Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Fare i conti con l'eliminazione di LeBron James
06 mar 2019
Cosa significa il disastro dei Los Angeles Lakers per la carriera del Re?
(articolo)
9 min
Dark mode
(ON)

Quando ha scelto di firmare per i Los Angeles Lakers, con ogni probabilità LeBron James aveva messo in preventivo che la stagione sarebbe potuta andare in maniera diversa rispetto a quanto immaginato. D’altronde era abbastanza chiaro che la parte cestistica — almeno per il primo anno — fosse stata messa un minimo da parte davanti a tutto il resto del ben di Dio che un trasferimento nella città degli angeli aveva da offrire.

Detto ciò, probabilmente neanche lui aveva immaginato che potesse andare così male, e che a inizio marzo si ritrovasse già a fare i conti con una primavera e un’intera estate per poter organizzare le riprese di Space Jam 2. Eppure è qui che ci troviamo: con la sconfitta nel derby con i cugini dei Clippers, i Lakers si sono ritrovati a cinque partite e mezza di distanza dall’ottavo posto a Ovest quando mancano solamente 18 gare alla fine della regular season, le probabilità che centrino la post-season si assestano attorno al 2%.

Come se non bastasse, il tanto atteso sorpasso nella classifica marcatori ogni epoca ai danni di Michael Jordan — salendo al quarto posto e mettendosi in scia a Kareem Abdul-Jabbar, Karl Malone e Kobe Bryant — sta per arrivare nel momento più basso della sua storia post-primo titolo. Tanto che, per usare le parole di un pezzo di The Undefeated, viene da chiedersi come possa “davvero interessare un matrimonio quando la chiesa sta andando a fuoco”. La storia quando accade davanti ai nostri occhi va celebrata, come è giusto che sia, ma di voglia di festeggiare deve essercene davvero poca perché la stagione è ormai deragliata e, come sempre accade a Los Angeles, lo ha fatto in maniera tristemente spettacolare.

Il crollo dell’impero gialloviola

C’è sempre qualcosa di speciale nel modo in cui falliscono i Los Angeles Lakers. Sarà per l’indiscutibile allure della franchigia o per la presenza di Hollywood nelle colline dell’area metropolitana, ma sembra sempre che i gialloviola possano crollare solamente in maniera pirotecnica. O forse è la percezione che ci dà una franchigia che vive perennemente nell’occhio del ciclone.

Il modo in cui sono crollati questi Lakers ha tutti i crismi dello psicodramma hollywoodiano: le incessanti voci di corridoio sulla traballante panchina di coach Luke Walton già da inizio anno; le prestazioni deludenti sul parquet e le aspettative mancate; lo scontro generazionale “giovani vs veterani”; gli infortuni; i rumors di mercato; le grandi vittorie e le sconfitte ingiustificabili contro squadre dal record ultra-perdente (senza le quali, comunque, staremmo parlando di un’altra storia). L’unica cosa da mettere in preventivo della stagione dei Lakers era che si trasformasse in fretta in un gran casino, perché oramai sembra che ovunque si muova James debba circondarlo il caos — a volte creato da lui in prima persona, a volte come effetto naturale del suo personaggio larger than basketball.

Per questo diventa anche difficile capire dove finiscono le sue responsabilità per il fallimento della stagione di L.A. e dove cominciano quelle degli altri, da ripartire nel peso e nelle misure adeguate. In ogni macro-argomento per vivisezionare la stagione dei Lakers c’è lo zampino di LeBron, che lo voglia oppure no: a posteriori (ma era intuibile anche prima che scendessero in campo), si può dire che la costruzione della squadra è stata completamente sbagliata, investendo posti a roster e risorse per giocatori del tutto inadeguati come Lance Stephenson, Michael Beasley e Kentavious Caldwell-Pope o senza alcun futuro come JaVale McGee, Tyson Chandler e Rajon Rondo, sacrificando il tiro e le spaziature in favore (almeno in teoria) del playmaking e della personalità dei veterani. Ma anche se la responsabilità ultima nella scelta dei giocatori risiede nelle mani di Magic Johnson e Rob Pelinka, ci è stato raccontato da subito che su tutti i free agent era stato apposto il sigillo di approvazione del Re.

