Il linguaggio di chi scrive o parla di NBA è caratterizzato da termini nella maggior parte dei casi mutuati dall’inglese, spesso comprensibili solo ad appassionati e addetti ai lavori, che servono per richiamare in maniera agile un concetto o una definizione. Così, quando una squadra già in difficoltà incappa in una serie prolungata di sconfitte, si dice che sta entrando in panic mode, ovvero lo stato in cui la scarsa lucidità fa sì che ogni decisione presa contribuisca solo a peggiorare ulteriormente le cose. L’ingresso in panic mode è spesso accompagnato dall’inconsapevolezza dei diretti interessati e i meccanismi che ne determinano l’evoluzione, quasi mai positiva, possono essere applicati ai singoli oltre che alle squadre. Per esempio: le ultime settimane hanno visto entrare in panic mode, o quantomeno in una specie di panic mode mediatico, Kyrie Irving e Kanye West, personaggi solo all’apparenza distanti ed esempi non proprio illuminati di gestione dell’immagine pubblica. Ad accomunarli c’è infatti molto di più dell’argomento in cui sono entrambi inciampati di recente.
Kyrie e Kanye
Per quanto diverse tra loro per natura, provenienza e percorso professionale, le figure di Kyrie Irving e Kanye West risultano in un certo senso sovrapponibili. Ad accomunare il giocatore dei Brooklyn Nets e l’autore di Donda è, non da oggi, l’utilizzo spericolato quando non addirittura incosciente della cassa di risonanza di cui i due dispongono grazie, rispettivamente, all’abilità nel giocare a pallacanestro e nel fare musica. I loro curriculum sono colmi di sparate tragicomiche che includono, tra gli altri, temi come la pandemia da Covid-19, il razzismo sistemico negli Stati Uniti, la reale esistenza dei dinosauri e il diritto all’aborto. Osservate in retrospettiva, le strade di Kyrie e Kanye appaiono quasi parallele, con la prima scelta al Draft del 2011 e il rapper originario di Chicago ad alternare successi e gratificazioni economiche alla costante costruzione di una visione megalomane e sconclusionata del ruolo di opinion leader.
Pur considerata la notevole componente di estemporaneità che ne contraddistingue le dichiarazioni, non sembra quindi casuale che nell’arco di pochi giorni sia Irving che West siano finiti al centro di polemiche furibonde per aver avallato speculazioni agghiaccianti di personaggi con un track record orribile su eventi funesti come il massacro di Sandy Hook o l’omicidio di George Floyd, e soprattutto per aver espresso giudizi a forti tinte antisemite. Prima è toccato a Kanye, che nel corso di due interviste concesse all’emittente ultra-conservatrice Fox News e al podcast Drink Champs, accompagnate da tweet espliciti, ha elargito un delirante j’accuse contro i ‘‘media ebrei’’ che a suo parere manipolano le vite dei neri americani praticando una sorta di sionismo dai contorni poco chiari.
Un estratto del lungo vaniloquio antisemita di Kanye West ai microfoni di Drink Champs.
Quindi è stato il turno di Irving, che nelle ore precedenti alla sfida giocata – e persa – dai Nets contro i Dallas Mavericks, pubblicava sul suo account Twitter un link a Hebrews to Negroes, documentario del 2018 diretto da Ronald Dalton Jr. Il documentario, tratto da un libro dello stesso Dalton, oltre al consueto repertorio di propaganda antisemita - gli ebrei in controllo di ogni settore vitale della società contemporanea, gli orrori del nazifascimo invenzioni postume per giustificarne ogni malefatta, negazione dell'Olocausto e via dicendo - si lancia anche in una ricostruzione ardita del traffico di schiavi che tra il 1700 e il 1800 avrebbe visto i mercanti ebrei tra i principali protagonisti.
Per quanto si tratti ovviamente di insinuazioni senza alcun fondamento se non di vere e proprie falsità, le uscite di Irving e West sono espressione di una corrente di pensiero molto consistente e diffusa che, a ottant’anni dall’Olocausto, corrobora ancora impulsi mai davvero sopiti. Non solo: le parole di Kyrie e Kanye si iscrivono nella lunga diatriba che da ormai più di tre secoli vede coinvolte la comunità afroamericana e quella ebraica.
