Agosto 2021. Poco distante dal centro storico di Lubiana, a un incrocio della lunga arteria cittadina chiamata Slovenska Cesta, un enorme cartellone pubblicitario mostra l’iconico urlo di Luka Doncic dopo aver segnato il famigerato buzzer beater di gara-4 in faccia a Reggie Jackson e agli L.A. Clippers nei playoff del 2020. Sullo sfondo azzurro, in grande, tre parole nella lingua del Paese: “Igra Vseh Iger”. Tradotto: la migliore di tutte le partite. Poco più in là, al semaforo, altro cartellone, stesso urlo e altra scritta: “Hvala Luka”. Grazie Luka.
Responsabili della trovata di marketing non sono né il governo sloveno né la federazione cestistica nazionale, nonostante le prime Olimpiadi nella storia della squadra maschile siano andate oltre le più rosee aspettative. A mettere soldini e idea è stato il solito, vulcanico proprietario dei Dallas Mavericks Mark Cuban. I primi cartelli sono comparsi a inizio luglio, tre settimane prima dell’atterraggio della delegazione del nuovo staff dei Mavs all’aeroporto di Lubiana-Brnik (poi ci arriviamo) con in mano il contratto da firmare che avrebbe segnato il prossimo decennio della storia della franchigia e della carriera del loro miglior giocatore. Un’estensione da record per un giocatore in uscita dal rookie contract, dal valore di 207 milioni di dollari da elargire in cinque anni, il quinto come player option.
Un gesto forse eccessivo, quello dei cartelloni, finito dritto nel lungo elenco delle mosse eccentriche e di classe che hanno reso famoso Cuban dal suo ingresso nella lega datato stagione 2000-01 e Dallas una meta ambita nonostante un appeal inferiore ai primi mercati NBA. Gesti che nascondono però anche altri sentimenti, meno euforici e più sfumati, più “paraculi” e preoccupati. Quasi come se si volesse rivolgere una preghiera, più che un ringraziamento. Come se, nemmeno troppo nascosta, dietro gli slogan fosse sempre presente un’altra scritta in sloveno: “Ti preghiamo Luka, resta qui con noi”.
Doncic non se l’è fatto ripetere due volte, a dirla tutta. Già prima di partire per Tokyo gli era stato chiesto se quest’estate avrebbe firmato la “supermax extension”. Lui, con il classico sorriso da furbetto che la sa lunga, durante le exit interview aveva replicato semplicemente «penso sappiate già la risposta». Era insomma scontato che Luka Doncic, dopo tre stagioni clamorose e due primi quintetti All-NBA consecutivi grazie ai quali avrebbe potuto accedere a una cifra più alta, sarebbe andato a batter cassa per diventare multimilionario appena le regole glielo avrebbero consentito.
Non c’era alcun dubbio, lato famiglia Doncic, sul siglare subito un contratto di quella portata. Nessuno l’avrebbe avuto. A 28 anni, quando quest’estensione scadrà, Luka Magic sarà nel suo prime, pronto per firmarne un altro potenzialmente ancor più faraonico. Doncic, con i suoi 27.7 punti, 8 rimbalzi, 8.6 assist a partita nell’ultima stagione e due serie playoff contro i Clips devastanti valeva già quest’anno il massimo salariale e lo varrà - infortuni permettendo - per altri 15 anni. Ovunque vada, ovunque gli aggrada. Firmare, incassare e vedere quel che succede sia a Dallas che all’esterno nel prossimo futuro: la posizione del Niño Maravilla era ed è chiara. Cari Dallas Mavericks, regolatevi di conseguenza.
The Texas Cuban Massacre
Il messaggio subliminale privo di fraintendimenti di un giocatore che sa bene da tempo di avere il coltello dalla parte del manico è stato probabilmente male interpretato dall’organizzazione dei Mavs che, in quello che gli americani candidamente descrivono come “overreacting”, ha semplicemente schiacciato il bottone rosso del rebuild totale nel tentativo di fare felice e tenersi buono il 22enne più forte, statisticamente almeno, della storia del gioco.
