Arrivati ormai oltre la boa di metà stagione, bisognerebbe avere più o meno un’idea chiara di quali siano i rapporti di forza all’interno della lega e di come si posizionino le varie squadre in vista della post-season. Certo, molte cose possono cambiare e molte cose ancora cambieranno, come abbiamo potuto vedere nell’ultimo mese e mezzo di regular season contrassegnato dal Covid-19 e dagli inevitabili infortuni. Ma in linea di massima le squadre hanno almeno mostrato quali sono le proprie idee tattiche, quali rotazioni possono utilizzare, di quali giocatori possono fidarsi quando si farà sul serio in primavera e quali no.
Tutte possono pensare di farlo, tranne i Los Angeles Lakers. Dei Lakers, di fatto, non sappiamo niente - o quantomeno molto poco, sicuramente meno di quello che pensavamo arrivati a questo punto della stagione. Ogni partita in cui scendono in campo sembra che siano al debutto: non sai mai chi partirà in quintetto, chi avrà minutaggio e chi no, con quale tipo di impegno si presenteranno in campo, se abbiano creato una chimica o se sia la prima volta che giocano insieme. Un’instabilità che diventa lampante quando si considera un semplice dato: il quintetto più utilizzato di questa stagione ha giocato la miseria di 147 possessi insieme, posizionandosi al 75° posto nell’intera lega. Per intenderci: non c’è nessun’altra squadra in NBA che abbia il proprio quintetto più utilizzato sotto i 223 possessi dei Sacramento Kings, e svariate franchigie hanno anche cinque o sei quintetti differenti che hanno superato quella soglia. La notizia peggiore per i Lakers? In quel quintetto non compare neanche Anthony Davis, nel secondo non c’è LeBron James, e nel terzo ci sono ancora Kent Bazemore e DeAndre Jordan, ormai finiti fuori dalla rotazione. Il valore predittivo dei loro quintetti più utilizzati, al netto dei differenziali positivi in doppia cifra nei primi due casi, è quindi pari a zero.
Insomma, arrivati a metà stagione non c’è un singolo quintetto che possa considerarsi una base di partenza su cui poter lavorare per coach Frank Vogel e il suo staff, chiamati ogni sera a inventarsi una rotazione differente sperando magicamente che qualcuno sia in serata buona e possano cavalcarlo il più possibile per quella singola partita, che del doman non v’è certezza. Specialmente per loro, visto che la soluzione a tutti i problemi visti fino a questo momento pare essere quello di licenziare Vogel, probabilmente neanche tra i primi cinque responsabili di quanto sta accadendo (per quanto sicuramente abbia una parte di colpa), ma il più facile da mandare via pensando di poter davvero cambiare qualcosa.
I fantasmi dell’estate passata
Uno dei fattori per così tanta instabilità sono di certo gli infortuni che hanno colpito a rotazione tutti i membri della squadra. L’unico a esserci sempre è stato Russell Westbrook con 45 partite disputate su 45, seguito da Carmelo Anthony con 42, mentre tutti gli altri hanno saltato almeno cinque partite, spesso anche molte di più. Solamente Westbrook, Anthony e James hanno superato la soglia dei mille minuti giocati: tra le squadre che stanno provando a vincere (quindi tolte Detroit, Houston e OKC, che hanno tutto l’interesse a provare il maggior numero di giocatori possibili), solo Brooklyn e Dallas ne hanno così pochi.
Non che fosse esattamente imprevedibile che la stagione andasse così. Dopo aver scelto di andare all-in su Russell Westbrook sacrificando la loro profondità di squadra, per forza di cose i Lakers si sono ritrovati costretti a riempire il roster con giocatori al minimo salariale (quindi a fine corsa, e più inclini agli infortuni) o con eccezioni salariali ridotte, come quella utilizzata per prendere Kendrick Nunn che ha prodotto finora un rotondissimo zero, visto che non è mai potuto scendere in campo per un problema al ginocchio che potrebbe tenerlo fuori anche tutto l’anno. A queste difficoltà oggettive nella costruzione del roster si aggiungono poi alcuni peccati originali durante l’estate che hanno continuato ad aleggiare come fantasmi sopra l’intera annata dei Lakers, a partire dalla decisione di preferire Talen Horton-Tucker ad Alex Caruso.
