Sto correndo cercando di evitare l’acqua che cade mentre mi rifugio ormai fradicio dentro Penn Station. Da qui parte il treno che collega New York con Philadelphia, dove in serata ci sarà il primo allenamento stagionale aperto al pubblico dei Philadelphia 76ers. La mail dell’ufficio stampa mi è arrivata solo poche ore prima, mentre mi svegliavo in stato semicomatoso in un appartamento di Bushwick dopo una serata in un karaoke coreano.
Il tempo di realizzare che devo attraversare l’intera città sotto la pioggia senza aver portato neanche un ombrello e mi lancio alla ricerca di un frappuccino e della giusta linea di metro. Ho in testa l’idea di scrivere un pezzo su Markelle Fultz da quando, da un momento all'altro, ha smesso di saper tirare un pallone da basket, come se su di lui si fosse abbattuto un sortilegio medioevale. Finalmente posso avere la possibilità di avvicinarlo, di chiedergli qualcosa guardandolo negli occhi. Sto pensando a questo mentre evito un torpedone di turisti cinesi e salgo sul vagone del treno che mi porterà verso il Process.
Per prepararmi e trovare la giusta accordatura ascolto una puntata del podcast di Zach Lowe con ospite J.J. Redick. Dopo essersi intrattenuti sul racconto di un pranzo in un sushi-bar di Tokyo, Lowe chiede a J.J. qualcosa su Fultz come si chiede ai testimoni oculari di un disastro naturale.
In effetti non ci sono paragoni sportivi in grado di raccontare la catastrofe che si è abbattuta lo scorso anno in casa Sixers, se non ricorrendo alla similitudine storica con una giornata a Pompei nel 79 a.C. o con il tragitto del Titanic davanti l’isola di Terranova. Ripercorriamo brevemente la vicenda. Pochi giorni prima del Draft 2017 il GM Bryan Colangelo decide di premere il pulsante rosso e spedisce a Boston la terza scelta assoluta insieme alla prima dei Lakers nel 2018, il tutto per avere la possibilità di mettere le mani su Fultz, nella sua testa il pezzo finale per chiudere il progetto iniziato da Sam Hinkie.
Markelle Fultz sembrava agli occhi di tutti gli addetti ai lavori il perfetto complemento a Simmons e Embiid, una combo guard abile a giocare sia con la palla che senza, un realizzatore su tre livelli (al ferro, dalla media distanza e da tre) mortale in situazioni di pick and roll. La sua personalità silenziosa veniva poi bilanciata da quelle rumorose e sbruffone degli altri due gioielli di Phila, consentendogli di entrare in punta di piedi nello spogliatoio nonostante l’enorme pressione a cui è tradizionalmente sottoposta la prima scelta assoluta.
Invece Fultz, dopo una promettente Summer League, è sembrato scivolare nel sottosopra di Stranger Things senza che nessuno dei suoi amici avesse la minima idea di come tirarlo fuori di là. Nel mese di intervallo tra Las Vegas e l’inizio del training camp il tiro in sospensione di Fultz, che già a Washington non era esattamente da libretto delle istruzioni, ha subito un’involuzione inspiegabile. Nel movimento di tiro, la palla partiva a lato della testa e non superava mai la fronte, con la sfera che andava ovunque tranne che verso il canestro, figuriamoci dentro. Così, dopo una gara a Detroit chiusa con soli 2 punti in 16 minuti, scompare non solo dalle rotazioni di Brett Brown ma dalla vista di chiunque non faccia parte dello staff dei Sixers. Non siamo neanche ad Halloween e la prima scelta assoluta si volatilizza come il lenzuolo di un fantasma.
Una tragedia in svariati atti.