Non sarà studiata sui banchi di scuola dei prossimi anni, ma quanto accaduto a Dallas tra giugno e luglio ha tutte le stimmate di una rivoluzione sanguinosa architettata da Cuban, unico (forse…) vero factotum dell’incredibile ribaltamento dello staff dei Mavs. Considerata l’enorme mole di informazioni, aneddoti dietro le quinte ed eventi registrati negli ultimi mesi è d’obbligo un riassunto che lascerà fuori molti particolari secondari succosi: a raccontarla tutta ci vorrebbe un libro, abbiate pazienza.
Il campo, prima di tutto. Nessuno, a bocce ferme, considera la stagione 2020-21 di Dallas un’annata di successo né tantomeno di miglioramento. Se la precedente stagione, la prima ai playoff con Doncic al comando, aveva sollevato entusiasmi unanimi tra l’esplosione di Luka, la rinascita di Kristaps Porzingis, la serie combattuta e persa 4-2 contro una contender come i Clippers e l’iconico buzzer beater del numero 77 sloveno nel supplementare di gara-4, quella successiva ha demoralizzato un po’ tutto l’ambiente.
Eppure un miglioramento, seppur lieve, era arrivato. Miglior posizione nella Western Conference (quinti), percentuale di vittorie in regular di poco più alta (58%), i soliti Clippers portati fino a gara-7 nel primo turno: superficialmente la frustrazione non sembrava così giustificata. Ma guardando nel dettaglio le partite e l’andamento della stagione, di motivi per prendersela con se stessi i Mavericks ne hanno trovati fin troppi.
In ordine cronologico: la partenza ad handicap causa un Doncic presentatosi parecchio fuori forma all’esordio (incomprensioni sulle tabelle di recupero, dicono) tanto da guadagnarsi il nomignolo “Luka Donuts”; il Covid-19 a spedire mezza squadra in quarantena, chi più chi meno, fino all’inizio del nuovo anno; le grosse difficoltà post-recupero dall’operazione al menisco di Porzingis, l’ombra di se stesso per gran parte del 2021; la faida tra Luka e il lettone iniziata non si sa bene come (ci ritorniamo) ma confermata addirittura da Cuban in persona; l’andamento della serie persa contro i Clippers dopo essere stati sopra 2-0, avendo avuto enormi chance per “chiuderla” in gara-6 e avendo certificato in gara-7 che Luka — troppo solo, troppo stanco e troppo frustrato — con questo roster non sarebbe mai potuto andare troppo lontano. Sì, ragioni per avere le scatole girate a Dallas ne avevano, quando il 6 giugno 2021 la sirena finale della settima gara risuonava lugubre, sancendo la fine della stagione.
Il meglio del 2020-21 di Luka Magic.
Fuori dal campo, nel frattempo, sono successe tante altre cose che avrebbero poi portato alla rivoluzione di giugno. Coach Ricks Carlisle, icona dei Mavs alla sua 13^ stagione in Texas, non sembrava più avere il controllo della squadra, né tatticamente né mentalmente. I musi duri con Doncic non si contavano, l’attacco non è nemmeno il lontano parente di quello che solo cinque mesi prima aveva segnato il record di sempre per efficienza offensiva, le rotazioni ridotte all’osso tanto che nei playoff Carlisle sembrava ormai aver perso fiducia in tutti coloro che non si chiamassero Doncic, Tim Hardaway Jr. o Dorian Finney Smith: con lo stesso identico roster del 2020 gli indizi negativi sono tanti. Qualcosa si era rotto.
Intanto a bordo campo altri rapporti, lontani dai riflettori, precipitavano. Donnie Nelson, general manager di Dallas dal 2005 e figlio del grande coach in pensione alle Hawaii, a metà stagione chiese esplicitamente a Mark Cuban di rispettare e di far rispettare i ruoli nel front office: il dito era puntato contro tal Haralabos Voulgaris, leggenda delle scommesse NBA assunto nel 2018 da Cuban come direttore del dipartimento di ricerca quantitativa che, con sempre meno tatto, stava diventando una presenza ingombrante. Persino Doncic è stato “pescato” da The Athletic a rispondere malamente a Voulgaris, colpevole durante una gara di avergli suggerito dagli spalti di stare calmo dopo una palla persa.
