ma completamente opposto, quasi paradossale. «That’s what’s all about» non ha più a che fare con emozioni e futuro insieme. Tutto ciò che conta, ora, è il business.

Nelle ultime settimane in tanti hanno dovuto farci i conti: Kawhi Leonard, finito in una squadra – Toronto – che aveva espressamente rinnegato; San Antonio, costretta ad arrendersi di fronte ad uno dei casi più intricati degli ultimi anni nei rapporti tra franchigia e proprio miglior giocatore; DeMar DeRozan, spedito dall’altra parte dell’America dalla stessa squadra che due anni prima l’aveva rifirmato con un contratto da “Raptor for life”.

Come si sia arrivati a tutto questo ve l’abbiamo riassunto la settimana scorsa in quest’altro pezzo, ma ora che uno scambio finalmente si è concretizzato, ora che i danni causati sono visibili da tutte le parti, è giusto chiedersi: ma Kawhi ha realmente idea di quello che ha fatto? Come ha potuto distruggersi quel tipo di rapporto e quel tipo di relazione con gli Spurs e coach Pop, così visceralmente tanto da portare a una rottura simile? Quali sono stati gli errori degli speroni?

Nicolò Ciuppani: L’unica cosa chiara di questa vicenda così complessa è che nessuno ne esce esente da colpe. Un anno fa la superstar più fidelizzata e assoggettata alla filosofia di una franchigia era proprio Kawhi Leonard, ma per arrivare così velocemente ad un punto in cui ognuna delle due parti non vuole più sentir parlare dell’altra bisogna che si siano messi tutti di impegno per far marcire il rapporto.

Premesso questo, non ha davvero senso capire “chi ha iniziato prima” o “chi ha più colpe dell’altro” – a meno ovviamente di dover ripetere la terza classe della scuola materna. Ciò che si ricostruisce dagli ultimi mesi di questa vicenda è che gli Spurs hanno voluto salvare le apparenze, provando a giocare in una posizione di forza che tutti sapevano non avessero realmente. Il motivo però è piuttosto condivisibile: se si toglie agli Spurs la sicurezza della loro organizzazione superiore alle altre, della loro franchigia solida e inscalfibile, quel che resta è una squadra in un mercato piccolo con il miglior allenatore della storia a fine carriera e alla conclusione di un ciclo durato quanto nessun altro nella storia. Arrivati quindi al muro contro muro, si è cercato di trovare un partner nello scambio, e probabilmente l’offerta di Masai Ujiri è stata la migliore sul piatto (o l’unica disponibile).

Guardando il prezzo che le altre squadre hanno pagato per le altre superstar nell’ultimo periodo, l’offerta di Toronto non è troppo lontana da quanto la storia recente del mercato suggerisce. DeMar DeRozan è reduce da un’ottima annata, ma è un All-Star ad Est che rischia di non esserlo mai ad Ovest, non ha ancora messo su un tiro affidabile quanto si vorrebbe far credere (0/9 da tre nella serie contro Cleveland) ed è pur sempre uno dei peggiori difensori del pianeta. È facile che agli Spurs possa fare bene ed aiutarli a vincere diverse partite, ma 83 milioni completamente garantiti per i prossimi tre anni non sono proprio un prezzo abbordabile per nessuno.

Jakob Poeltl è il giovane inserito nello scambio, e sebbene abbia mostrato dei progressi dal suo anno da rookie, è anche universalmente riconosciuto come il peggior giovane del lotto pregiato dei Raptors ed è molto lontano dal poter spostare qualcosa.

Infine la prima scelta ricevuta non è così allettante come sembra, intanto perché il Draft 2019 sembra non essere particolarmente profondo, e poi perché la protezione fino alla 20 fa sì che non sia così interessante (e se a Toronto le cose dovessero naufragare non ci metterebbero molto a rientrare nel range di protezione). Infine, se la scelta dovesse cadere nella protezione si trasformerebbe immediatamente in due seconde future.