Quello che è successo a Fultz rompe ciò che nello sport ci sembra inscalfibile, cioè la memoria involontaria degli atleti che ha interiorizzato i gesti tecnici ripetuti all'infinito fino a farli diventare una seconda pelle. Redick nel podcast ripete come questa storia vada direttamente nella Top-5 delle cose più strane che gli siano capitate in carriera (subito dopo, o forse anche prima, del rapimento di DeAndre Jordan nella sua stessa casa), ma che non ha idea di come siano andate realmente le cose. E se non sa nulla neanche il suo vicino di armadietto, tutti noi altri brancoliamo nel buio. Ci dobbiamo quindi appellare agli atti pubblici rimessi in forma di video storti rubati durante i riscaldamenti o di registrazioni clandestine che circolano in forma anonima, come le schede degli spacciatori.
La versione di Phila insiste che Fultz abbia lavorato con il suo allenatore e amico di famiglia Keith Williams senza comunicarlo alla squadra, causandosi un infortunio alla spalla che lo avrebbe limitato nel movimento di tiro. Il suo agente, Raymond Brothers, il giorno dopo la partita contro Detroit va diretto da Adrian Wojnarowski di ESPN lamentando come il suo assistito abbia ancora del liquido nella spalla rimasto dopo un trattamento cortisonico. Lo staff dei Sixers conferma che Fultz ha seguito un piano di fisioterapia per sgonfiare un’infiammazione e che ci vorrà del tempo per completare la guarigione. Inizia così la moderna riedizione del famoso paradosso dell’uovo e della gallina, ovvero: è stato l’infortunio a causare il cambiamento del movimento di tiro di Fultz, che non riusciva a superare il dolore nel gesto, o è stata la sua meccanica modificata in corsa a procurargli il trauma?
Il ping pong di responsabilità tra l’agente, lo staff medico e il front office è andato avanti per l’intera stagione, mentre Markelle entrava in modalità Zero Dark Thirty, immergendosi nel liquido amniotico delle palestre della Pennsylvania pur di isolarsi dal frastuono che gli montava intorno. Una prima scelta assoluta che sparisce nel nulla senza una motivazione crea un caso giornalistico con pochi precedenti: l’aura di mistero fomenta una curiosità famelica, vicina alla pornografia della cronaca nera, non soltanto tra i tifosi Sixers - che vedendo Jayson Tatum fare le fiamme vogliono capire se davvero Danny Ainge li aveva fregati - ma di tutti gli appassionati NBA.
Fultz riemerge con il nuovo anno. Il 2 gennaio i Sixers annunciano che è pronto ad iniziare l’ultima fase del suo programma di inserimento in squadra e una settimana torna ad allenarsi nei 5 contro 5. Ripartono i video e, di conseguenza, le speculazioni: Fultz è in grado di allenarsi quotidianamente con i suoi compagni e l’infortunio alla spalla sembra completamente superato, ma per qualche motivo Brown lo tiene incollato alla panchina.
Il 9 febbraio Bryan Colangelo davanti alle telecamere dichiara che il range di Fultz è limitato alla zona pitturata, di fatto ammettendo come il problema al jumper non era causato solo da un infortunio fisico ma ha radici più profonde, situate nel suo sistema cerebrale. Secondo Drew Hanlen, uno dei shooting coach più rispettati in NBA, Markelle soffriva di yips, ovvero una disfunzione nella memoria muscolare che è riassumibile in una celebre scena de I Griffin in cui Peter dimentica come ci si siede. Hanlen diventerà in seguito una delle persona di fiducia di Fultz, con il quale lavorerà tutta l’off-season per cercare di superare le sue difficoltà al tiro. Il suo metodo di allenamento si concentra sulla meccanica ma allo stesso tempo in tutte quelle azioni, dalla posizione del corpo al lavoro dei piedi, che anticipano l’effettiva entrata nel movimento di tiro. Un lavoro quasi da minibasket che per Fultz significa ricominciare da zero, lasciandosi tutto alle spalle.
At The Palestra
Arrivo a Philadelphia e le condizioni atmosferiche non cambiano di una virgola, anzi a un certo punto sono costretto a cercare riparo in una frat house di Penn, il college che ospita per qualche giorno i Sixers. Dopo una veloce masterclass di beer pong alle 3 di pomeriggio approfitto di un raggio di sole per andare alla ricerca del centro sportivo. Lo individuo velocemente perché nel giardino davanti è stato innalzata un enorme pupazzo gonfiabile di Benjamin Franklin che sembra uscito dal musical di The Wall piuttosto che dai libri di storia.