I Lakers hanno provato a spiegare la decisione abbozzando motivazioni economiche, nel senso che con un monte salari già così impegnato sui contratti dei Big Three (che da soli costano 121 milioni di dollari) non avrebbero potuto “permettersi” il rinnovo di entrambi a cifre consone, pena incorrere in una luxury tax astronomica. Dal punto di vista cestistico hanno preferito la gioventù e la teorica capacità palla in mano di THT rispetto alla solidità di Caruso, un giocatore che era in campo da titolare in gara-6 delle Finals nella bolla quando i Lakers hanno vinto il titolo e che godeva della fiducia incrollabile di coach Vogel. Una decisione che, considerando i problemi di Horton-Tucker e l’impatto che ha avuto Alex Caruso sui Chicago Bulls, si è rivelata indiscutibilmente, inevitabilmente e drammaticamente errata — e che, a voler pensare male, si spiega più con l’agenzia che rappresenta THT (la Klutch Sports di Rich Paul, e quindi di LeBron James e Anthony Davis) che con i veri valori cestistici dei due giocatori in questione.
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Secondo quanto fatto intendere da Caruso, l’offerta iniziale dei Lakers è stata inferiore a un biennale da 15 milioni di dollari complessivi: ha finito per firmare con Chicago un quadriennale da 37 milioni.
La proprietà e la dirigenza dei Lakers avrebbe potuto tagliare la testa al toro semplicemente accollandosi entrambi gli stipendi, pagando quello che c’era da pagare di luxury tax (già ora a quota 46.3 milioni di dollari) ma non perdendo a zero un altro dei giocatori di rotazione del ciclo precedente, dopo aver già eroso il capitale atletico della squadra cedendo i vari Kentavious Caldwell-Pope, Kyle Kuzma e Montrezl Harrell nello scambio per Westbrook. Presi singolarmente magari nessuno di quei tre sarebbe stato indispensabile per i Lakers e ciascuno, in un modo o nell’altro, è stato vittima delle ire dei tifosi gialloviola. Ma forse la dirigenza guidata da Rob Pelinka e dal consigliere/presidente ombra Kurt Rambis (che mantiene un potere straordinario all’interno della franchigia, e non in senso positivo) pensava che tre stelle del livello di James, Davis e Westbrook bastassero per nascondere sotto al tappeto del loro talento tutta la polvere di un roster, diciamo così, attempato, sottovalutando quello che davano quei giocatori persi in estate.
Il punto di non ritorno, almeno fino al prossimo
Ci sono partite in cui i Lakers sembrano semplicemente incapaci di tenere il passo degli avversari prima di tutto dal punto di vista di impegno mentale, prima ancora che di sforzo atletico. L’emblema di tutto questo è il clamoroso -37 subito per mano dei Denver Nuggets, che nel momento stesso in cui è accaduto è sembrato il punto di svolta della stagione — nel senso che da quel momento in poi o i Lakers si sarebbero rialzati, oppure sarebbero affondati con tutta la barca. Una sconfitta talmente pesante che LeBron James non solo non ha parlato con la stampa (giustificandosi qualche giorno dopo dicendo «Non mi sarebbe piaciuto quello che sarebbe uscito dalla mia bocca, perciò ho deciso di non parlare»), ma si è anche sentito in dovere di scusarsi con i tifosi per quanto accaduto (rispondendo indirettamente così ai tweet di Magic Johnson, accolti piuttosto male all’interno dello spogliatoio visto anche il modo hollywoodiano con cui li aveva lasciati di punto in bianco nel 2019).
I tweet di Magic Johnson hanno nascosto per qualche giorno ciò che stava avvenendo dietro le quinte di El Segundo, e cioè l’imminente licenziamento di Vogel. Secondo quanto scritto da The Athletic e il Los Angeles Times, l’allenatore sarebbe stato sicuramente licenziato se contro gli Utah Jazz fosse arrivata un’altra sconfitta pesante, mettendo fine a un triennio in cui i Lakers sono tornati a essere una contender, o almeno a sentirsi tale, anche grazie a lui. Che Vogel sia un’anatra zoppa è tristemente chiaro a tutti fin da inizio anno: l’estensione di contratto ottenuta in estate è stata di una sola stagione, portando la scadenza dell’accordo dal 2022 al 2023 — non esattamente un voto di fiducia da parte di proprietà e dirigenza, e probabilmente anche dello spogliatoio. A inizio dicembre, quando era stato chiesto a LeBron James una valutazione su Vogel, disse: «Le critiche fanno parte del lavoro: Frank è un ragazzo determinato, e ha un grande staff alle spalle», riuscendo a fare i complimenti ai suoi assistenti e non a lui. Dopo una sconfitta nel derby coi Clippers, tanto lui quanto Anthony Davis hanno riempito di complimenti Tyronn Lue in maniera inconsueta per un allenatore avversario.