Hanno avuto un enorme peso anche gli infortuni, visto che il roster non ha praticamente mai visto nessun giocatore rimanere sano dall’inizio alla fine se non Caldwell-Pope. E nessun infortunio ha avuto maggiore impatto di quello avuto da LeBron, che come tutti sappiamo ha dovuto saltare oltre un mese di regular season per un problema all’inguine che ha impiegato più tempo del previsto a essere risolto (se poi sia guarito del tutto è ancora un quesito aperto). Quell’infortunio rappresenta inevitabilmente lo spartiacque della prima stagione di James a L.A.: un po’ perché fino a quel momento le prestazioni della squadra erano state tutto sommato accettabili; un po’ perché da lì in poi tutto ha cominciato a deragliare, scivolando dal quarto al nono posto nella conference in un amen.

Di sicuro ha un peso anche il lavoro svolto da Luke Walton, che troppo spesso è sembrato un’anatra zoppa su quella panchina senza dare davvero un segnale di vita, o senza sembrare un allenatore di alto livello. Bisogna pur sempre sottolineare come il roster che gli è stato affidato fosse di difficile gestione sia a livello di personalità che di alchimie tattiche, vista la mancanza di versatilità e di tiro, ma non si può neanche ragionevolmente dire che abbia fatto un buon lavoro. Troppe volte i Lakers sono sembrati impreparati a scendere in campo dal punto di vista tecnico e tattico, per non parlare di tutte le volte in cui si sono arresi alla prima difficoltà e hanno lasciato andare la partita senza reagire. Anche nella sconfitta contro i Clippers — che era stata presentata come una must win assoluta, specialmente dopo la tremenda sconfitta a Phoenix — era palese la differenza di voglia e convinzione tra le due squadre, con Patrick Beverley che sembrava avesse più intensità di tutti i Lakers messi assieme. Questo non può che ricadere tra le responsabilità di un allenatore che, ogni volta che è stato inquadrato impietosamente dalle telecamere, sembrava affrontare la situazione come uno che passava di lì per caso.

Foto di Harry How/Getty Images

Anche qui, quanto pesa sulla situazione il fatto che LeBron non abbia mai dato un voto di fiducia a coach Walton — come peraltro non ha fatto per quasi tutti i suoi allenatori in carriera? Che fosse esplicito oppure no, James non ha mai dato l’impressione di aver sviluppato un rapporto con il suo giovane coach (scelto al suo stesso Draft del 2003, per far capire quanto sia longevo James), e questo ha finito per minarne la credibilità nei confronti dello spogliatoio e del pubblico in generale, oltre ad assottigliare ancora di più quella del front office già labile di suo.

Rimane poi da definire quanto abbia davvero pesato la tragicomica gestione dell’affaire Anthony Davis, indicata da molti insider come una reale situazione di rottura tra i giovani dello spogliatoio e lo stesso James, additato — non a torto — di voler orchestrare la loro cessione per portare AD in gialloviola subito, senza aspettare l’estate o il 2020 quando sarà free agent. Eppure quegli stessi giocatori (Ingram, Ball, Kuzma e Hart) avevano già provato qualcosa di simile alla deadline del mercato e nell’estate del 2018, quando i loro nomi — chi più chi meno — erano già stati inseriti nelle voci di scambio per Paul George prima e Kawhi Leonard dopo. Non era quindi la prima volta che capitava loro di essere al centro di rumors di mercato: possibile che la sola presenza nello spogliatoio di James e il suo diretto coinvolgimento — Rich Paul è pur sempre un suo amico di infanzia, prima ancora che il suo agente — abbia provocato tali conseguenze catastrofiche sulla chimica e sulle prestazioni in campo?