Si gioca a The Palestra, lo storico palazzetto che ha ospitato nei decenni le sfide tra le scuole della Big-5: Penn, LaSalle, Villanova, Temple e St. Joe’s. Visto che nonostante tutto sono in anticipo (o tutto il resto è in incredibile ritardo), mi allungo in una visita guidata lungo i cartelloni che affrescano il corridoio. Si parte dai capelli a spazzola e i pantaloncini inguinali del primo dopoguerra, passando per il titolo di Roy Massimino a Villanova fino alle istantanee di Rasheed Wallace e Kobe Bryant nelle rispettive squadre liceali, forse i due giocatori più forti usciti dall’area di Philadelphia. Una città con una cultura sportiva profonda e intensa, che ha mal sopportato anni di vittorie a malapena sopra la doppia cifra, ma che ora è totalmente innamorata della squadra che ne è uscita - forse anche più di prima. Arrivando al palazzo incontro decine di ragazzi, probabilmente delle università vicine, con le magliette di Simmons o Embiid o ancora t-shirt con stampato Trust The Process, il motto che ormai contraddistingue questa versione dei Sixers.
Quando con il mio badge al collo attraverso finalmente il parquet per raggiungere l’area stampa mi passa accanto Joel Embiid e rimango come se fossi atterrato dentro Jurassic Park. Avere a pochi passi i corpi fuori scala degli atleti NBA ti fa capire immediatamente quanto siano alti gli standard verso i quali devono tendere, quanto siano distanti dalla semplice umanità. Entrare in una lega così ristretta e competitiva è difficile quasi quanto restarci, e gli ultimi arrivati questa legge la imparano molto in fretta.
Markelle è uno dei primi a riemergere dallo spogliatoio. Scambia due parole con tutti, dai trainer ai vice-allenatori, e si sdraia sul lettino per farsi massaggiare. Subito dopo arriva T.J. McConnell, l’altra point guard dei Sixers, che davanti al suo compagno di squadra si esibisce nell’ormai iconico ballo di Fortnite. Nonostante sia il primo indiziato a perdere minuti con il ritorno di Fultz, T.J. è da sempre stato il suo più entusiasta sostenitore, anche quando sparare a zero sulla prima chiamata al Draft era diventato lo sport nazionale.
I due non potrebbero avere una storia sportiva più diversa: uno arrivato in NBA dalla porta sul retro, da undrafted sudando come non mai a Las Vegas e in preseason fino a conquistare l’ultimo posto a disposizione per fare la squadra; l’altro voluto a tutti i costi, anche di giocarsi tutte le fiches che si erano accumulate contro un volpone come Danny Ainge. Dopodiché le rispettive traiettorie si sono intrecciate nei modi più imprevedibili, con T.J. beniamino del pubblico di Philadelphia e Markelle trasformato in un gigantesco punto interrogativo. Uno se li aspetterebbe avversari, o almeno rivali per quei preziosi minuti al fianco di Ben Simmons; invece eccoli scherzare come due liceali in gita, preparandosi per l’inizio di un nuovo anno scolastico.
Quando Fultz è stato finalmente lasciato libero di poter scendere in campo mancavano solo dieci partite alla fine della stagione. Brett Brown lo ha inserito con estrema precauzione, scegliendo con cura i momenti in cui Simmons non era in campo per non avere contemporaneamente due non-tiratori sul parquet. Poco a poco ha dimostrato di sapersi ritagliare un ruolo importante nell’economia della squadra, aggiungendo una dimensione offensiva rispetto a Simmons e un’alternativa efficace in cabina di regia. Mentre Phila correva verso i suoi primi playoff post-Hinkie, inanellando sedici vittorie consecutive, Fultz trovava quel pizzico di confidenza che fa la differenza nelle prestazioni di qualsiasi ragazzo buttato dentro una squadra NBA. Il primo momento di redenzione arriva nell’ultima partita contro Milwaukee, quando uscendo dalla panchina realizza la prima tripla doppia per un teenager in NBA. Dopo un errore piuttosto ridicolo al ferro di Brandon Jennings, Fultz sale sopra il compagno Furkan Korkmaz per strappare il decimo rimbalzo della sua gara: nel momento esatto nel quale torna a terra l’intera squadra è su di lui. Il primo, neanche a dirlo, è T.J., subito dopo arriva Justin Anderson e poi tutta la panchina, rovesciandogli sopra una mezza dozzina di bottiglie d’acqua.
Il momento più alto della sua prima stagione in NBA.
«Tutto quello che posso dirti è che Markelle è un bravissimo ragazzo e ha lavorato duramente tutta l’estate». Non riesco ad estorcere molto da Drew Hanlen, che dentro una tuta bianca e il cappellino ribaltato d’ordinanza è qui per seguire i suoi due protetti: Fultz, appunto, e Joel Embiid. Hanlen ha più volte ripetuto come allenare Fultz sia stata la sfida più complessa della sua vita, ma che allo stesso tempo l’ha inseguita come un cercatore d’oro andava in Klondike. In una sua apparizione nel Talking Schimdt Podcast ha chiarito come fosse stato lui stesso ad essere arrivato a Fultz, attraverso Embiid, per chiedergli di dargli una chance. «Così sono andato da lui e gli ho detto di lasciare che lo aiutassi a tornare quello di prima e che lo avrei fatto per due motivi. Il primo perché volevo fargli ritrovare l’amore per il basket e il successo; il secondo perché volevo essere arrogante e dire a tutti che ero stato io a mettergli a posto il tiro».
Dopo mesi di speculazioni, finalmente sul canale YouTube di The Player’s Tribune compaiono i primi filmati che ritraggono Fultz tirare e segnare con continuità. Il breve estratto è contenuto in un lungo dialogo tra Markelle e Isaiah Thomas, due prodotti dell’Università di Washington usciti entrambi da un anno funestato da infortuni di ogni sorta. «Le mie aspettative per il prossimo anno sono prima di tutto di avere un impatto positivo per la squadra e aiutarla nei momenti cruciali» dice la prima scelta alla sessantesima mentre sullo schermo finalmente riesce a trovare la retina da fuori. Ora c’è solo la voglia di tornare in campo e restituire alla squadra e alla città di Philadelphia il giocatore che stanno aspettando da tempo. «I miei compagni sono stati fondamentali con il loro supporto anche nei momenti più difficili incitandomi e facendomi sempre sentire dentro il gruppo».
L’anno scorso è stato l’anno scorso.
Tutti arrivano e salutano Fultz come fosse il figliol prodigo, come un reduce che torna dalla guerra pieno di cicatrici e ferite, ma con una spalla nuovamente funzionante. Il jumper di Markelle è ancora anni luce distante da quello dell’Università di Washington e troppo inconsistente perché le difese lo giudichino un vero pericolo. In questo momento però tutto ciò a Markelle non importa: il solo fatto di essere tornato al basket competitivo lo fa camminare a due palmi da terra. Markelle cambia almeno tre paia di scarpe mentre lo osservo, fino ad indossare le stesse che ho anche io ai piedi.
A quel punto scatta una specie di serendipità e mi sento autorizzato a chiedergli qualcosa. Fultz ha sempre quello sguardo perso nel vuoto, con la palpebra a mezz’asta che ricorda vagamente Tracy McGrady. A vederlo da vicino è evidente quanto sia ancora un ragazzino, timido e silenzioso. Quando mi presento dandogli le mie credenziali mi saluta come fossi un nuovo compagno di classe e mi dice che è tutto molto cool e ok. Non abbiamo tempo per una vera intervista quindi gli faccio solo gli auguri per la nuova stagione, gli dico che sto scrivendo un pezzo su di lui e che vorrei stracciare quella narrativa tossica che i giornali gli hanno scaricato sopra solamente per cavalcare il risentimento dei lettori.
