Con tre minuti sul cronometro del quarto periodo George Hill e Brook Lopez giocano un pick and roll centrale per ribaltare il lato, un movimento tipico della Motion Offense dei Bucks. Milwaukee è in vantaggio di 11 lunghezze contro Washington e sta per centrare l’ennesima vittoria – la nona consecutiva per la precisione – di una stagione sempre più memorabile. Lopez consegna il pallone a Khris Middleton che, senza esitare, attacca la difesa degli Wizards con una determinazione che lo porta a schiacciare di potenza, chiudendo di fatto la gara. Potrebbe essere un’azione piuttosto anonima all’interno della voracità di una regular season NBA, e invece è una giocata che contiene un valore simbolico. Con quel canestro, infatti, Middleton non solo raggiunge il suo massimo in carriera con 51 punti, ma corona una prestazione individuale (16/26 dal campo, 7/10 da tre, 12/12 ai liberi a cui aggiunge 10 rimbalzi e 6 assist) che è un perfetto manifesto ideologico del suo stile di gioco.
Una performance rotonda, completa, quasi essenziale. La partita della consacrazione di uno dei giocatori più particolari del panorama NBA attuale, che nonostante le vittorie di squadra e le due convocazioni consecutive all’All-Star Game, non è ancora riuscito ad ottenere il risalto mediatico che meriterebbe. Soprattutto per come sta giocando in questa stagione.
Verrebbe da scrivere “troppo facile”, ma segnare 51 punti in NBA non lo è mai.
Middleton è il 16° miglior realizzatore della lega su 36 minuti con 25.2 punti – gli stessi di Donovan Mitchell, mezzo punto in meno di Brandon Ingram o Devin Booker, più di Jayson Tatum, DeMar DeRozan o Nikola Jokic per capirsi – prende 7.5 rimbalzi e smista 5.1 assist (più di Kemba Walker), ovviamente tutti massimi in carriera. Nessuno tra i primi 50 giocatori per punti segnati si avvicina alla sua efficacia al tiro grazie a un 63% di percentuale reale figlio di una stagione da 50% dal campo, 42% da tre e 91% ai liberi (anche qui tutti massimi in carriera). Il numero di palle perse su cento possessi è al minimo dalla stagione da rookie nonostante il 25.5% di Usage – altro primato. La sua definitiva esplosione è uno dei motivi principali per i quali i Bucks sembrano, almeno finora, quasi ingiocabili.
Aspettando i playoff, il vero banco di prova che dirà quanto sono effettivamente cresciuti sia lui che la squadra, queste prime sessanta partite gli hanno dato modo non solo di provare la sua affidabilità offensiva – in quella partita dello scorso 29 gennaio, per esempio, non c’era Giannis Antetokounmpo – ma anche di giustificare l’enorme contratto da 178 milioni di dollari in cinque anni che i Milwaukee Bucks non avevano esitato neanche un secondo ad offrirgli la scorsa estate, nonostante lo scetticismo di buona parte della critica.
Chi è realmente Khris Middleton?
Middleton è uno dei giocatori più difficili da valutare correttamente al giorno d’oggi. Da sempre considerato come uno di quelli che “vanno visti oltre le cifre”, di cui è facilissimo farsi un’idea distorta o peggio stereotipata, il classico esempio di giocatore-da-sistema che ha bisogno di un contesto specifico per poter rendere al meglio. La sua scalata verso l’establishment della NBA è stata lenta ma inesorabile, ricca di step intermedi che gli hanno permesso di lavorare sul proprio gioco di modo da poter convertire l’iniziale scetticismo degli addetti ai lavori in un ruolo fondamentale per una squadra che punta al titolo. Middleton, insomma, è l’esempio perfetto di quella categoria di giocatori di cui si possono dire due, quattro, dieci cose completamente in contrapposizione tra loro e non essere del tutto in errore. Il suo gioco, così come la sua struttura fisica, è composto da molte contraddizioni.
Mentre il suo tiro in sospensione è sempre stato morbidissimo fin dai tempi dell’high school, il suo skill-set tecnico dava l’impressione di non potersi spingere molto oltre il semplice (si fa per dire) tirare. Per quanto braccia e gambe siano sempre state lunghissime, l’essenza sottile e affusolata del suo corpo facevano pensare a un giocatore poco resistente per poter durare al livello richiesto. Basti pensare che fino al secondo anno di superiori Middleton non solo non era in grado di schiacciare, ma non riusciva neanche a toccare il ferro, un dettaglio che rende ancora più significativa la giocata di cui abbiamo parlato all'inizio.