Prima della partita contro i Jazz, consapevole forse che il suo destino sarebbe dipeso da quella partita (e continua a essere in bilico, specie dopo il ko con Indiana), Vogel aveva provato a difendere il suo operato e quello dei suoi collaboratori, lanciando anche diverse frecciate all’interno della franchigia. «Il coaching staff lavora instancabilmente ogni singolo giorno, sia nell’analizzare le nostre partite dopo la sirena finale, nell’incontrare i nostri giocatori per mostrare in cosa devono migliorare e in cosa stanno andando bene, e nel mettere assieme il piano partita» ha detto alzando un po’ i toni. «Quando pianifichiamo la gara il margine di errore è risicato. Dobbiamo essere perfetti in tutte le nostre coperture. Noi sappiamo come costruire una difesa élite: non siamo ancora riusciti a formarla con questo gruppo, ma il lavoro che facciamo c’è sempre. E quando lavori a qualcosa, avrai dei miglioramenti».
A voler leggere tra le righe, due sono gli aspetti interessanti: il fatto che sottolinei non solo la bontà del proprio lavoro, ma anche la quantità di ore spese per farlo ogni singolo giorno (come a dire che qualcun altro, magari all’interno della dirigenza, non ci mette o non ci ha messo lo stesso impegno); e il modo in cui fa intendere che la quantità di talento datagli in mano è troppo scarsa per pensare di poter costruire una difesa d’élite come era riuscito a fare non solo nell’anno del titolo, ma anche la stagione passata. Pur con tutti gli infortuni avuti lo scorso anno, infatti, i Lakers avevano la seconda miglior difesa della lega ed erano in top-10 per tutti gli indicatori statistici, un risultato semplicemente irraggiungibile per il talento difensivo a dir poco risicato del roster di quest’anno.
Le infinite sperimentazioni di Vogel
In qualunque posizione i Lakers hanno cattivi difensori, a partire da Westbrook per passare ai vari Malik Monk, Wayne Ellington, Carmelo Anthony, DeAndre Jordan, Trevor Ariza e Kent Bazemore (questi ultimi più per motivi anagrafici, ma la realtà dei fatti è questa). Tutti giocatori che molto probabilmente non entrerebbero nella rotazione playoff ridotte a 7/8 uomini di una squadra che punta al titolo, e che invece ai Lakers sono chiamati ad avere un ruolo fondamentale per mettere assieme 48 minuti di livello decente. Non è un caso che Avery Bradley, ripescato dal dimenticatoio dopo una stagione 2020-21 da sole 27 partite disputate tra Miami e Houston, sia un titolare pressoché inamovibile per Vogel, che si affida a lui per avere almeno un giocatore capace di eseguire uno schema difensivo senza perdersi alla prima rotazione, che possa prendere in consegna le point guard che Westbrook non può marcare e che possa segnare una tripla aperta (44% dagli angoli in stagione, 38% complessivo). E anche Austin Reaves, che ha cominciato la stagione con un contratto two-way, è chiamato ogni sera a dare un contributo forse al di sopra delle sue possibilità.
Non potendosi affidare a combinazioni che funzionano per i ben noti motivi di assenze e mancanza di dati, coach Vogel si è dovuto arrangiare nel cercare di evitare quello che non funzionava, facendo un lavoro di sottrazione tentativo dopo tentativo. E ben presto si è reso conto anche lui di un’equazione molto semplice: avere Russell Westbrook in campo al fianco di un giocatore che domina il pallone come LeBron James equivale a non potersi permettere un centro statico come Dwight Howard o DeAndre Jordan, pena concedere eccessive libertà alle difese avversarie di poter congestionare l’area.
La stagione dei Lakers in un’azione: LeBron James deve fare precipitosamente marcia indietro vedendo l’area completamente bloccata, e per risolvere i problemi si alza dal palleggio tirando da tre. In carriera James non ha mai tirato così tanto dall’arco (quasi 8 tentativi a partita, il suo massimo era 6.3 fissato nelle ultime due stagioni) ma per fortuna dei Lakers si mantiene al 36%, uno dei segreti di una stagione in cui sfiora i 29 punti di media.
Già gli Houston Rockets di Mike D’Antoni si erano accorti di non poter avere sia Westbrook che un centro contemporaneamente in campo, cedendo Clint Capela agli Atlanta Hawks per liberare l’area alle sue scorribande. Ma era un Westbrook più sano di quello attuale, e soprattutto capace di finire in area: quest’anno segna solamente il 56% delle sue conclusioni al ferro, vicino ai peggiori dati della sua carriera (in cui non ha mai spiccato particolarmente, al netto delle feroci schiacciate che è ancora in grado di fare quando può caricare il salto), e soprattutto calato in un contesto di spaziature enormemente migliore di quanto mai potranno fornirgli i Lakers.