Insomma, non si può certo dire che gli Spurs non abbiano ottenuto “nulla” in cambio della loro superstar, ma neanche lontanamente si può pensare che abbiano “vinto” la trade. Come possa Ujiri essersi assicurato le prestazioni di uno dei migliori cinque giocatori del pianeta (se sano) senza dover cedere né O.G. Anunoby, né Delon Wright, né una scelta vagamente interessante resta davvero senza precedenti, e come sfregio finale gli Spurs hanno aggiunto al loro pacchetto pure Danny Green e 5 milioni di dollari cash, ovvero quasi il massimo di quanto possano offrire, per permettere a Toronto di pagare il trade kicker del contratto di Leonard.

Non esiste un modo in cui gli Spurs possano uscire immacolati dalla vicenda. Se Kawhi fosse veramente sano, il pacchetto ricevuto nello scambio sarebbe veramente poca cosa (e anche se Ujiri avesse voluto provare a fare un salary dump per scaricare il contratto scomodo di DeRozan, non avrebbe potuto trovare un’offerta migliore). Se invece Kawhi avesse davvero problemi fisici tali da comprometterne l’integrità (ai livelli di un Isaiah Thomas, per fare un paragone recente), allora si confermerebbe che a San Antonio hanno provato per mesi a forzare nel mettere in campo un giocatore infortunato.

Ovviamente nessuno può negare le colpe di Kawhi e del suo entourage o i successi passati della dirigenza degli Spurs, ma in nessun caso questo scenario può davvero rendere felice tutti i tifosi nero-argento fino in fondo.

«Il primo grado della saggezza è saper tacere» diceva l’abate francese Dinouart, confermando secoli di elogi all’arte del silenzio come virtù esclusiva dei saggi, ma non siamo sicuri che questo possa essere stato anche il caso di Kawhi Leonard. Chiusosi rapidamente in un mutismo che del resto l’aveva caratterizzato sin da inizio carriera, l’ex San Diego State ha sorpreso tutti nell’ultimo periodo - forse pure gli stessi Spurs - con un atteggiamento che di volta in volta si è rivelato essere egoista, menefreghista, debole, vigliacco.

Michele Pettene: E probabilmente una parola o una dichiarazione ufficiale in più da parte di Kawhi nella direzione giusta a buoi non ancora scappati, proprio perchè così rara, avrebbe potuto sciogliere come neve al sole tutti i dubbi, gli intrighi, i sospetti e le incomprensioni che invece hanno seguito un’insolita escalation. Difficile ricordare una presa di posizione così dura e fredda da parte di una delle organizzazioni più brillanti della storia recente dello sport professionistico USA, ma è altrettanto difficile immaginare la più altruista delle superstar dell’NBA odierna cambiare completamente “pelle” e mentalità trasformandosi in qualche mese nella più viziata, inarrivabile ed egocentrica versione di se stessa.

Il gioco del silenzio in definitiva non ha favorito nessuno. Sicuramente non gli Spurs che hanno capito poco di quanto stesse accadendo peggiorando una situazione sempre meno controllabile, ma sicuramente non Kawhi, che da tutta questa storia esce con un’immagine pubblica inquietante. Nessuna verità “ufficiale” significa tante verità “ipotetiche” che addetti ai lavori, media e fan si sono potuti creare della vicenda: un Leonard manipolato dal famigerato e ambizioso zio; un Leonard sprezzante nei confronti dei Raptors; un Leonard in fuga a NYC dallo staff degli speroni o un Leonard con il broncio bambinesco per lo scontro a muso duro con gli Spurs non sono esattamente i migliori biglietti da visita per la free agency 2019 e in generale il resto della carriera, a maggior ragione considerato il reiterato mutismo anche e soprattutto sul tema più delicato, ovvero la sua condizione fisica.

Ironico pensare che uno dei tratti caratteriali che più accomunano Tim Duncan e Kawhi Leonard – dei novelli Clint Eastwood direttamente dalla Trilogia del Dollaro con il loro minimalismo sociale –, preso da tempo come simbolo più particolare e divertente di uno dei passaggi di testimone più coerenti e azzeccati della storia recente dello sport, sia diventato rapidamente uno dei motivi principali del distacco dell’erede designato e già consacrato.