Se a questo si sommano una congenita incapacità di mettere su massa muscolare – il che è altrettanto vero: da quando è entrato nella lega otto anni fa ha aggiunto appena tre chili – e di muoversi e saltare come un eroe della Marvel, si giunge al perché fin dal suo ingresso nella lega l’etichetta di giocatore poco fisico, per certi versi addirittura soft, e soprattutto incredibilmente lento non lo abbia mai abbandonato. Ancora oggi una delle cose che si leggono più spesso su Middleton riguarda proprio la sua lentezza.
Un po’ di jogging prima di una tripla. Il rilascio morbidissimo è pareggiato solo dalla serafica placidità con cui si sposta da una metà campo all’altra.
I suoi highlights non sono mai patinati: il modo in cui si muove ha un che di pacato, quasi volesse far sentire più a loro agio tutti quelli che guardano uno sport altrimenti pieno di uomini che compiono gesti impossibili da replicare. Vederlo arrivare a rimorchio in transizione oppure posizionarsi per una ricezione in post basso sembra il prolungamento delle fantasie dell’uomo comune che, immedesimandosi nel contesto, riesce a seguire ogni movimento senza l’aiuto del replay. Middleton sembra davvero muoversi lentamente; ma c’è differenza tra un giocatore “lento” e uno invece “sotto controllo”, una definizione ben più corretta.
Il suo stile dinoccolato e asciutto è l’emblema di un giocatore che vuole ridurre ogni movimento nei limiti dell’indispensabile. Dovendo tenere in considerazione un fisico che non gli permette di competere sul piano della potenza pura con molti altri, Middleton ha imparato a controllare la geometria del proprio corpo e lo spazio attorno a sé. La sua natura estremamente pratica e minimale ricorda l’essenzialità dell’architettura olandese, dove ogni concetto è piegato al volere dell’utilità. Volendo utilizzare le parole di Joe Dumars, il General Manager dei Detroit Pistons che lo scelse alla 39^ posizione nel Draft del 2012, Middleton è “un giocatore che si muove al proprio ritmo”. E questa sua capacità di manipolare il tempo gli permette di utilizzare i pregi del proprio fisico per ampliare lo spettro delle soluzioni a sua disposizione – e questo vale in entrambe le metà campo.
Nella prima clip Middleton sembra aggirare il muro difensivo dei Magic, rallentando la penetrazione quasi aspettasse che i corpi degli altri finiscano con il collassare nell’attesa. Nella terza, invece, è interessante come i Bucks cerchino il mismatch contro Kemba Walker, con Middleton che costringe l’avversario a cambiare su di lui per poi far pesare la maggiore lunghezza.
Stella dalle molte facce
Anche sull’essere o meno un giocatore-da-sistema occorre fare chiarezza. Se è vero che in pochi hanno sofferto più di lui la totale assenza di un sistema codificato nella disastrosa spedizione di Team USA agli ultimi Mondiali, lo è anche il fatto che, dovendo far valere l’atipicità del proprio bagaglio tecnico-fisico, Middleton è sempre stato molto più a suo agio quando può giocare in uno-contro-uno. Nella scorsa stagione – una stagione da 60 vittorie, una finale di Conference e una linea statistica personale da 21 punti, 6.9 rimbalzi e 5 assist su 36 minuti – Middleton è stato quello che ci ha messo di più a trovare il proprio ritmo.
Basta notare la differenza tra prima e dopo la pausa per l’All-Star Game 2019 per rendersene conto.
Spesso sembra essere una cosa naturale lasciarsi condizionare da un preconcetto col quale abbiamo imparato a convivere nel tempo. Si possono fare gli esempi più disparati: dal considerare Harden un atleta “normale” al voler imporre un gioco in post basso a Porzingis per via della sua altezza, fino al perdersi nelle idiosincrasie al tiro di Ben Simmons. Con molti giocatori non possiamo utilizzare lo stesso metro di giudizio che usiamo per altri, e Middleton è sicuramente uno di questi. Il motivo per cui viene facile considerarlo un perfetto giocatore da sistema sta nella consapevolezza che Middleton è un perfetto giocatore da sistema. Il suo skill-set tecnico sommato alla sua intelligenza cestistica e alla sua capacità di trovarsi a proprio agio con o senza la palla senza perdere d’efficacia lo rendono il giocatore perfetto per una pallacanestro organizzata. Il che è anche il motivo per cui i Bucks non hanno esitato un secondo nell’offrigli il massimo salariale l’estate scorsa: perché sapevano (speravano?) che Middleton avrebbe potuto fare cose eccezionali una volta traslato il proprio gioco all’interno del nuovo sistema collettivo. Eppure è altrettanto vero che Middleton ha dovuto faticare per adattarsi all’ecosistema di Budenholzer.
Nella sconfitta al supplementare contro i Knicks del primo dicembre 2018, forse la partita che ha messo in luce maggiormente il suo disagio iniziale, Budenholzer decise di escluderlo poco dopo l’inizio della ripresa dopo due rotazioni difensive completamente sbagliate. Middleton chiuse con 10 punti (3/11) in appena 19 minuti giocati e la consapevolezza di dover ritrovare le proprie certezze in luoghi diversi rispetto a quelli in cui aveva trovato la propria confort-zone negli anni precedenti, quella della sua formazione.
Un altro esempio è quello delle scorse finali di Conference contro i Raptors, dove il secondo miglior giocatore della squadra era stato a tutti gli effetti Malcolm Brogdon, nonostante a quest’ultimo sia poi stato preferito Middleton quando in estate si sono dovuti aprire i cordoni della borsa per i rinnovi.
Joe Johnson sotto steroidi
Oggi Middleton è perfettamente integrato nel sistema dei Bucks. In una stagione in cui ogni componente del roster sembra essere migliorato rispetto a un anno fa, l’ex Pistons è indiscutibilmente il secondo miglior giocatore e sa come e quando farsi trovare pronto per riempire gli spazi lasciati da quello che con ogni probabilità sarà nuovamente l’MVP della lega. L’essersi acclimatato al nuovo habitat gli ha consentito di sbloccare un livello di confidenza tale da permettergli di fare delle cose piuttosto incredibili, soprattutto al tiro.
Quando giocava ancora a Detroit l’allora compagno di squadra Tayshaun Prince lo aveva rinominato “Baby Joe Johnson”, ma per quanto il paragone sia stato calzante per parecchio tempo, oggi Middleton è un giocatore più scientifico, più strutturato e complesso di "Iso Joe". Basterebbe vedere nella tabella qui sopra come le uniche due soluzioni offensive ad essere peggiorate rispetto al passato siano quelle in isolamento e in post basso per avere una riprova valida.
In questa stagione Middleton ha aumentato il numero dei possessi giocatori da portatore di palla primario sul pick and roll (dal 19% al 25% del totale) e appena otto giocatori in tutta la NBA tirano meglio da questa situazione: Lowry, Walker, Paul, Harden, Doncic, Lillard e Tatum. La stella dei Bucks è uno dei tiratori più mortiferi della lega, indistintamente oltre il 93° percentile sia sugli scarichi, dove è 7° assoluto – Milwaukee vanta anche il 6° (Hill) e il 12° (Marvin Williams) giocatore in questa particolare classifica – sia dal palleggio. Nessuno tranne Chris Paul tira meglio di lui dalla media distanza (52%), ma Middleton tira anche con il 52% nel resto dell’area, con il 55% da gli angoli, con il 42% da tre punti dalla fascia centrale, con un irreale 54% nelle triple aperte e con il 63% al ferro – un dato migliore di oltre sette punti percentuali rispetto al precedente massimo in carriera. Middleton sta tirando talmente bene tra i 3 e i 4 metri che non solo è nettamente il migliore in stagione (55%) ma ha fatto di quella porzione di campo il proprio playground personale, il posto dove dirigersi per prendersi un tiro in automatico, una valvola di sfogo sempre efficace per Coach Bud quando i suoi hanno bisogno di due punti sicuri.
La Middleton Zone potrebbe venir usata parecchio ai playoff, soprattutto contro squadre come Raptors e Celtics che potrebbero avere il materiale umano e tecnico per limitare lo strapotere dei Bucks.
Limitare il suo impatto al semplice tiro, però, sarebbe un errore. Middleton è un giocatore completo, capace di fare tante cose: in pratica la rappresentazione migliore per capire la forza della sua squadra. I giocatori dei Bucks sanno come muoversi, quando tagliare, quando e come bloccare per i compagni; sanno compiere quell’extra-pass fondamentale per trasformare un buon tiro in una sentenza, e, ancora più importante, hanno imparato a leggere meglio quello che le difese avversarie preparano contro di loro – una condizione esistenziale per non implodere quando l’impatto di Antetokounmpo verrà ridotto durante i playoff.
In un’epoca sempre più devota alla centralità tecnica di un singolo giocatore, del quale i Bucks sono la squadra simbolo, pensare che Milwaukee sia la miglior squadra della lega solo per la presenza di Giannis equivale a credere che Antetokounmpo sia forte soltanto perché salta altissimo e corre velocissimo. Ogni giocatore del roster sa quale sia il proprio ruolo all’interno dello spartito costruito dal coaching staff, una cosa che sembra banale ma che permette di eseguire, possesso dopo possesso, con una precisione e un’intensità impareggiabili per gli standard canonici di una regular season NBA.