Dieci giorni dopo la mesta fine della serie contro Los Angeles sono arrivate le prime due notizie-shock: il 16 giugno Donnie Nelson risolve il contratto consensualmente (dicono “mutual” ma non è quasi mai “mutual”), il 17 giugno Rick Carlisle si dimette. Apriti cielo. Nel giro di 24 ore abbandonano Dallas due dei principali responsabili delle fortune dei Mavs del nuovo Millennio, Nelson con le scelte di Dirk Nowitzki e Luka Doncic al Draft (oltre ad altri colpi, da quello di Steve Nash nel 1998 alla costruzione della squadra del titolo del 2011), Carlisle come il coach dell’anello, dal record vincente e rispettato ovunque (13 stagioni, 54% di vittorie, un titolo Nba, due finali, tre titoli di Division).
Le reazioni sono delle più disparate, ma — complice anche l’andamento dell’ultima annata — non sono poche le opinioni favorevoli a questo brusco cambiamento voluto da un Cuban in versione presidente calcistico nostrano più che illuminato dirigente statunitense. Molti affermano che se ne sentiva il bisogno: Carlisle forse non è il coach giusto per continuare a far crescere Luka e provare a vincere con la nuova star, Nelson non ne imbrocca più una ne in free agency - il supporting cast continua a non essere all’altezza - né in sede di Draft, con le scelte degli ultimi due anni totalmente inutili.
Via libera dunque alla nuova guardia, fresca e al passo coi tempi. Ecco, forse un po’ troppo fresca: due settimane dopo l’addio a Nelson e Carlisle i Mavs annunciano la firma di Nico Harrison come nuovo general manager della franchigia. Un’altra mossa “alla Cuban” dopo essersi affidato a degli head-hunter esterni: Harrison è uomo-Nike da anni, ha già un rapporto consolidato con Doncic e con molte altre stelle della NBA. Il curriculum è però emblematico: zero esperienze pregresse nella lega.
Scattano le dietrologie. Cuban, uomo di business devoto alla visione pratica e analitica della vita professionale (di culto un suo recente dibattito su Twitter con il fondatore della criptovaluta Cardano incapace di convincerlo sulla concretezza del progetto) vuole accentrare il potere decisionale? Continuerà a coinvolgere Voulgaris? O forse crede che i soli rapporti umani di Harrison - persona brillante, ex cestista pro in Europa e da tempo nell’orbita dei front office NBA, va detto - bastino per costruire nei prossimi anni una corazzata piena di stelle da mettere al fianco di Luka?
Le risposte non le possiamo conoscere ora. Sappiamo invece che poco dopo arriva l’ufficialità anche per il nuovo head coach: Jason Kidd, una vecchia conoscenza dell’organizzazione - guidata da play titolare in due luminosi frangenti - reduce dall’esperienza vincente da assistente ai Los Angeles Lakers di LeBron James e Frank Vogel e da una (molto) meno convincente prima parte di carriera da capo allenatore ai Brooklyn Nets e ai Milwaukee Bucks.
La scelta sembra aver senso solo da due prospettive: la prima riguarda le doti già superlative di playmaking di Luka, destinate a migliorare con una delle più grandi point guard di sempre ad allenarlo ogni giorno, così come il gioco spalle a canestro di cui Kidd era maestro; la seconda ha a che fare con il concetto di “famiglia” che Cuban vorrebbe re-instaurare nella sua franchigia, chiamando a lavorare per lui il suo play del titolo, un consulente personale speciale nelle vesti di Dirk Nowitzki, un assistente GM come Michael Finley (altro ex-Maverick di lungo corso) e, notizia dell’ultima ora, Jared Dudley, il braccio nello spogliatoio di LeBron James ai Lakers oltre che veterano di lunghissimo corso. Gente fidata, alle prime armi dall’altro lato della barricata, carismatici con i giocatori, ma inesperta. Se avete anche pensato “manipolabili” come ulteriore aggettivo non siete i soli.
Tutto finito? Quasi. La ciliegina sulla torta è un ultimo addio, il più sottovalutato. Jamahl Mosley, il primo assistente allenatore di Rick Carlisle, lascia Dallas a inizio luglio per diventare capo-allenatore degli Orlando Magic. Perché sottovalutato? Mosley era considerato da mesi la principale alternativa nel caso Carlisle avesse lasciato la panchina libera: ritenuto uno degli assistenti emergenti della lega e stimato profondamente da Doncic, il coach non sembra però più rispecchiare i nuovi, singolari piani del proprietario-padrone che, fatta piazza pulita, conclude così la stramba rivoluzione dell’estate 2021 dei Dallas Mavericks.
L’estate di Luka
Intanto, dall’altra parte del mondo, alle Olimpiadi di Tokyo Luka Doncic si sta divertendo a fare i bambini coi baffi con la sua Slovenia. L’esordio contro l’Argentina è da record: 48 punti, seconda miglior prestazione di sempre ai Giochi (il mito Oscar Schmidt rimane primo a 55) e un altro classico Luka-moment. Come spesso è capitato nella sua carriera la prima partita di un evento importante — playoff NBA o nazionale che fosse — dopo un po’ di riposo alle spalle e l’adrenalina che scorre a fiumi è un trionfo totale, un dominio completo.
Il percorso della sua Slovenia, priva di Goran Dragic ritiratosi dopo l’incredibile oro europeo del 2017, prosegue spedito fino alla semifinale con la Francia. Doncic si presenta alla palla a due contro i transalpini con un record di 17 vittorie e zero sconfitte da quando ha esordito con la nazionale maggiore: ci penserà Nicolas Batum a spezzare la striscia positiva, stoppando la penetrazione di Luka sul primo possesso della partita e ri-stoppando poi a un centimetro dal ferro il tentativo di sorpasso sulla sirena di Klemen Prepelic.
Due giorni dopo l’Australia di Joe Ingles e soprattutto di Patty Mills (42 punti) infligge al WonderBoy e alla Slovenia la seconda sconfitta in fila. Il bilancio è agrodolce: la piccola nazione balcanica di due milioni di abitanti ha fatto sognare e divertire alla sua prima partecipazione olimpica, ma cade a un passo da quello che sarebbe stato un podio leggendario, perdendo la finalina per il bronzo contro i Boomers.
In molti rivedono nel cammino sloveno e nelle prestazioni a calare durante il torneo di Doncic uno specchio allarmante della stagione 2020-21 con i Dallas Mavericks. Luka, inserito senza neanche pensarci nel primo quintetto olimpico con 23.8 punti, 9.7 rimbalzi e 9.5 assist di media (anche 18 assist nella semifinale contro la Francia e 14 rimbalzi con la Spagna), oltre a confermare uno status di semi-onnipotenza a livello FIBA è al centro delle prime vere critiche della sua ancor giovane carriera.
Il meglio delle sue due settimane in Giappone.
La sindrome da Re Mida
Sul banco degli imputati, tifosi, addetti ai lavori e spettatori neutrali portano due macro-problematiche: il costante nervosismo e l’intolleranza nei confronti degli arbitraggi, e i preoccupanti cali di lucidità, efficienza e decision making nei quarti finali delle partite punto a punto che contano. Due topic che già negli Stati Uniti avevano iniziato a fagocitare la narrativa su Doncic al termine della serie al primo turno persa con i Clippers.
Sul fattore-nervosismo in realtà tutte le parti concordano: il ragazzo ha 22 anni ed è arrivato sul tetto del mondo a una velocità supersonica, a cui nessuno era preparato. Diamogli tempo, la maturità - come per tutti - arriverà presto. A Luka, come a tutte le giovani star di qualsiasi sport prima di lui, non vengono perdonate reazioni che per un normale 20enne sarebbero lo standard, una fase che tutti abbiamo attraversato (e che qualcuno continua ad attraversare nonostante gli -enta siano già stati superati da un pezzo…).
Eppure non può essere solo questo. Le reazioni di Luka su un campo da basket continuano ad apparirci esagerate, deleterie per lui, la sua credibilità e la sua squadra. Non importa la partita: se un arbitro osa non fischiargli un fallo o se la decisione prende binari anche solo minimamente diversi da quelli previsti dalla sua mente, Doncic sbrocca. Durante le Olimpiadi i falli tecnici a suo carico sono arrivati nelle vittorie contro l’Argentina quando la Slovenia era sul +26, contro il Giappone (!) sul +12, contro la Germania sul +10 e, peggio ancora, sul -4 in una tiratissima semifinale contro la Francia e sul -8 nella gara per la medaglia di bronzo contro l’Australia.