Conoscendo gli Spurs e seguendo le ultime evoluzioni di Kawhi, la “vera verissima verità” purtroppo o per fortuna non la sapremo mai, ma siamo piuttosto sicuri che ad entrambi rimarrà l’amaro in bocca per come è stata conclusa una relazione di amore sportivo che anche solo un anno fa, nonostante alcune piccole polemiche fossero già presenti, sembrava ancora ben saldo o comunque facilmente recuperabile. Una volta Leonard era soprannominato dai commentatori texani come “KaWow” per le meraviglie mostrate in campo; ora l’unica ed ultima distorsione del suo nome non può che essere “KaWhy?”, una domanda destinata a rimanere a lungo senza una degna risposta.

Siamo tutti d’accordo nell’affermare che questa passerà alla storia come la peggior sconfitta della gestione-Popovich, ma piangersi addosso non è mai stato un difetto di San Antonio e quindi guardarsi dentro per capire come e quanto si è cambiati dopo la trade rimane l’imperativo per Pop e R.C. Buford. Come si prospetta il futuro prossimo degli Spurs nell’era post-Kawhi?

Ciuppani: Quando si parla degli Spurs occorre sempre premettere che Gregg Popovich è in grado di ricavare il sangue dalle rape a comando e che, indipendentemente dal materiale tecnico a disposizione, gli Spurs avranno una buona difesa. Senza la presenza di Leonard la squadra dell’anno scorso ha comunque raccolto 42 vittorie in 73 partite, quindi aspettarsi i texani poco competitivi nella prossima stagione è un azzardo bello e buono.

Ma alla luce dello scambio appena effettuato il roster degli Spurs appare con degli enormi buchi strutturali: privandosi contemporaneamente di Green e di Leonard, gli Spurs rinunciano ai loro migliori difensori perimetrali e tiratori sugli scarichi. Il migliore rimasto a roster è Marco Belinelli, che però difensivamente non è nello stesso livello né di Kawhi né di Green; i migliori tiratori a roster di San Antonio sono Patty Mills e appunto Belinelli, nessuno dei quali è reduce da una stagione interamente convincente (anche se gli ultimi mesi del Beli a Philadelphia possono far sperare in qualcosa di meglio rispetto ad Atlanta). Il miglior tiratore nel quintetto titolare è Pau Gasol, che festeggerà i 38 anni di età nel corso del 2019.

L’altro problema è che non è chiaro come sarà strutturato il quintetto titolare degli Spurs a inizio stagione: i cinque giocatori più talentuosi a roster formerebbero un quintetto con Dejounte Murray, DeRozan, Rudy Gay, LaMarcus Aldridge e Gasol. Gli Spurs sono da anni esecutori di un gioco più interno rispetto al resto della lega, ma i soli Aldridge e DeRozan hanno tentato più conclusioni dalla media distanza di altre 6 squadreintere. Per quanto si possa avere cieca fiducia nello staff di Popovich, non sono pronto a scommettere dei soldi per credere che un quintetto del genere sia in grado di fermare con costanza degli attacchi avversari ai playoff, o anche solo nella terribile Western Conference che si prospetta quest’anno.

Gli Spurs del 2018-19 saranno sicuramente strani, come d’altro canto lo sono stati per tutta la passata stagione, e non avranno le simpatie di molti nel League Pass. La conclusione più semplice è che si tratta di una squadra a fine ciclo: a parte Murray, Derrick White, il rookie Lonnie Walker, Bryn Forbes e il neo arrivato Poeltl, tutto il resto del roster è attorno ai 30 anni o ampiamente sopra. Pare inoltre certo che Popovich non allenerà la squadra dopo le Olimpiadi del 2020 e sembra scontato affidarsi all’idea che Buford voglia far sparare a questo gruppo le ultime cartucce prima di una rifondazione totale, con un nuovo staff tecnico in panchina e un roster molto diverso.