Dalla guerra civile a Malcom X
Quella tra la comunità afroamericana ed ebraica è una storia che affonda le proprie radici nell’atto fondativo e nel successivo sviluppo degli Stati Uniti d’America in quanto nazione. Una lunga storia che inizia con le prime colonie oltreoceano e alterna momenti di contiguità e collaborazione come durante la guerra civile o in alcuni frangenti della nascita dei movimenti per i diritti civili nel secondo dopoguerra ad altri di forte distanza quando non addirittura di scontro aperto, come testimoniato dal lascito di eminenti intellettuali quali Malcom X e James Baldwin.
Il tema del rapporto tra le due comunità, non esente da derive razziste e correlato alla innegabile disparità economica che le caratterizza, rimane ancora oggi complicato e carico di sfumature che qui, per ragioni di spazio e di competenza, non si ritiene di poter analizzare. Ciò nonostante, è innegabile come la pallacanestro e la NBA in particolare non ne siano estranee.
Se nella storia degli Stati Uniti il rapporto tra afroamericani ed ebrei ha vissuto di vorticosi alti e bassi, in quella più ridotta della NBA le due comunità hanno rappresentato rispettivamente la linfa vitale e la spina dorsale della lega. Da un lato la percentuale di giocatori di colore viaggia costantemente oltre il 70%, dato che simboleggia solo parzialmente l’influenza a più ampio spettro che la cultura afroamericana esercita sul gioco e sulle sue diramazioni; dall’altro nei quadri dirigenziali la rappresentanza della comunità ebraica è sempre stata cospicua e assai ben qualificata. A partire da Maurice Podoloff, primo presidente della lega all’atto della sua fondazione, fino all’attuale commissioner Adam Silver e al suo illustre predecessore David Stern, molti dei nomi che hanno reso la NBA ciò che è ora arrivano proprio da lì, al pari di molti dei proprietari più in vista tra cui Joe Lacob, Mark Cuban e Steve Ballmer e, a dire il vero, anche altri ormai ex del cui operato ai piani alti dell’Olympic Tower vanno decisamente meno fieri come Robert Sarver e Donald Sterling.
È quindi difficile non intuire quali possano essere le ricadute delle teorie condivise da Irving sui suoi profili social. O meglio: è facile anzi facilissimo non averne assolutamente idea se si vive immersi in una realtà alternativa costruita attorno a macchinazioni, complotti e alla resistenza eroica di uno sparuto manipolo di eletti.
Megalomania e vittimismo
Nell’universo di Kyrie Irving e Kanye West l’indiscutibile talento di cui madre natura ha fatto loro dono e la notorietà che ne deriva sono elementi che da soli consentono di poter dire, scrivere e condividere tutto ciò che l’umore o l’ispirazione del momento consiglia senza poi dover rispondere delle conseguenze. Nella loro percezione, uscite come quelle recenti concorrono a renderli paladini della libertà di parola che si oppongono al disegno egemone di un fantasmagorico nuovo ordine mondiale, ruolo che infatti i due si riconoscono a vicenda.
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Perciò, nel caso dell’ex Duke, quando si è messi di fronte alle responsabilità che derivano dall’essere un influencer con più di venti milioni di follower solamente tra Twitter e Instagram, la reazione consiste nel troncare ogni dialogo ricorrendo a un vittimismo puerile e posticcio.
Kyrie, invece di rispondere alle domande, chiede di non essere "disumanizzato".
I trucchi retorici adottati da Irving, peraltro con scarsa astuzia oratoria, servono più che altro ad evidenziarne la pochezza argomentativa. Rifiutarsi di rispondere, come fatto nel dialogo con il giornalista di ESPN Nick Friedell, o cancellare un tweet, come avvenuto a una settimana di distanza dalla pubblicazione del link incriminato, non basta, anzi: aggiunge colori più vividi al ritratto di un uomo che proprio causa della presunzione di poter percorrere vie sconosciute ad altri si è cacciato in un vicolo cieco da cui ora diventa difficile, e forse impossibile, uscire.
Vicolo cieco
Il mondo della musica si muove attraverso vie misteriose, anche se appare improbabile che il declino di West, nel frattempo scaricato dall’agenzia che lo gestiva e da marchi di cui era testimonial come adidas e Balenciaga, si possa arrestare con facilità, mentre per quanto riguarda Irving il futuro sembra abbastanza segnato. La NBA, che fin qui ha espresso una condanna piuttosto generica delle sue uscite senza mai citarlo direttamente, ha dimostrato in questi anni di saper emarginare ed espellere con implacabile puntualità gli elementi ritenuti tossici, anche quando commettevano errori più lievi rispetto a Irving, come nel caso di Meyers Leonard.