A leggere tra le righe di quanto dichiarato da Jeanie Buss all’ultima Sloan Sports Conference, verrebbe da dire di sì. La controlling owner dei gialloviola era talmente alterata dagli effetti che aveva avuto il caso-Davis sullo spogliatoio da incolpare i media — e chi sennò? — per quanto era successo, definendo la notizia che fosse stato offerto mezzo roster addirittura una “fake news”. Se davvero fosse così — ovverosia che qualcuno ha deliberatamente messo in giro una notizia falsa per creare un effetto a proprio vantaggio o semplicemente del caos — quelli da incolpare non sarebbero i giornalisti quanto i New Orleans Pelicans, che hanno fatto trapelare tutti i dettagli delle offerte anche con l'obiettivo di destabilizzare i loro rivali.

Ma visto che manca poco all’ottava stagione di Game of Thrones e Kobe Bryant ha soprannominato la Buss “TheMother of Dragons”, conviene ricordare che anche nella NBA come a Westeros “o si vince o si muore”. E in questo momento i Lakers sono morti da almeno sei stagioni pur avendo alle spalle più ricchezza di chiunque altro e una superstar del calibro di James. Per il quale, comunque, bisogna cominciare a entrare nell’ottica di idee che non stiamo più parlando del giocatore calibro-MVP a cui ci ha abituati nelle ultime, oggettivamente irreali, stagioni a Cleveland.

Foto di Harry How/Getty Images

Fare i conti con il nuovo LeBron

Da quando ha compiuto 34 anni, il Re si è ritrovato a fare i conti con un fisico che non risponde più a uno sforzo prolungato nel tempo e il suo impatto sul campo da mostruoso è diventato solamente gigantesco — una differenza che salta all’occhio quando hai abituato bene i palati di tutti praticamente per 15 anni, e non più tardi di nove mesi fa segnavi 51 punti sul campo dei Golden State Warriors in Gara-1 di Finale NBA. Quella però è l’anormalità, mentre è più comprensibile quello che abbiamo visto sul parquet nelle ultime settimane, in cui il suo talento è riuscito a nascondere solo fino a un certo punto le sue mancanze difensive (che ci sono da anni, solo che il record a Est lo nascondeva un po’ meglio di quanto faccia ora a L.A.) e quelle dei suoi compagni.

Di fatto, questo LeBron James sta comunque giocando a un livello intoccabile per il 95% dei suoi colleghi, ma il fatto che il 5% lo abbia raggiunto o addirittura superato lo fa apparire più umano di quanto realmente non sia. Addirittura questo calo e il modo in cui ha deragliato la stagione dei Lakers per qualche motivo ha rimesso in discussione — almeno nella testa di alcuni — la legacy di James, come se questo fallimento possa in qualche modo intaccare quello che ha fatto nel corso della sua carriera. Il fatto che poi sia coinciso con il primo anno passato nella Western Conference invece che nell’accomodante giardino di casa della Eastern ha acuito ancora di più un discorso che — come prevedibile — ha finito per ritirare fuori anche la questione del "GOAT" in contrapposizione a Michael Jordan, argomento che inseguirà James (anche per sua espressa volontà) fino a quando non deciderà di dire basta. Per alcuni, il mancato raggiungimento dei playoff con questa squadra è l’appiglio definitivo per dimostrare come James non sia il più grande di sempre — come se sia una stagione a 34 anni compiuti a fare davvero la differenza sulla sua legacy.

Ma nella testa di James, a questo punto, risuonano solamente le parole di Kendrick Lamar: “My spot is solidified if you ask me / My name is identified as ‘that king’”. Alla fine dei conti, non sarà questa singola stagione a fare davvero la differenza su come ci ricorderemo di lui. Ma finire in una certa maniera la sua esperienza a Los Angeles avrà di sicuro un impatto su come ricorderemo il suo passaggio ai Lakers — e vivrà uno snodo fondamentale già a partire da quest’estate, alla caccia del free agent in grado di cambiare i suoi ultimi anni di carriera.

Perché, e questo possiamo darlo acclarato, LeBron James non può più fare tutto da solo come ci ha abituato fino allo scorso anno.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura