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La miglior partita in NBA di Luka Doncic
10 ago 2020
La prestazione dello sloveno contro i Milwaukee Bucks di Giannis Antetokounmpo è stata un inno alla bellezza
(articolo)
10 min
(copertina)
Foto di Fernando Medina/NBAE via Getty Images
(copertina) Foto di Fernando Medina/NBAE via Getty Images
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Sarà che quattro mesi sono un periodo di tempo sufficiente per dimenticarsi di molte cose, per superare, perdonare, per lasciarsi e poi innamorarsi di nuovo. Non credo che nei quattro mesi senza NBA qualcuno si sia dimenticato di quanto sia forte Luka Doncic; credo, però, allo stesso tempo, che quattro mesi siano bastati a far sì che la meraviglia che Doncic sa suscitare in chi lo guarda - che siano fenomeni che stanno vicino a lui nella bolla di Orlando o tutti noi che stiamo in piedi la notte - sia riuscita ad avere lo stesso impatto della prima volta.

Luka Doncic lo scorso sabato notte ha segnato 39 punti, collezionato 14 rimbalzi e regalato 19 assist (suo nuovo massimo in carriera) nella vittoria al supplementare dei suoi Dallas Mavericks contro i Milwaukee Bucks. Una prestazione che ha illuminato la volta celeste delle stelle NBA discese in Florida con una potenza incredibile. E questo nonostante ce lo si potesse quasi attendere, visto che Doncic difficilmente sbaglia le partite di cartello e quella tra Dallas e Milwaukee lo era sicuramente.

Mavs contro Bucks non era soltanto Doncic contro Giannis Antetokounmpo, (possibile) Giocatore più migliorato dell’anno contro (probabile) MVP per il secondo anno in fila; ma anche miglior attacco (Dallas) contro miglior difesa, presente e futuro della NBA, del basket, della rivalità sportiva, della bellezza. E anche se è vero che la posta in palio non era la stessa per entrambe – e la differenza di minutaggio tra Doncic (42 minuti in campo, terzo minutaggio in carriera) e Giannis (33 minuti) è una testimonianza di come ai Bucks in questo momento interessi soprattutto ritrovare la condizione giusta in vista dei playoff –, sarebbe stato un peccato farsi sfuggire l’occasione di celebrare una prestazione del genere. Sarebbe stato come mettere una tassa sulla bellezza, limitarla, ridurla a una semplificazione.

E allora celebriamo la bellezza della prestazione di Doncic, e facciamolo con onestà ma anche con una sana dose di euforia, perché molte delle cose che ci ha fatto vedere sono di quelle che ti fanno saltare sul divano, rovesciare quello che stai sgranocchiando e provare l’avvolgente consapevolezza di star guardando qualcosa destinato a restare. Non c’è cosa più bella dell’assistere alla bellezza che si manifesta sotto i nostri occhi. Guardate questa azione.

In neanche due anni Doncic ha raggiunto un livello di confidenza e padronanza del proprio gioco tale da permettergli di essere sempre in assoluto controllo rispetto a quello che succede attorno a lui. Doncic sa di poter battere Wesley Matthews in uno-contro-uno e infatti mentre palleggia non sembra preoccupato di averlo davanti. Doncic ha già battuto Matthews: nella sua testa è già successo. Quello che lo sloveno sta pensando, piuttosto, è muovere Brook Lopez, attirarlo nella sua trappola, costringerlo ad uscire dall’area per mandarlo fuori tempo. Guardate come i passi di Doncic siano interamente relazionati al footwork del centro dei Bucks. Doncic può permettersi di fare una cosa del genere perché è capace di pensare con mezzo secondo d’anticipo rispetto a quanto succede sulla linea del tempo presente. Un dono unico e raro e che Doncic padroneggia da quando giocava ancora dalla parte orientale dell’Atlantico.

Talento solido

A Doncic i Mavericks chiedono di essere scintilla e ingegnere, motore e universo, architetto di ogni possesso, attento alle necessità dei compagni e in possesso di ogni schema. Come detto più volte da coach Rick Carlisle, il suo cervello è una spugna che non finisce mai di assorbire informazioni e processarle a una velocità impressionante. Doncic pensa un secondo prima degli altri perché Doncic ha accesso a più informazioni degli altri: il suo sistema nervoso gli permette di trovare le schede specifiche di ogni segmento, ogni frame, ogni glitch e ogni giocata, e di accedere quindi alle debolezze degli avversari, alle loro idiosincrasie, in egual misura con i gusti preferiti dei compagni. È come se Doncic potesse vedere la sorgente di ogni codice di ogni giocata, come un virus, che si adatta e ricopia. Il fatto che spesso si tenda a paragonare il suo gioco con quello di LeBron James è perché Doncic meglio di chiunque altro sa muoversi come LeBron, a volte anche in modo misterioso, ripetendo movimenti e gesti tecnici con una naturalezza impressionante.

LeBron è il miglior giocatore di sempre nell’abbassare la spalla opposta alla mano di penetrazione per buttarsi addosso al difensore e sbilanciarlo, facendogli perdere il tempo per trovarne uno migliore per se stesso, e chiudere al ferro conquistandosi anche l’and-one. Doncic lo ha già nell’arsenale.

Molti fenomeni dello sport sembrano suonare una melodia liquida, hanno qualcosa di metafisico nel loro gioco che permette loro, in certe situazioni, di scomporre il proprio corpo per attraversare la graticola delle dimensioni fino a trovare il pertugio giusto. Giocatori come LeBron, Giannis o Pat Mahomes sono esempi perfetti di uomini capaci di scindere l’atomo e farne quello che vogliono. Luka Doncic invece è un giocatore “solido”: assomiglia più ai grandi centrocampisti spagnoli (non solo di passaporto, vanno bene pure Modric e Kroos), possiede una struttura sempre definita, e un senso del controllo quasi fincheriano.

Doncic è pratico ma anche barocco: la componente fisica del suo gioco tende a non esaltare la spettacolarizzazione del gesto quanto la forma. Doncic non riesce quasi neanche a schiacciare senza slancio e difficilmente resta impresso perché capace di fare giocate atleticamente appariscenti; ce lo ricordiamo perché è forte e incisivo e capace di vedere e fare cose che non dovrebbero essere possibili. Lo sloveno è uno dei pochissimi giocatori di basket che è riuscito a riconvertire un concetto di matrice calcistica come quello della pausa, quel principio che, come scrive Daniele Morrone: «un calciatore usa per rallentare la velocità con cui muove la palla attraverso finte, esitazioni o semplicemente fermandosi, attendendo prima di passarla a un compagno in movimento». Sembra la didascalia perfetta per questa azione:

Con Doncic in campo i Mavericks segnano 116.7 punti su cento possessi, il che significa quasi un punto pieno in più rispetto ai 115.8 con cui in questo momento sono l’attacco statisticamente più efficiente di sempre. La sua presenza valorizza quella dei compagni, che sanno muoversi con i tempi giusti, tagliare e mantenersi in movimento, consci del fatto che il pallone arriverà puntuale. È soprattutto merito di Doncic se Dallas può vantare tre giocatori oltre l’86° percentile nel “rollare” verso canestro, ed è incredibile come ogni giocatore presente a roster fatta ad eccezione di Tim Hardaway Jr. (che comunque con lui sta avendo un ottimo rendimento) tiri meglio da tre punti dopo un assist diretto dello sloveno.

Hollywood e controllo

Carlisle è un sarto formidabile e in meno di due stagioni gli ha cucito addosso un sistema che funziona come un orologio. Il suo piano partita della scorsa notte, per esempio, era studiato nei particolari: intuendo che i Bucks avrebbero indirizzato le attenzioni di Brook Lopez su Dorian Finney-Smith, i Mavs hanno usato l’esterno come specchietto per le allodole praticamente in ogni possesso offensivo, lasciandolo ben oltre l’arco nel tentativo di costringere Lopez e il coaching staff avversario a delle scelte complicate. Ovviamente serve la bravura, la puntualità e l’esecuzione di Doncic, capace di variare la proposta senza rivelare niente in anticipo, lasciando a Lopez l’incombenza di compiere il primo passo, come un fenomenale attaccante che si appresta a battere un rigore davanti a un grande portiere.

Nove dei 19 assist dello sloveno sono stati per Finney-Smith, che con il suo 6/12 da tre ha garantito flessibilità all’attacco dei Mavs. Ancora più importante: quanti anni ci ha messo LeBron per perfezionare il laser-pass con la mano debole che taglia l’area, qui eseguito da Doncic con la stessa facilità con cui un uomo normale guarda il proprio orologio?

Nella spettacolarizzazione dell’atto, nel pralinare una giocata con quella punta eccessiva di fuochi d’artificio e solipsismo, Doncic è un giocatore quasi pornografico. Quanti altri giocatori rischierebbero un passaggio schiacciato a terra, in mezzo le gambe (!), con la mano debole (!!) sul 130-128 a poco più di un minuto dalla fine di un supplementare? Doncic si fida a tal punto dei propri mezzi da provarci (ed è un genio, uno di quei fenomeni ai quali inspiegabilmente, magicamente queste cose riescono più spesso rispetto alle persone normali), ma il vero motivo che lo spinge a farlo è l’essersi abbeverato sapientemente alla fonte dei grandi filosofi extra-americani come Drazen Petrovic o Manu Ginobili. Doncic ha assimilato la lezione: lo sport americano non è soltanto professionismo ad altissimo livello, ma anche uno show.

Una giocata che accende fantasie e fuochi d’artificio neanche fosse la parata del 4 luglio. E tanti saluti al confine sottile che separa l’entertainment puramente hollywoodiano dalla concretezza del campione che fa la differenza quanto conta.

Doncic non è solo contenitore ma anche contenuto, sabbia pregiata. Lo sloveno è in grado di fare cose che all’apparenza non sono neanche possibili come far passare un pallone attraverso le braccia protese di un Giannis Antetokounmpo talmente vicino da diventare testimonial perfetto per le campagne a favore del social distancing. Oppure attirare a sé quanti più avversari possibile con l’intenzione di mandarli fuori giri. Non è neanche tanto una questione di fisica ma di logica, perché per Doncic esiste una dimensione nella quale far collassare la difesa più forte della NBA addosso è tanto lineare quanto farsi passare un pallone tra le gambe per premiare il taglio di un compagno. E infatti funziona.

Due passaggi uno più assurdo dell’altro. Nella seconda clip il fischio dell’arbitro cancella la tripla di Finney-Smith, probabilmente perché c’è un limite a tutto, anche alla bellezza.

Lampi di futuro

Non è facile stabilire con certezza se quella di sabato notte sia stata la miglior partita di Luka Doncic in NBA. Se ne facciamo una questione di numeri, per esempio, non lo è stata. I 36 punti sono soltanto il decimo miglior tabellino della carriera oltreoceano, i 14 rimbalzi l’ottavo, le appena 2 palle perse (sì, perché in tutto questo ha perso solo due palloni) il dodicesimo. Solo per quanto riguarda gli assist Doncic è stato in grado di battersi, stabilendo un nuovo primato personale. Lo sloveno ha regalato una lunga serie di giocate illuminanti come aveva già fatto altre volte nel corso della sua carriera; è vero che alcune giocate sono state quasi più disturbanti che impressionanti (del tipo che ti viene da dire “Questo fra due anni non lo fermano neanche con le cannonate”) ma la sfrontatezza giovanile, rinfrescante, del talento di Doncic non è certamente venuto alla luce in quel momento. Quattro mesi sono tanti ma non poi così tanti.

Ma la bellezza della prestazione di Doncic è stata sinistramente illuminante, ha contribuito a piegare ancora di più il sistema cartesiano dei possibili scenari futuri della lega, della franchigia texana e anche della sua carriera. Quella di sabato è sembra una distopia per certi versi, il ruggito del felino che preannuncia l’ascesa del suo dominio.

La NBA è una lega che si concede malvolentieri a un giocatore solo. Per ogni Magic Johnson deve esserci un Larry Bird. Solamente due giocatori sono stati capaci di catalizzare tutta la luce su di loro diventando qualcosa di più grande. Il fatto che Doncic abbia “aspettato” a giocare una partita del genere contro la miglior squadra della NBA e il probabile prossimo MVP non è casuale. E sebbene stiamo vivendo in un’epoca nella quale l’unanimità spirituale è quasi sempre un’utopia degna della peggior fantascienza, la partita di Doncic potrebbe essere stata la prima pietra verso un futuro che, anche se preesistente, mai come in questo momento sembra desideroso di brillare di luce propria. E anche se non lo fosse, poco male: l’importante era celebrare la bellezza e questo l’abbiamo fatto.

Andate in pace, Halleluka!

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