Vogel, complice l’assenza di Anthony Davis, ha provato a inventarsi quintetti “small” senza lunghi di riferimento, con LeBron James, Carmelo Anthony o il recentemente firmato Stanley Johnson da 5. Strutturazioni che, almeno per un certo periodo, hanno funzionato: il già citato quintetto più utilizzato vede proprio Westbrook insieme a Monk, Bradley, Johnson e James, con un differenziale di +10.7 su 100 possessi quasi esclusivamente per meriti offensivi (123.8 punti realizzati su 100 possessi, dati Cleaning The Glass) rispetto a quelli difensivi (113.1). Ma come è facilmente immaginabile i quintetti con James da 5 soffrono a rimbalzo difensivo e soprattutto fanno fallo con frequenza altissima, rendendosi a malapena sostenibili (+2.3 su 100 possessi) nonostante l’alto rendimento offensivo del Re, che è andato a quota 30 punti in 20 delle 33 gare disputate (a 37 anni di età). E Vogel non è un allenatore che ha nelle sue corde di allenare per fare un punto in più dell’avversario, difendendo con orgoglio la sua etichetta di “defensive-minded coach” e ribadendo costantemente che una grande squadra parte da una grande difesa.
Per le due partite contro Denver e Utah, cioè contro Nikola Jokic e Rudy Gobert, Vogel ha reinserito in rotazione Dwight Howard nella speranza (vana nel primo caso, vincente nel secondo) di opporsi al centro avversario. Nel secondo caso, con la panchina di Vogel in bilico, i Lakers sono riusciti a strappare la miglior vittoria stagionale rimontando 10 punti di svantaggio nel secondo tempo, trovando però soluzioni estemporanee da Stanley Johnson capace di segnare 10 dei suoi 15 punti nell’ultimo quarto e con la disperazione della figuraccia della partita precedente ancora ben stampata nelle teste di tutti.
Quanti dei canestri realizzati da Johnson sono sostenibili e ripetibili per una squadra di alto livello?
Ma anche in questo caso: si tratta solo di una partita, e già dalla prossima è come se i Lakers dovessero ricominciare da capo. Stanley Johnson funzionerà ancora oppure cominceranno ad emergere tutti i difetti che lo hanno portato a fare dentro e fuori dalla lega a soli 25 anni? Continuerà la strutturazione con Howard titolare (contro Indiana sì, contro Orlando già è in forse)? Trevor Ariza è in grado di aprire il campo per questa squadra oppure non ne ha più nel serbatoio? Russell Westbrook sarà in versione buona, in versione cattiva o in entrambe le versioni allo stesso momento e nello stesso possesso? Talen Horton-Tucker è un giovane sul quale costruire o il primo giocatore da scambiare sul mercato?
Fino a quanto non rientrerà Anthony Davis, non c’è modo di capire cosa siano davvero questi Los Angeles Lakers. La prima metà di stagione ha fatto intendere chiaramente che non ci sia una contender per il titolo all’interno di questo gruppo, che così strutturati ci sia un limite invalicabile al talento complessivo (specialmente difensivo) della squadra in mano a Frank Vogel, che il record del 50% a cui veleggiano fin dall’inizio, in fin dei conti, ci dice quello che dobbiamo sapere: che è una squadra mediocre probabilmente da torneo play-in, come lo scorso anno. Ma possiamo dire con certezza che tra un mese sarà ancora così, dopo la deadline del mercato che potrebbe ribaltare il roster come un calzino e possibilmente con un nuovo allenatore? Se Anthony Davis dovesse tornare magicamente quello della bolla, in quante squadre possono schierare tre giocatori come lui, James e Westbrook, che al netto di tutto hanno un differenziale di +5.1 nei 602 possessi in cui hanno giocato insieme?
Quello che è certo è che li attende uno dei peggiori calendari di tutta la lega, con una trasferta killer da sei gare in trasferta a Est nello spazio di poco più di una settimana (da venerdì 21 a domenica 30 gennaio) con tappe a Miami, Brooklyn, Philadelphia e Charlotte, quattro squadre con record sopra il 50% vittorie contro cui i gialloviola in stagione sono 8-14 (solo Denver fa peggio di loro tra le squadre da playoff o play-in in entrambe le conference). Forse sarà questo scorcio di stagione a poterci dire qualcosa di concreto su questa squadra, su Frank Vogel, sulle intenzioni della dirigenza sul mercato e sull’esperimento Westbrook al fianco di James e Davis. Ma fino a quel momento, dovremo limitarci a citare Socrate: sappiamo di non sapere niente su questi Los Angeles Lakers.