A queste parole la palpebra si alza impercettibilmente e mi dice che anche quello fa parte del mestiere, ma è evidente che l’atteggiamento di molti giornalisti nei suoi confronti lo ha segnato. D’altronde non dev’essere facile affrontare la pressione che è stata applicata sulle sue spalle, specialmente quando sono iniziati i primi problemi. E se in alcuni casi tale pressione può diventare carburante per salire ancora più velocemente nella stratosfera dell’NBA, se inciampi e cadi durante il percorso può schiacciarti. Essere i primi a stringere la mano del Commissioner nella notte del Draft è un onore incredibile, il coronamento di anni ed anni di duro lavoro e perseveranza, ma si può presto trasformare in un onere se non si ha la personalità di reggere le aspettative che ti arrivano addosso come un tir lanciato a tutta velocità. In una vecchia intervista per il Washington Post, il suo mentore Keith Williams ha rivelato come l’intera carriera giovanile di Fultz sia stata «una lotta per lui, ma alla fine è stata una lotta che ha abbracciato: non ha alcun problema nel cadere e rialzarsi». Per le cadute nell’ultimo anno abbiamo già dato, ora bisogna dimostrare di essere capaci di rialzarsi.
Molto dipenderà dalla meccanica del suo tiro, ricostruita nel segreto assoluto dell’estate e che finalmente oggi avrà la prima uscita ufficiale. È anche il motivo per il quale io sono a Philadelphia in questa giornata uggiosa. Fultz prende un pallone, palleggia due volte tra le gambe e lo lancia verso il canestro. La palla non vede neanche il ferro e si spegne rimbalzando in fondo alla palestra. Allora Fultz ci riprova ma questa volta la palla rimbalza sulla parte superiore della struttura e va a raggiungere la precedente. Sono gli unici due tiri di Markelle che vedrò di persona e arrivano da una zona di campo dalla quale non credo tirerà nuovamente in stagione, ovvero da dietro il canestro, accanto alle porte degli spogliatoi. Pochi minuti dopo questa breve esibizione arrivano gli addetti stampa dei Sixers a dire a noi pochi giornalisti che l’allenamento è stato annullato a causa della troppa umidità dentro la Palestra. È una notizia ferale. Rimango congelato per qualche minuto prima di capire che c’è poco da fare, quindi passo in sala stampa, mi metto in borsa un paio di bottiglie d’acqua che a New York costano quanto la Evian della Ferragni e riconsegno il mio badge.
Di cosa parliamo quando parliamo di giocatori
Mentre torno mestamente dal Campus di Penn alla stazione almeno ha smesso di piovere. Finalmente riesco ad alzare la testa mentre attraverso un altro Campus Universitario, quello di Drexler, riconoscibile per il suo drago giallo su sfondo blu. Su ogni bandiera o gonfalone è stampato lo slogan dell’Università: Ambition Can’t Wait, l’ambizione non può aspettare.
È un incentivo a correre prima di camminare, di afferrare con due mani il proprio futuro prima che svanisca. È anche un monito che cade dall’alto come un macigno, davanti al quale siamo disorientati. Cosa succederà se non ci facciamo trovare pronti nel momento esatto in cui il futuro ci passa davanti senza far fermate e noi restiamo a piedi, o peggio cominciamo a corrergli dietro sperando che in qualche modo ci veda e per pietà rallenti?
Se negli anni ‘90 il talento si perdeva solo se arrivavano dei mostri gommosi dall’altra parte della galassia a rubartelo, ora sappiamo che la vita di un atleta lo espone quasi automaticamente a una serie di traumi che possono distruggere la sua carriera sportiva come la sua vita privata. Kevin Love lo scorso marzo ha scritto una lettera molto bella dove rivelava che per tutta la sua vita aveva mentito a se stesso riguardo la sua salute mentale, finché non si è trovato sdraiato nello spogliatoio dei Cavs avendo la sensazione di stare per morire. Il suo messaggio è arrivato poco dopo quello di DeMar DeRozan, che aveva rivelato di aver sofferto a lungo di depressione, e ben prima di sapere che sarebbe stato spedito a San Antonio.