Sottovalutati in attesa di consacrazione
I Bucks sono in linea per completare una delle regular season migliori di sempre, e il modello di previsione di FiveThirtyEight dice che potrebbero sfiorare le 70 vittorie (53-11 il record attuale). Quando Giannis Antetokounmpo si siede la squadra continua a sovrastare gli avversari di oltre cinque punti su cento possessi, un margine talmente ampio che Giannis è appena 104° (!) per minuti giocati nel quarto periodo. I Bucks non sono soltanto la miglior difesa della lega ma anche una delle migliori di sempre. Il 50% dei giocatori di Milwaukee possiede un rating difensivo inferiore ai 100 punti concessi su cento possessi. Nessuno concede meno tiri in area, meno sottomani, meno schiacciate (al tempo stesso nessuno concede più triple), nessuno prende più rimbalzi difensivi disponibili e riesce a piegare al proprio volere i game plan avversari.
Secondo una nuova statistica creata da Cleaning The Glass – che, per sintetizzare, si chiede che tipo di difesa avrebbe una squadra rimuovendo il contributo dei singoli e tenendo in considerazione solo l’architettura filosofica su cui poggia l’organizzazione – i Bucks restano la seconda migliore difesa della lega dietro gli Utah Jazz. I concetti di gioco seminati da Budenholzer funzionano. Esattamente come un anno fa, i Milwaukee Bucks sono la miglior squadra della NBA a questo punto della stagione.
Ma se gli scorsi playoff hanno insegnato qualcosa è che maggio e giugno sono imprevedibili. Un pallone sbatte quattro volte sul ferro, una partita finisce al triplo supplementare, un tendine salta, una farfalla sbatte le ali. Il livello richiesto per vincere un titolo NBA è altissimo e spesso sono comunque gli episodi a fare la differenza. Un dettaglio, il caso, l’essere al posto giusto nel posto giusto. I Bucks stanno cercando di arrivare a quel momento con la maggior quantità di variabili sotto controllo possibili ma potrebbe non bastare.
Un’azione che, senza mezzi termini, potrebbe decidere le sorti dei Bucks ai playoff. Il pick and roll con Giannis da bloccante e Middleton a creare dal palleggio – più tre esterni sul perimetro – dovrà funzionare molto meglio rispetto a un anno fa.
Middleton dovrà essere la garanzia che le cose vadano in una certa maniera. Chiunque segua la NBA anche solo distrattamente sa quanto sia importante questa post-season per la franchigia. I Bucks rischiano di chiudere la stagione con il più alto differenziale mai registrato nella storia della NBA, ma tutto quello di cui si parla è la free agency di Giannis e fallire a maggio equivarrebbe a rischiare di compromettere due anni di lavoro.
La presenza di Middleton in campo sarà dunque fondamentale, così come la sua capacità di creare dal palleggio e far rifiatare Giannis. Quando si arriva al vertice della competizione le difese si conoscono talmente bene da togliersi tutto il possibile, le partite diventano statiche, la palla pesa, e sopravvive chi riesce a adattarsi. Per quanto il tiro dalla media distanza sia sempre più una specie a rischio d’estinzione sui grandi volumi, resta una componente imprescindibile per arrivare al successo e nessuno più di lui possiede le caratteristiche giuste per questo. Riuscire a tenere acceso il motore dei suoi, inventando anche dal nulla, sarebbe prezioso per non sovraccaricare le già enormi incombenze di Giannis, e riuscirebbe a togliere un po’ di pressione dai tiratori e dal sistema.
Se i Bucks hanno un difetto è proprio quello di dipendere integralmente dal proprio modo di giocare, e, un po’ come gli Spurs della scorsa decade, non hanno un’alternativa valida, un piano di riserva, quando le cose si mettono male. Le squadre di Budenholzer ti sfidano a batterle al proprio gioco e quando gli avversari ci riescono diventa quasi impossibile contro-ribaltare l’esito: non è un caso, infatti, che le ultime tre eliminazioni ai playoff dell’ex assistente degli Spurs (due con Atlanta e quella dell’anno scorso contro Toronto) siano arrivate con quattro sconfitte consecutive.
L’esplosione di Middleton servirà soprattutto a riempire questa mancanza, e, qualora dovesse confermarsi anche durante la post-season, i Bucks diventerebbero davvero una squadra molto difficile da fermare. Khris Middleton ha costruito la sua carriera un mattoncino alla volta, partendo quasi dal nulla, un po’ come Giannis e molti altri giocatori dei Bucks. Adesso non resta che compiere l’ultimo passo. Quello più difficile, quello più dolce.