Incredibile ma vero, in un contesto del genere c’è una franchigia che ne è uscita addirittura peggio di San Antonio dal punto di vista dell’immagine…

Pettene: Una vera impresa, ma la povera Toronto non è nuova a sentimenti simili: purtroppo la sensazione è che per Masai & Co. per riprendersi questa volta potrebbe volerci molto tempo. Ricapitolando rapidamente: a luglio 2016 Toronto rinnova con una cifra record - 139 milioni di dollari in 5 anni - il contratto di DeMar DeRozan, dichiarandolo ufficialmente simbolo della franchigia per il (teorico) successivo decennio. A luglio 2018 gli Spurs cercano una trade valida per la propria star capricciosa ed offesa col contratto in scadenza e il “segreto” sbandierato dal suo entourage ai quattro venti di voler finire ai Lakers, a casa sua e da LeBron.

I Raptors alzano la manina e offrono chi? Proprio lui, DeRozan, dimenticando qualsiasi tipo di “loyalty”, parola tirata in ballo proprio dal DeMar tradito su Instagram nelle ore successive alla trade. Ma non solo: riescono pure a farsi disprezzare a livello mondiale da un Leonard che, appresa la news, lascia uscire il rumor che a lui la meta di Toronto non interesserebbe proprio per nulla. Così, dopo aver perso l’ormai ex uomo franchigia, a distanza di 12 mesi i poveri Raptors potrebbero perderne un altro senza ricevere nulla in cambio, facendo nel frattempo la figura dei bambini ingenui alla tavola dei grandi. Non solo. C’è il rischio concreto che Leonard non riesca neppure ad iniziare la stagione regolarmente: del suo status fisico non si quasi nulla e la - pericolosa - coltre protettiva alzata da chi lo “cura” rende le cose ancor più difficili.

E se invece le cose andassero bene?

Dario Vismara: Certo, quello descritto da Miky è lo scenario peggiore possibile, ma c’è anche da considerare il rovescio della medaglia: Toronto è una città in grandissima ascesa (al netto del clima che non perdona), la tifoseria è tra le più calde di tutta la NBA, e i giocatori raccontano spesso di come giocare per i Raptors voglia dire giocare per una nazione intera, e non solo per una comunità più o meno grande come nelle altre 29 franchigie. Inoltre, se Leonard fosse al meglio fisicamente non è peregrino pensare che Toronto sia la miglior squadra della Eastern Conference – al massimo un filo indietro rispetto ai Boston Celtics, ma probabilmente avanti ai Philadelphia 76ers, e sicuramente con più possibilità di vincere il Larry O’Brien Trophy rispetto a quante ne avesse ieri.

In una lega in cui le ali poliedriche contano più di qualsiasi altro asset sia in difesa che in attacco, i Raptors possiedono una batteria di esterni mobili in grado di cambiare potenzialmente su tutti i blocchi. Il quintetto formato da Delon Wright, Danny Green, Kawhi Leonard, O.G. Anunoby e Paskal Siakam potrebbe benissimo essere il migliore in assoluto dell’intera lega dal punto di vista difensivo per la combinazione di stazza, versatilità e mobilità laterale, e in attacco creerebbe comunque problemi di accoppiamenti continui attorno allo skillset da All-NBA di Leonard. Se a questo nucleo si aggiungono l’esperienza di comprovati veterani NBA come Kyle Lowry (tutt’altro che un cattivo difensore, oltre che un ottimo tiratore dal palleggio), Serge Ibaka (pur in calo, rimane il miglior protettore del ferro del roster), Jonas Valanciunas (il centro tradizionale che in regular season fa comodo avere), C.J. Miles (non si ha mai abbastanza tiro in squadra) e Fred VanVleet (uno dei migliori giocatori in uscita dalla scorsa stagione), ecco formata una rotazione a dieci uomini profonda e versatile che a Est può assolutamente dire la sua.

Vista sotto questo punto di vista l’azzardo fatto da Ujiri trova il suo senso tecnico, ma come scritto da Zach Lowe su ESPN il GM dei Raptors è riuscito a trovare un equilibrio difficilissimo in questo scambio: se infatti le cose dovessero andare male e Leonard dovesse andarsene nel 2019, i canadesi si ritroverebbero grandissima parte del roster in scadenza nel 2020, avendo quindi un solo anno di “purgatorio” da scontare prima di avere il cap completamente sgombro da accordi per più anni, potendo cominciare un processo di ricostruzione pressoché da zero e con tutte le prime scelte ancora intonse. Lasciando da parte l’aspetto sentimentale/morale di quanto fatto da Ujiri – l’ennesima riprova del fatto che i giocatori non dovrebbero mai essere accusati di non avere “lealtà” o “amore per la maglia” quando una franchigia si può permettere di scambiare un giocatore incredibilmente leale a cui lei stessa aveva prospettato una carriera “da Kobe Bryant del Canada” –, dal punto di vista tecnico e strutturale lo scambio ha perfettamente senso per le prospettive future dei Raptors.

E DeMar DeRozan infine?

Pettene: In realtà sembra passato un secolo da quella firma con Toronto dell’1 luglio 2016: nel mezzo ci sono state soprattutto due pesanti eliminazioni nelle semifinali dei playoff ad Est contro la Cleveland di LeBron, due “sweep” senza storia che hanno fatto rivalutare radicalmente la composizione del proprio “core” a Masai Ujiri.

La conclusione, anche prima di questa trade, era già abbastanza evidente: due mezze stelle come Kyle Lowry e DeMar DeRozan non ne valgono una intera, e vincere con loro sembrava ormai utopico. Tra i due è partito il giocatore più giovane e con più mercato, ma il crudele addio alla città dove DeMar aveva pianificato il proprio futuro, a una comunità che l’aveva adottato e con cui era cresciuto portandola sulla vetta della Eastern, e il trattamento cinico ricevuto costituiscono una sonora bocciatura per lo status di superstar di DeRozan, smentita solo dall’enorme contratto che il losangeleno si dovrà portare appresso per ben tre altre stagioni.

La nuova avventura a San Antonio costituisce dunque una doppia sfida per il nativo di Compton, un altro californiano che sognava la Città degli Angeli come Kawhi ma che invece si ritroverà a sorpresa in un Texas in piena fase di ricostruzione. Tecnicamente, la flebile speranza dei tifosi Spurs è che il loro staff tecnico continui a fare quello che ha sempre fatto: migliorare enormemente i giocatori a disposizione. Con DeRozan 29enne gli insegnanti al tiro di San Antonio - che hanno trasformato un jumper inesistente come quello di Kawhi in uno dei più affidabili del pianeta - possono ripetere l’impresa, e se iniziasse pure a difendere come i suoi mezzi atletici gli dovrebbero permettere, potrebbe pure venirne fuori una stagione da rivelazione una candidatura più credibile a nuovo volto della franchigia Texana per il resto della sua carriera.

Mentalmente, a maggior ragione dopo aver pubblicamente parlato a febbraio dei suoi problemi di depressione aprendo un dibattito ben più importante di quelli cestistici, DeMar è chiamato ad un salto di livello di cui nessuno - forse egli stesso - sa se avrà nelle corde, a maggior ragione dopo il tremendo tiro mancino giocatogli da Toronto. San Antonio da questo punto di vista è probabilmente invece quanto di meglio potesse capitargli, con un coach che da sempre ama stimolare le sinapsi dei suoi giocatori grazie ad una capacità quasi unica di “arrivare”, comprendere e rinvigorire qualsiasi tipo di carattere, attitudine, essenza.

Da Stephen Jackson a Tim Duncan, passando per LaMarcus Aldridge e DeMar DeRozan. Con un’eccezione: Kawhi Leonard, l’incomprensione più grande e misteriosa. Ma per coach Pop, gli Spurs e lo stesso DeMar potrebbe essere già arrivato il momento della redenzione.

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