In un mondo che ancora troppo spesso riduce la mentalità a un hashtag e glorifica il machismo squadrato che non ammette distrazioni, il nostro punto di vista come osservatori e appassionati non può appiattirsi su una narrazione che riduce gli atleti alle loro nude prestazioni. C’è una responsabilità dietro ogni giudizio - specie quelli fatti solo per tirare giù i diretti interessati nel fango, specie nei confronti di chi non ha avuto ancora il tempo per dimostrare alcunché. Markelle, oltre al suo jumper, ha dovuto sistemare anche la sua reputazione, che un pubblico educato a gioire dei fallimenti altrui ha fatto carta straccia. Sempre lo stesso J.J. Redick lo scorso febbraio espresse la propria rabbia contro i giornalisti, rei di speculare sulla sfortuna di un ragazzo solo per cavalcare l’interesse morboso di una parte di pubblico. Lo stesso concetto che ribadisce nel podcast con Zach Lowe, dove ripete per l’ennesima volta come crede che Fultz abbia tutte le carte per fare una grande stagione - pur avendogli, di fatto, rubato il posto in quintetto.
Il giorno dopo esser tornato in Italia riesco finalmente a vedere Fultz giocare, anche se solo su uno schermo e a un oceano di distanza. Parte titolare nella prima partita di preseason contro i Melbourne Tigers segnando 14 punti in 23 minuti, dimostrando di poter convivere con Simmons. Tre giorni dopo contro gli Orlando Magic con 5 minuti e 10 secondi sul cronometro del primo quarto corre ad occupare l’angolo alla sinistra di Ben Simmons lanciato in campo aperto, riceve il pallone nel disinteresse generale e, dopo un palleggio per mettersi in ritmo, dimostra che alla fine l’estate è servita a qualcosa, mettendo a segno la prima tripla della sua carriera NBA. Passato il primo momento di incredulità, il pubblico di Philadelphia scopre la locura e la mia timeline di Twitter diventa il carnevale di Rio. Dalla panchina T.J. McConnell si alza e indica Drew Hanlen, seduto accanto negli spalti, che intanto ha preso lo smartphone in mano per mostrare a tutto il mondo il successo del suo protetto. Come se finalmente si fosse spezzato l’anatema che incombeva sulla sua testa, Fultz gioca la partita che tutti si sognavano quando poi si svegliavano sudati, attaccando il pitturato a piacimento e dimostrando che sotto tutta quella polvere e ruggine c’erano ancora tracce del suo celebre hesi pull up jimbo.
Non è l’attesa per la prima tripla di Markelle Fultz essa stessa Markelle Fultz?
Ma una storia del genere può avere un lieto fine? Ovviamente no. Fultz si imbarca con tutta la squadra per la Cina dove affrontano due volte i Dallas Mavs nelle partite di esibizione programmate dall’altra parte dell’Oceano. Le due partite per Markelle sono una tortura cinese: non riesce quasi a stare in campo per problemi di falli e le sue decisioni sono tutte innaturali e forzate. Riesce a perdere anche una partita a ping pong contro una bambina di 8 anni (che però bisogna dire, a sua discolpa, era molto forte).
Per scoprire se il vero Markelle è quello ritrovato in America o la sua raffazzonata copia cinese bisognerà aspettare il 16 ottobre, quando i Sixers apriranno la stagione regolare NBA al TD Garden contro gli antagonisti di Boston, una rivalità che andrà avanti per tutta la stagione e che forse potrà trovare in Markelle la chiave di volta. Intanto, aspettando che arrivino il prima possibile le finali di Conference, l’anno di Fultz sarà uno dei temi più interessanti e difficili da raccontare, compresso nella tensione tra un un meccanismo perfetto e l’anima umana che lotta per funzionare al meglio, nonostante se stessa.