Contro la Francia, al termine di una partita che la Slovenia poteva vincere e che ha visto Luka delegare tutti i possessi cruciali nei minuti finali (c’entra un leggero infortunio durante la gara), la stella dei Mavs ha rincarato la dose gridando più volte nella media zone «Ora la FIBA sarà felice!». Come a dire: è più probabile che io abbia perso per un complotto più che per miei demeriti. Di sicuro c’entrava la rabbia per essersi fatto sfuggire la finale con Team USA, di sicuro la frustrazione era forte dopo la prima sconfitta della sua vita con la nazionale maggiore, ma il sospetto è che il Doncic debba ancora liberarsi da una sorta di “complesso di superiorità” che condiziona da sempre i fenomeni provenienti dalla regione balcanica e dalla Serbia in particolare (la famiglia lato-padre).
Oltre a ciò, se sei l’unico fenomeno mondiale non americano a cui dicono dall’età di 7 anni di essere sempre il migliore, se a 13 firmi un contratto con il Real Madrid, a 18 sei MVP dell’Eurolega e hai già vinto tutto, se a 21 sei primo quintetto NBA e se a 22 sei il volto ufficiale di un’intera nazione, forse un problema di percezione del mondo potresti averlo, nonostante le apparenze da ragazzo tranquillo e alla mano. Luka in sostanza potrebbe essere semplicemente viziato - nel senso buono della parola - dal successo: Doncic non può e non vuole perdere, non può sbagliare, cercando di trasformare ogni gesto in miracolo e ogni cosa che tocca in oro come fosse Re Mida. Quando l’errore e la sconfitta si avvicinano si arrabbia, perde lucidità, continua a forzare, strappa canotte e addirittura scoppia in lacrime (nel post-gara-7 contro i Clips così come contro la Francia, consolato proprio da Batum).
Non vediamo però all’orizzonte una figura abbastanza carismatica e credible per accelerare questa maturazione, che arriverà probabilmente più avanti di quanto ci aspettiamo. Aleksander Sekulic, il commissario tecnico della nazionale slovena, non sembra il più adatto ad indicare la via al suo giovane cavallo selvaggio, l’indiscusso condottiero - dopo il ritiro di Dragic - senza il quale la Slovenia le Olimpiadi le avrebbe guardate alla tv (a proposito: il suo pre-olimpico in Lituania è stato sensazionale), così come non ci sono compagni di squadra all’altezza del compito: al massimo poteva esserlo proprio Dragic che, prima di essere spedito a Toronto, sembrava essere finito non a caso nel mirino di Dallas.
Non ci sembra adatto nemmeno il neo-coach Jason Kidd, fantastica point guard incapace però a oggi di trasformare il proprio talento e visione sul campo in gestione saggia e professionale di uno spogliatoio. Le sue squadre, grossomodo decenti, hanno sempre avuto risultati mediocri e aneddoti preoccupanti a corredo. Uno dei più eclatanti è stato raccontato in un libro su Giannīs Antetokounmpo, nel quale si è scritto di come Kidd alla vigilia del Natale 2014, dopo una pessima sconfitta contro Charlotte, avesse prima imbarazzato pubblicamente in spogliatoio i veterani e poi avesse cancellato le vacanze natalizie nonostante sapesse che tutti avevano già pianificato di passarle in giro per gli States con le loro famiglie. Una “battaglia psicologica” che Kidd, se nel biennio ai Lakers con LBJ non ha cambiato atteggiamento, non si potrà permettere con una testa calda come Luka, diverso da Antetokounmpo nella comunicazione e nel carattere.