A Brooklyn, nel frattempo, sempre meno persone vanno a vedere i Nets, e quelle che vanno in prima fila lo fanno per mandargli certi messaggi.
A fare da barriera tra Irving e il suo allontanamento dalla NBA, intesa come ecosistema mediatico ancor prima che come lega, rimane la sua capacità di fare canestro che, occorre ammetterlo, continua ad avere pochi eguali tra i contemporanei. Tuttavia, in un curioso parallelo con la pochezza delle argomentazioni a supporto dei suoi strambi teoremi, anche il rendimento di Kyrie in canotta e pantaloncini si è fatto sempre più discontinuo e sempre meno rilevante.
Durante le ultime tre stagioni, in cui i Nets non sono mai andati oltre il secondo turno di playoff, Irving ha giocato poco più di 30 partite di media in regular season, marcando visita non solo durante la regular season (a un certo punto prendendosi una “pausa dalle partite” di due settimane, di punto in bianco) ma soprattutto nei momenti decisivi dei playoff, come nel bel mezzo della serie contro i Milwaukee Bucks del 2021 (complice anche un infortunio alla caviglia) o in quella dello scorso anno contro i Boston Celtics, nella quale dopo una gara-1 pazzesca da 39 punti è sparito dal campo (46 nelle successive tre partite combinate con il 37% al tiro e il 18% da tre).
Si tratta, per quanto ovvio, di numeri fortemente influenzati dalla decisione di non vaccinarsi e dalle conseguenti assenze forzate che non gli hanno mai permesso di trovare ritmo, ma da cui traspare anche una fragilità fisica ormai innegabile. Non bastasse, pure l’atteggiamento in campo va di pari passo con questa deriva: Irving appare sempre più convinto di poter esercitare il ruolo di guida emotiva dei Nets, ma con modalità discutibili e risultati per ora parecchio deludenti.
L’idea di Irving per aiutare Ben Simmons a uscire dall’impasse mentale in cui si trova: gridargli platealmente di tirare (e poi riprenderlo anche in conferenza stampa).
Per quanto la bellezza di alcune singole giocate rimanga abbacinante, la capacità di Irving di incidere sull’andamento della squadra è ormai ridotta al minimo. Così come al minimo sembrerebbe essere ridotta la pazienza residua del proprietario dei Nets Joe Tsai, le cui esternazioni pubbliche fanno intendere che la permanenza del playmaker a Brooklyn sia destinata a protrarsi solo fino al prossimo giugno, ammesso e non concesso che Sean Marks non trovi nel frattempo il modo di liberarsene prima della scadenza del contratto. Il suo eventuale addio significherebbe la sostanziale fine del progetto nato nell’estate del 2019 e sui cui esiti fallimentari, certificati anche dal licenziamento di coach Steve Nash, avvenuto giusto ieri, pesano parecchio le parole e le azioni di Irving.
Infine, ciò che succederà d’ora in poi a Irving va necessariamente oltre la sua vicenda personale. Kyrie è infatti una delle poche stelle NBA a cui sia stato concesso di avere davvero voce in capitolo nelle decisioni prese dalla franchigia d’appartenenza, nonché uno dei vicepresidenti dell’associazione giocatori. In piena epoca di player empowerment, è chiaro che il prosieguo della sua parabola potrebbe avere un impatto su tutto l’ambiente in termini di credibilità degli atleti e quindi sui futuri rapporti di potere tra giocatori, proprietà e NBA.
Che piaccia o meno, insomma, Kyrie rappresenta una declinazione diversa, o meglio distorta del concetto di ‘‘più di un atleta’’, contraltare pressoché perfetto di modelli quasi inattaccabili come LeBron James e Steph Curry. Il modo in cui Irving ha usato e usa il potere mediatico a sua disposizione potrebbe quindi nuocere non solo a se stesso e alla squadra in cui gioca - forse anche a quelle in cui giocherà - ma a tutto il mondo della pallacanestro. Al diretto interessato, però, sembra importare poco di chi gli sta attorno, a partire dai compagni fino ai colleghi che arriveranno in NBA dopo di lui. E in definitiva questo egocentrismo, tanto esasperato da oscurare la classe pura messa in mostra sul parquet, sarà ciò per cui volente o nolente verrà ricordato Kyrie Irving.