Mens sana in corpore sano
Se dal lato mentale quindi la situazione ci sembra ancora in alto mare, quello che Dallas e Luka possono e devono invece migliorare da subito è la condizione fisica dello sloveno, sia in generale che in vista dei finali di stagione e dei quarti periodi, soprattutto nei playoff. Tralasciando l’imbarazzante forma fisica di fine 2020 a cui Luka sembra aver già rimediato (le ultime foto di agosto lo mostrano tonico e slanciato, nonostante le bistecche tomahawk fumanti con Salt Bae...), sotto ai riflettori sono finiti i peggioramenti statistici al tiro e in fase di realizzazione dei quarti periodi dei playoff 2021 contro Kawhi Leonard e Paul George.
https://twitter.com/aom_bc/status/1427300843896836098
A Mykonos sì, ma con ritegno.
I dati sono inequivocabili e, per una volta, confermano senza eccezioni quanto visto a occhio nudo: se nei primi tre quarti Luka è stato dominante ai limiti dell’inarrestabile, nell’ultimo quarto il crollo numerico e nei risultati è stato tanto verticale quanto inevitabile. Nei quarti periodi delle sette partite contro i Clippers - ma il paragone con le sconfitte olimpiche contro Francia e Australia è immediato - Luka ha segnato mediamente molto meno (3.4 punti contro i 10.5 degli altri quarti), ha tirato in modo orrendo (16.7% da 3, 22% in generale al tiro), ha perso più palloni (1.4 di media) e, questo ve lo diciamo noi, ha forzato molto di più rispetto ai periodi precedenti, trascinato dalla foga dell’età, dalla mancanza di compagni adeguati e dal desiderio di chiuderla con la giocata da fenomeno per esaltare e farsi esaltare. Con risultati non all’altezza delle aspettative però, perché il suo step-back da tre, il marchio di fabbrica, sotto pressione diventa un tiro molto difficile sia tecnicamente che fisicamente (se come Luka lo prendi dopo 40 minuti di gioco dai 9 metri e in allontanamento...) che ormai i difensori conoscono a memoria e che leggono facilmente. Fosse più lucido (e meno testardo) potrebbe andare con più frequenza in post, generando raddoppi, falli, tiri a più alta percentuale: il suo arsenale tecnico glielo permetterebbe, la sua testa - ma anche coaching staff e compagni - fino ad oggi no.
Ecco allora che diventa necessario un salto di livello in più direzioni. Prendere consapevolezza che il suo tipo di corporatura non può essere gestito meno di un fisico come quello di LeBron James, un maestro vivente nella cura maniacale della propria persona. Il lavoro di enduring, di affaticamento, di alimentazione, di sacrificio durante l’off season sembra già imprescindibile, anche a 22 anni. Perdere un po’ di massa in favore di una maggior resistenza sulla lunga distanza potrebbe fargli molto bene: gli sforzi estivi, visto il fisico di Luka, giocoforza dovranno essere superiori alla media. Ad oggi non sembra sia così determinato su questa tematica: forse è ancora troppo condizionato da un talento meraviglioso che per tre quarti lo fa sentire il Re dell’universo, ma potremmo e vorremmo sbagliarci. Lo staff di Dallas, dopo avergli fatto firmare l’estensione contrattuale più onerosa della sua storia, dovrà negoziare su questo aspetto (a Lubiana nei giorni della firma era presente anche il responsabile atletico dei Mavs, Casey Smith), fondamentale tanto quanto la questione dei tiri liberi, un altro grande cruccio di Luka e dei Mavs durante i playoff 2021.
Sistemato l’aspetto fisico, quello mentale - sia il nervosismo sia la concentrazione che la lucidità - dovrebbe migliorare automaticamente: uno coi polpastrelli di Luka è inaccettabile possa tirare i liberi con il 53% in una serie playoff, ma è molto indicativo. I proverbi latini continuano a rimanere validi anche oggi.
Il supporting cast attorno a Doncic
Ma a poco potrebbe servire presentarsi al training camp della stagione 2021-22 in versione John Cena se i Dallas Mavericks rimarranno quelli degli scorsi playoff. Se Doncic è arrivato cotto in tutti i finali di gara tirati è stata anche colpa dei compagni di squadra che, per mancanza di talento o per altri motivi, non sono mai riusciti a togliergli parte del fardello offensivo durante il corso dell’anno. Doncic, di conseguenza, si è arrogato il diritto di gestire praticamente tutti i possessi in cui è stato in campo, non fidandosi del proprio supporting cast (ad eccezione di Hardaway) e finendo spesso e volentieri le energie fisiche e mentali ben prima del suono della sirena finale.
Anche in una gara-5 fenomenale da 42 punti e 14 assist, aveva chiuso con soli 2 punti e 1/8 al tiro nel quarto finale.
Quello del supporting cast è la ragione principe dell’allontanamento di Donnie Nelson - che Luka non ha accolto di buon grado, essendosi affezionato all’ex GM nei mesi che hanno portato al Draft 2018 e alla sua scelta - e parte dei motivi dell’addio a coach Carlisle. Un gruppo di giocatori che non ha praticamente mai permesso a Luka di riposarsi nei momenti che contavano, sia giocando per qualche minuto lontano dalla palla (in NBA quando Jalen Brunson entra in campo, in nazionale con Dragic) sia rimanendo direttamente in panchina fiducioso che il risultato non sarebbe irrimediabilmente cambiato in negativo.
Le poche volte che Doncic ha provato a giocare “off the ball”, situazione tattica in cui potrebbe provocare caterve di danni alle difese avversarie sia con la sua pericolosità gravitazionale (attirando attenzioni e spostando a suo piacimento uno o più difensori nella sua direzione) sia andando a prendere palla in post basso, era talmente stanco che ha preso spesso quei momenti come una scusa per riposarsi in campo, mettendo le mani sulle ginocchia e osservando passivamente l’evolversi dell’azione. Una situazione comune sia all’ultima stagione con Dallas sia all’esperienza olimpica con la nazionale.
Se per la Slovenia il problema è difficilmente eliminabile (ma su poche partite può pur sempre essere limitato), con i Mavericks e una stagione da 82 partite più i playoff rimane un grattacapo da risolvere alla radice. Quale sia il miglior giocatore da mettere al fianco di Luka è dibattito aperto ancora lungi dal trovare una risposta definitiva: un secondo, forte esterno capace di creare per se stesso e per gli altri? Un lungo versatile in grado di giocare fuori e dentro l’area? Un rim protector & rim runner agile e verticale ma non con le mani (e la testa) di Willie Caulie-Stein?
Nella bolla 2020 di Orlando Porzingis era sembrata una valida soluzione: pericoloso fronte canestro, ottimo nel giocare i pick-and-roll con Luka, presente in difesa. Il lettone aveva finito il 2019-20 elogiato da tutti, Doncic in primis, con 20.4 punti e 9.5 rimbalzi di media e la sensazione che il futuro per Dallas fosse più che roseo, la risposta giovane al “dynamic duo” dei Lakers composto da James e Davis.
Qualche mese più tardi, verso gennaio 2021, l’euforia attorno alla coppia era già scomparsa totalmente. La tensione era palpabile: i Mavs erano nel bel mezzo del loro peggior periodo e Doncic sembrava aver ridotto al minimo le interazioni in campo con Porzingis. L’altro - altra testa “particolare” - ricambiava e un principio di mini Guerra Fredda è sembrato investire lo spogliatoio. Non hanno contribuito a calmare le acque sia Cuban, che ha ammesso i problemi tra i due in un’intervista rimbalzata ovunque, sia Carlisle, che ha relegato Porzingis a un ruolo di spot-up shooter nei playoff difficilmente interpretabile. C’era chi parlava di rapporto ai ferri corti tra coach e lungo, chi di frustrazione del lettone e di personale vendetta nei confronti di staff e superstella slovena, chi di necessità tattica. La ragione non la sapremo mai, ma il risultato è stato evidente: nella serie contro i Clippers Porzingis ha segnato solo 13 punti di media, catturando appena 5 rimbalzi e tirando con il 29% da dietro l’arco.
A complicare ulteriormente il tutto si è aggiunta una bravata proprio durante i playoff: Porzingis, dopo gara-1 vinta a L.A., ha ritenuto che fosse cosa buona e giusta trascorrere la domenica notte in un night club. La lega se ne è accorta e, in piena pandemia, ha comminato correttamente 50.000 dollari di multa. Cuban e i Mavs hanno reagito ridendoci sopra e non dando troppo peso (pubblico) alla cosa; Doncic, si dice, l’ha presa molto meno bene.
A tre mesi da quei fatti e a un anno esatto dalla bolla di Orlando a Dallas stanno gettando acqua sul fuoco: alcuni reporter americani hanno riferito - citando fonti anonime del front office - che i rumors sui problemi dei “Donzingis” siano falsi, in realtà si vogliono bene. In molti hanno replicato che, fosse così, i due “amiconi” hanno proprio uno strano modo di dimostrarlo. I social di Doncic e Porzingis hanno vissuto due estati parallele senza mai incrociarsi e, per una generazione nata con lo smartphone in mano, la cosa è più che sintomatica. Nessun complimento pubblico da parte del lettone per l’estensione contrattuale di Luka, nessun commento verso il compagno da parte di Doncic che, anzi, ha ribadito quanto sia stato diverso giocare in nazionale dove «la chimica era superiore e tutti i compagni ti guardavano le spalle».
Fosse confermata la faida, per i Mavs rimarrebbe il problema della difficile cessione del contratto di Porzingis, 100 milioni di dollari nei prossimi tre anni per un giocatore reduce dal secondo grosso infortunio della sua carriera. Purtroppo, come già dimostrato con Anthony Davis, giocatori con quel tipo di struttura fisica hanno per definizione la parte inferiore del corpo più fragile della media degli altri atleti. Nessuno si vorrebbe accollare una tale incognita senza nemmeno averla vista all’opera da sana per un’intera stagione. Nessuno scambierebbe pezzi pregiati della propria franchigia per un secondo violino che ha chiuso le ultime tre stagioni giocando rispettivamente 48, 57 e 43 partite. E Dallas non ha prime scelte future a disposizione per ammorbidire l’offerta.
Sembra quindi che i Dallas Mavericks 2021-22 non saranno molto diversi da quelli delle ultime due stagioni, almeno nel roster. Rifirmato Hardaway - il migliore dello scorso anno dopo Luka e tiratore micidiale al fianco di Doncic -, salutato Josh Richardson (rimpiazzato con Reggie Bullock da New York, più tosto, efficace ed esperto) e recuperato un Porzingis trovato in gran forma da Kidd durante il viaggio estivo a Riga del nuovo coach, Dallas deve sperare che i due nuovi Brown (Sterling e Moses) diano solidità sui due lati del campo, che Brunson e Finney Smith continuino nella loro crescita esponenziale e che Porzingis, stando lontano dagli acciacchi, impari ad attaccare i cambi difensivi per poter ambire a una delle prime quattro posizioni di un Ovest ancor più competitivo.
I punti interrogativi alle spalle di Luka sono molti. Se Brunson non dovesse crescere continuerà a mancare un creatore di gioco che abbassi a livelli umani lo Usage Rate del numero 77 (il secondo più alto della lega del 2020-21 con il 35%); Jason Kidd dovrà dimostrare di essere maturato a livello umano e di poter gestire in modo più efficace di Carlisle il talento multifunzionale di Doncic; lo sloveno e Porzingis dovrebbero dimenticare il passato e tornare a migliorare l’uno le qualità dell’altro; Cuban e tutta la sua pletora di nuovi dirigenti dovranno rimanere vigili e attenti sul mercato, sfruttando buyout dell’ultima ora o sign-and-trade ad oggi improbabili.
Considerato il valore assoluto di un top-10 mondiale ancora 22enne, il terrore per i Mavs è che Luka e il suo carattere fumantino, cocciuto e ossessionato dalla vittoria si stufi presto di non vincere nel Texas del nord, nonostante abbia postato sul suo profilo IG la foto della firma seguita dal famoso hashtag #MFFL, Mavs Fans For Life. Un dubbio gigantesco che i Mavs hanno iniziato ad alleviare come meglio potevano mostrandosi carini e coccolosi verso la loro giovane superstar. Per ora i Mavericks rimangono come il paesaggio dietro a uno dei famosi cartelloni di Lubiana con scritto “Grazie Luka”: un cantiere a cielo aperto rozzo, spoglio ma pieno di possibilità abbellito per ora solo dalla foto di Luka Doncic.
Trasformarlo in un capolavoro d’architettura è un’impresa che richiede tempo, ma per i Dallas Mavericks - in una NBA sempre più “players-league” - il countdown è già iniziato.