LeBron James ai Cleveland Cavaliers
Di Dario Vismara
Con il ricordo delle Finals 2018 ormai archiviato in qualche parte remota del nostro cervello e con le immagini di LeBron James che esce dal campo circondato da un alone di “ma sarà la sua ultima alla Quicken Loans Arena?”, è facile pensare che le possibilità di un suo ritorno ai Cleveland Cavaliers ora siano prossime allo zero. Probabilmente è davvero così, ma noi da qui non possiamo saperlo — e soprattutto i Cavs non possono permettersi di pensarlo, se vogliono avere anche solo una minima chance di convincerlo a restare.
Sia chiaro: le possibilità sono davvero poche. Usando una metafora pokeristica, i Cavs si siedono al tavolo dei pretendenti a James con in mano una coppia molto bassa, mentre tutte le altre hanno diverse opzioni per andare a completare tris, scale e colori in genere — perché ognuna ha qualcosa più interessante da offrire a LeBron. Che sia un supporting cast di talento (Philadelphia e Boston) un allenatore da Hall of Fame (San Antonio), la possibilità di scegliersi il partner preferito in una città impareggiabile (Lakers) o il gruppo che più è andato vicino a battere gli Warriors (Houston), tutte offrono qualcosa di nuovo e di più intrigante rispetto al derelitto roster degli attuali vice-campioni NBA.
Le carte a cui si devono attaccare a Cleveland sono sostanzialmente due, e vanno a braccetto: come sempre è stato nella loro storia, i Cavs hanno la sfacciata fortuna che uno dei migliori giocatori di sempre sia nato a una cinquantina scarsa di chilometri dalla loro città creando un legame fortissimo con la comunità del Northeast Ohio. La seconda è che James, anche per via di quella storia pregressa, abbia deciso di far crescere la propria famiglia in quella zona, scegliendo di tornare nel 2014 per finire la propria carriera in maglia Cavs tra la sua gente e dando una nuova aura alla storia della sua carriera.
Come detto anche da diversi beat writer che seguono le vicende della squadra, se mai James decidesse di rimanere a Cleveland sarà principalmente per motivi extra-cestistici, vale a dire il suo legame con quella zona dell’Ohio e la volontà di non trasferire la sua famiglia, che come dichiarato da lui stesso avrà un ruolo più importante nella sua scelta rispetto al passato. Se potesse scegliere senza considerare la parte cestistica, probabilmente LeBron James non vorrebbe mai andarsene dai Cleveland Cavaliers, che rimangono la squadra della sua vita indipendentemente da tutto — e questo ha un peso enorme per la sua legacy.
Se questi sono stati gli ultimi playoff in maglia Cavs, è stato comunque un bel modo per dirsi addio.
La parte cestistica però c’è e non può essere in alcun modo sottovalutata: James ha obiettivi che per certi versi trascendono i Cavs, come l’inseguimento ai sei titoli del “fantasma di Chicago”, e sente dentro di sé di avere ancora abbastanza stagioni di alto livello per poterlo raggiungere — cosa che peraltro nei playoff ha dimostrato chiaramente. Quello che James non sente di avere a Cleveland è un contesto attorno a sé per poterci riuscire, specialmente ora che ha visto come si è sviluppato e concluso l’anno senza Kyrie Irving. LeBron non ha alcuna intenzione di vivere un’altra annata come quella appena finita e non vuole più ritrovarsi da solo a dover trascinare un’intera franchigia, possibilmente scalando in un ruolo “off the ball” per tre quarti e poi assumere il controllo delle operazioni solo quando strettamente necessario, gestendo lo sforzo del suo fisico. Ma i giocatori in grado di togliere il pallone dalle mani di uno come James sono pochi, oltre che chiaramente degli All-Star.
Per questo, l’unica chance che hanno a Cleveland per convincerlo a rimanere è un repulisti generale, o per meglio dire un all-in assoluto: mettere sul mercato tutto ciò che hanno a disposizione e rifare la squadra da capo, sperando che il risultato di questo azzardo sia abbastanza invitante per convincere James a non andarsene. Questo significa impacchettare i due migliori asset a disposizione e vedere se si riesce ad arrivare a un All-Star (Kemba Walker?) o a un giovane con potenziale per diventarlo (C.J. McCollum?) da squadre alla ricerca disperata di un cambiamento. Significa rendere disponibili tutti i membri del roster e accettare di ricevere in cambio giocatori di rotazione con contratti peggiori e/o più lunghi (Kenneth Faried? Nicolas Batum? Sto inventando, sia chiaro), perché i vari J.R. Smith, Tristan Thompson, George Hill e Jordan Clarkson hanno giocato talmente male o hanno contratti talmente onerosi che è semplicemente impensabile non rimetterci negli eventuali scambi. Significa utilizzare giovani che farebbe comodo tenere come Larry Nance Jr., Cedi Osman o Ante Zizic per oliare e rendere più appetibile qualche scambio. Significa molto probabilmente cedere ulteriori scelte al Draft, siano esse al primo (con protezioni varie, perché non si sa mai) o al secondo giro per rendere più digeribili i contrattoni di cui sopra. Significa anche salutare subito Collin Sexton, se servisse a qualcosa.
Ci vuole insomma un all-in in piena regola rimescolando tutto ciò che si ha a disposizione, in modo tale da presentarsi al cospetto di LeBron James con un roster del tutto nuovo per convincerlo a rimanere. Di fatto, i Cavs se vogliono avere una chance non devono più essere i Cavs che abbiamo conosciuto fino a oggi, ma una squadra del tutto diversa secondo i dettami indicati tra le righe da LeBron in una delle sue ultime conferenze stampa durante le Finals: talento e intelligenza cestistica, perché per battere gli Warriors servono entrambe. Ma i giocatori di talento e intelligenti costano giustamente tanto, ed è per questo che questo tentativo dei Cavs sembra un long shot, ma di quelli lunghi per davvero: ricostruire una contender nel giro di 10 giorni scarsi avendo quei pochi pezzi tra le mani sarebbe un’impresa titanica per chiunque, figuriamoci per un General Manager 35enne catapultato nel ruolo per la sorpresa di tutti da meno di un anno.
Koby Altman per la verità ha già provato una tattica del genere alla scorsa deadline del mercato, rimescolando la parte disfunzionale del roster per dare a James una squadra diversa con cui dare l’assalto al titolo. La grandezza di LeBron li ha portati di nuovo alle Finals, ma i nuovi acquisti hanno dato un contributo altalenante a voler essere buoni, con i veterani delle ultime stagioni — i vari Thompson, Smith, Love e Korver — ad assumersi le maggiori responsabilità nei momenti più difficili, specialmente nelle serie della Eastern Conference. È andata male, ma se vogliono convincere James non possono fare altro che provarci di nuovo e sperare in un vero e proprio miracolo.
Quello su cui i Cavs non possono contare a questo giro è l’aiuto del Re, che non muoverà un dito né in un modo né in un altro senza dare alcuna indicazione: se c’è una cosa su cui si può scommettere è che James osserverà da lontano i movimenti orchestrati dal Altman e dall’odiato proprietario Dan Gilbert per vedere cosa riusciranno a fare, senza lanciarsi nel recruiting di qualcuno in free agency per avere aiuto (anche perché lo scorso anno si spese in prima persona con Jamal Crawford e la dirigenza rispose “no, grazie”, preferendogli Osman).
Questa è la road map nel caso in cui i Cavs volessero cercare un tentativo disperato di convincerlo a rimanere, ma non è da escludere che la proprietà guidara da Gilbert capisca che è impossibile vincere questa mano e decidesse di fare fold, tirando i remi in barca e accettando il proprio destino di vedere James con un’altra maglia. Sarebbe difficile da spiegare alla tifoseria, ma in questi quattro anni Gilbert ha pagato uno sproposito per questa squadra cercando di mantenerla competitiva, principalmente perché questo era il patto con LeBron: fintanto che hai uno come il Re in squadra devi accettare di essere in luxury tax senza cercare di risparmiare niente, altrimenti puoi anche scordarti che rimanga. Fare un nuovo all-in comporterebbe però assimilare contratti molto indigesti di giocatori di rotazione alzando ulteriormente il monte salari invece di abbassarlo come suggerirebbe la repeater tax che scatta a partire dalla prossima stagione — portando l’esborso totale a qualcosa come 300 milioni di dollari per una stagione senza alcuna certezza di vincere. (Conviene ricordare che nessuno ha mai pagato più di 193 milioni, primato tristemente detenuto dai Brooklyn Nets 2013-14).
Per quest’ultimo motivo, non è da escludere che Gilbert decida di non sottostare un’altra volta alla volontà di James e scegliesse di lanciare un messaggio chiaro a LeBron: qui gli anni con cui si può contendere per il titolo sono finiti, il nostro anello lo abbiamo vinto e siamo pronti a ricominciare da capo. Basta non fare niente nelle prossime settimane — come successo tenendo l’ottava scelta al Draft e non imbastendo nessuno scambio — per far capire al Re che la festa a Cleveland è finita. A quel punto James si ritroverebbe a dover fare una scelta in fretta: il 29 giugno deve far sapere se intende rimanere all’interno dell’anno di contratto da 35.6 milioni previsto per la prossima stagione oppure se mettersi sul mercato dei free agent, una decisione che ha tantissime ripercussioni e che lo porterà molto probabilmente lontano da Cleveland - attraverso uno scambio o una firma. E a quel punto ogni scenario diventerebbe possibile.
LeBron James ai Philadelphia 76ers
Di Lorenzo Bottini
È iniziato tutto come un gioco, con quei cartelloni per strada che facevano il verso a un film che aveva appena fatto il pieno agli Oscar. Poi, tambureggianti come le piogge estive, ecco i primi sorrisi, gli sguardi incrociati. LeBron James ha mostrato in più circostanze un atteggiamento benevolo verso i giovani Philadelphia 76ers, da vecchio saggio che vede crescere bene i suoi successori. Il suo preferito, per ovvie ragioni, è sempre stato Ben Simmons: LeBron e Ben si allenavano insieme già prima che quest’ultimo giocasse la sua prima partita tra i professionisti e ha dimostrato più volte di voler svolgere il ruolo di Obi Wan verso il suo giovane Padawan. I due non condividono solo lo stesso agente (Rich Paul) ma soprattutto una passione folle per la competizione, per superare i propri limiti piuttosto concentrarsi su quelli altrui. Durante la sfida di regular season con cui i Sixers hanno scavalcato i Cavs nelle gerarchie della Eastern Conference, Simmons e LeBron si sono ripetutamente stuzzicati in campo per poi abbracciarsi una volta finita la partita. Un’immagine che entrambi hanno condiviso su Instagram con una descrizione che sembra già il pilot della miglior serie tv del 2019:
Per molti ha rappresentato un passaggio di testimone, una cerimonia nella quale Ben ha piegato il ginocchio e ha accettato un giorno di prendere il posto del Re, quando quest’ultimo deciderà di diventare il nuovo inquilino della Casa Bianca. Ma questa quasi sovrapponibilità tra i due ha portato molti a dichiararli incompatibili: recentemente Simmons, stimolato sull’argomento ha addotto la prova empirica, della serie “fateci provare e vediamo come va”.
A Phila James non troverebbe solo Simmons, ma uno dei gruppi più affiatati e talentuosi della lega. Coach Brett Brown, uomo di scuola Pop, è sicuramente un allenatore di suo gradimento e ha dimostrato lo scorso anno di meritare l’estensione firmata l’altro mese. Dario Saric e Robert Covington sono due bersagli da cercare dietro l’arco, aspettando sempre che Markelle Fultz torni dalle vacanze con un nuovo jumper nella custodia dei racchettoni. Poi ci sarebbe Joel Embiid, forse l’unico giocatore in NBA con il quale rivaleggia per carisma e strapotere fisico. LeBron, Simmons e Embiid formerebbero i Big Three più grossi di sempre, tre atleti senza alcun senso pronti a mettere a ferro e fuoco la costa Est come dei chopper modificati. Forse non riusciranno a far crollare la dinastia dei Golden State Warriors, forse si dovranno arrendere addirittura contro i rinnovati Boston Celtics del terrapiattista con il dente avvelenato. Ma sarebbe comunque una cavalcata memorabile, l’ultima recita di un grande attore. Probabilmente il più grande di tutti.
Le stelle che indicano il cammino si stanno allineando. Grazie all’improvvido utilizzo dei social della moglie, Colangelo Jr. è finalmente fuori scena, talmente lontano che non si vedono più neanche i suoi colletti. Al suo posto potrebbe arrivare David Griffin, molto vicino a LeBron e artefice primo del suo coming home. Per liberare lo spazio necessario a garantire al Re il massimo salariale, Phila dovrebbe rinunciare ai diritti su J.J. Redick e Amir Johnson, per poi provare a ridiscutere i loro contratti da free agent come tutti gli altri. Bisognerà poi trovare un modo legale per far sparire le disiecta membra di Jerryd Bayless e liberarsi di qualche altro sventolatore di asciugamani per arrivare alla fatidica cifra di 35 milioni. A quel punto servirà la volontà di LeBron di scommettere su Philadelphia come la squadra con la quale chiudere la sua attività agonistica: un’altra decisione complicata, l’ennesima della sua carriera, e che chiuderebbe il cerchio del Processo.
Da dieci vittorie in una stagione ad essere una delle favorite per l’anello: Sam Hinkie non sarà più morto invano. (Bryan Colangelo invece sì).
LeBron James ai Los Angeles Lakers
Di Francesco Andrianopoli
Da un punto di vista strettamente tecnico, LeBron James ai Lakers non ha alcun senso: i gialloviola non arrivano neppure vicini alla quantità di talento presente nelle altre squadre che aspirano ad assicurarsi i suoi servigi, e non diventerebbero una immediata contender neppure se andasse a buon fine l’ambizioso piano di firmare anche Paul George. Inoltre, trasferendosi ad Ovest, il Re dovrebbe rinunciare al suo record di titoli consecutivi nella Eastern Conference, a cui tiene parecchio, e si metterebbe direttamente in rotta di collisione con le corazzate della Western Conference, diminuendo le probabilità di ritornare per l’ennesima volta alle Finals, rispetto alla strada più agevole che qualunque squadra dell’Est gli consentirebbe.
I Lakers possono essere considerati una destinazione papabile esclusivamente per motivazioni extra-tecniche: LeBron vive già, essenzialmente, a Los Angeles durante l’estate e nell’area urbana losangelina possiede non una ma ben due magioni. Il suo futuro dopo il basket avrà probabilmente come epicentro proprio la California, da cui dirigerà l’impero commerciale che ha già iniziato a costruire da qualche anno: trovarsi già in zona potrebbe quindi agevolare/accelerare la sua attività imprenditoriale, e in questo senso un altro elemento di attrazione sarà sicuramente rappresentato da colui che potrebbe diventare il suo nuovo presidente.
Magic Johnson non è sempre, diciamo così, preciso e calzante nei giudizi tecnici sui giocatori, però è probabilmente l’unica persona nel basket americano con più carisma di LeBron, ed è già da molti anni un imprenditore di successo, con le amicizie giuste e i contatti che contano a tutti i livelli della vita sportiva, politica ed economica della California. Legarsi ai Lakers, a tutto il gigantesco indotto che gira loro intorno, e in particolare a Magic, potrebbe essere una scelta scellerata dal punto di vista tecnico, ma sarebbe certamente molto avveduta e largamente superiore a qualsiasi altra alternativa dal punto di vista economico-commerciale.
Se il Re dovesse veramente finire ai Lakers, le motivazioni sarebbero quindi verosimilmente queste. Ma anche se il conto in banca e i posti nei consigli d'amministrazione prosperano, poi alla fine per qualche in campo ci devi pur andare, e da quel punto di vista quali prospettive avrebbe?
Si trovano in giro due principali filoni di pensiero come risposta a questa domanda: uno secondo cui LeBron accetterebbe di guidare e indirizzare nei primi anni la crescita del nucleo giovane gialloviola, per poi farsi “trasportare“ da questi ultimi se (e quando) dovessero maturare ed evolversi in giocatori di livello assoluto; l’altro suggerisce invece che si possa ripetere una dinamica simile a quella di Andrew Wiggins a Cleveland, vale a dire l’utilizzo immediato di uno o più giovani presenti in rosa per portare subito a casa, via trade, rinforzi di esperienza e pronti a dare il loro contributo immediatamente.
Ci sarebbe infine anche una terza opzione intermedia: iniziare la stagione con LeBron, un altro free agent di alto livello e questo nucleo (Lonzo, Ingram, Hart, Kuzma e forse anche Randle, se si riuscisse a sbolognare il contratto di Luol Deng), e riservarsi di modificare la squadra via trade in corso d’opera già durante il primo anno, se la crescita dei virgulti non dovesse soddisfare le aspettative della dirigenza e, in primis, di LeBron stesso.
LeBron James agli Houston Rockets
Di Fabrizio Gilardi
Se si tiene in considerazione il semplice lato sportivo, Houston è probabilmente la destinazione più intrigante per LeBron, almeno a breve termine. I Rockets sono l'unica squadra ad aver messo in difficoltà gli Warriors da quando Kevin Durant è subentrato ad Harrison Barnes e hanno voglia di rivincita; soprattutto ne ha Chris Paul che di James è grande amico da diversi anni, al punto che tra le voci e i sussurri che circolano riguardo alla prossima Decision ci sono anche quelli che vorrebbero i due pronti a unirsi per giocare insieme anche lontano dal Texas.
Sulla carta LeBron troverebbe un'organizzazione di prim'ordine, due stelle affamate e giocatori di ruolo ben più che competenti in forte ascesa - come Clint Capela - o ancora all'apice delle rispettive carriere - Trevor Ariza e P.J. Tucker su tutti -, il contesto tecnico ideale per provare a dare una spallata al regno degli Warriors che magari potrebbe essere anche definitiva o quasi, dato che nella prossima stagione il contratto di Klay Thompson scadrà e non si sa mai cosa possa succedere in caso di sconfitta.
Detto che i fattori che incideranno sulla scelta di James sono parecchi e ad oggi forse nemmeno lui sa quale sia il principale, ipotizzando che la sua preferenza cada su Morey, D'Antoni, Paul e Harden, sulla bassa tassazione locale Texana (oltre il 10% in meno rispetto alla California) e sulla città di Houston, i Rockets hanno un grosso punto a proprio svantaggio: non potranno offrire il contratto desiderato da LeBron. Perché il Salary Cap verrà fissato a 101 milioni (con possibili piccole variazioni), James Harden nella prossima stagione guadagnerà 30.4 milioni, per ogni spazio libero a roster è previsto un cap hold di circa un milione (il minimo salariale) e i massimo salariale di James e Paul, condizione che nessuno dei due al momento pare disposto a trattare, sarà di 35.4 milioni ciascuno (con Cap a 101).
Altrimenti detto: con poco meno di 40 milioni già impegnati tra Harden e gli hold, anche liberandosi di ogni singolo contratto esistente senza ricevere in cambio un centesimo - impresa impossibile anche per Morey -, LeBron e CP3 dovrebbero accontentarsi di spartirsi circa 60 milioni in due per avere il privilegio di giocare con Harden e una decina di giocatori al minimo salariale, perché non ci sarebbe spazio per niente e nessun altro oltre alla MLE più piccola. Nemmeno Capela che sarà Restricted Free Agent, perché i diritti su un giocatore costano, o meglio occupano spazio (nel suo caso circa 7 milioni) che i Rockets in questo scenario non avrebbero, a meno di ridurre da 60 a poco più di 50 milioni l'ammontare da dividere tra James e Paul.
Sarebbe quindi necessario ricorrere ad uno scambio, se LeBron dovesse decidere di esercitare la Player Option che ha sul contratto attuale (in sostanza identico al massimo che potrebbe ottenere da Free Agent), o a una sign & trade, se dovesse uscire dal contratto. Senza entrare negli infiniti dettagli tecnici delle due opzioni, comunque a disposizione dei più curiosi e morbosi, percorrere questa strada implica tre diverse e significative conseguenze: una limitazione della libertà di James, in riferimento alla durata del contratto (annuale con opt-in, triennale o quadriennale con s&t); un restyling del roster di Houston, perché sarebbe necessario cedere alcuni giocatori (sicuramente almeno uno tra Eric Gordon e Tucker) e probabilmente rinunciare ad altri (Ariza) per far quadrare i conti; soprattutto, la necessità della collaborazione di altre squadre, a partire dai Cavs, perché i contratti che i Rockets devono cedere rappresentano valori negativi (Ryan Anderson, oltre 20 milioni l’anno per altre due stagioni) o neutri sul mercato.
Con la firma di Kevin Durant gli Warriors si sono attirati numerose antipatie anche tra i proprietari delle altre franchigie, perciò è possibile che qualcuno consideri un amico il nemico del proprio nemico e che quindi si renda disponibile ad aiutare Morey, chiaramente sotto il giusto compenso di scelte future al Draft, a far combaciare tutte le tessere del puzzle, anche perché i Rockets sarebbero una squadra dall’età media elevata e quindi destinata a durare relativamente poco. Se esiste un Machiavelli là fuori quale occasione migliore per provare ad abbattere gli Warriors con tutte le conseguenze del caso, assicurandosi nel frattempo le scelte al Draft 2022 e 2024, ad esempio, di una squadra che nel giro di un paio di stagioni potrebbe essere alla fine del proprio ciclo vincente e legata mani e piedi ai pesantissimi contratti di Paul, James e Harden nelle fasi calanti delle rispettive carriere?
LeBron ai San Antonio Spurs
Di Daniele V. Morrone
Non è neanche importante il come: se LeBron risponde di sì, un modo per farlo arrivare R.C. Buford lo trova sicuramente. Probabilmente bisognerebbe dire addio a Dejounte Murray, ad un contratto medio e ad uno pesante (Pau Gasol?). E a tante scelte per oliare il tutto. Ma non è importante: pensate invece a Gregg Popovich, LeBron James, Kawhi Leonard (che a quel punto rimarrebbe per vincere l’anello) e LaMarcus Aldridge insieme. Pensate all’ultimo ballo di Manu Ginobili e Tony Parker. Cosa può essere per quelle due stagioni tutti insieme, che laboratorio tattico può tirare fuori Pop da una situazione in cui per la prima volta da anni può avere tutte le armi giuste per affrontare alla pari gli Warriors.
In Finale di Conference pensate alla difesa di Leonard su Durant o di Danny Green su Curry. Dall’altra parte c’è LeBron sempre con almeno tre giocatori in grado di tirare da 3 sui suoi scarichi, di lasciargli sempre la strada per il canestro sgombro come piace a lui: nessuno meglio di Popovich può trovare il modo di metterlo nel sistema e nel contesto tecnico ideale. Poi c’è sempre Aldridge nella versione potenziata di Kevin Love e Ginobili come deus ex machina della second unit per farlo riposare in quei minuti fondamentali. Non serve che sia un matrimonio lungo: solo due stagioni per prendersi tutte le vendette possibili contro gli Warriors e farlo in una situazione in cui per la prima volta c’è totale rispetto tra James e il suo allenatore, non più una persona proposta a veicolare il suo messaggio in campo e ad occuparsi di minuzie. Viaggiare con sempre accanto altre leggende del gioco, in una squadra che ha un passato glorioso anche senza di lui; trovarsi David Robinson con cui scambiare opinioni, Tim Duncan a fargli compagnia in allenamento.
San Antonio non è una scelta per i soldi, quelli li guadagnerebbe comunque, ma solo ed esclusivamente per lo gloria. Per vincere ancora una volta togliendosi la soddisfazione di chiudere il cerchio con la squadra che ne ha battezzato l’entrata tra i grandi ormai più di 10 anni fa. Quando a fine serie Duncan l’ha preso da parte e abbracciandolo gli ha sussurrato all’orecchio: “Un giorno tutto questo sarà tuo”. Intendeva i San Antonio Spurs.
LeBron ai Boston Celtics
Di Ennio Terrasi Borghesan
Associare il nome di LeBron James a quello dei Boston Celtics, nell’imprecisato giorno di luglio in cui il nativo di Akron comunicherà al mondo la sua scelta, provocherebbe innanzitutto un problema logistico: avendo i Celtics ritirato i numeri 6 e 23, gli unici sin qui indossati da James nella sua carriera NBA, si renderebbe necessaria una nuova scelta, che simboleggerebbe ancor di più un nuovo inizio.
Unirsi ai rivali di sempre, poi, chiuderebbe un cerchio idealmente iniziato il 18 maggio del 2008: la data di Gara-7 delle semifinali della Eastern Conference, la data dell’ultima Gara-7 persa in carriera da LeBron James nei Playoff NBA. Quella notte, chiusa con un losing effort da 45 punti superato soltanto dalla straordinaria Gara-1 delle ultime Finals, fu l’inizio della fine della prima era di James ai Cavs: le serie perse contro i Magic l’anno dopo e contro gli stessi Celtics nel 2010 dopo misero la definitiva parola fine alla sua prima avventura ai Cavs (e anche delle sue sconfitte nelle serie della Eastern Conference).
L’ultima vittoria in casa Cavs della sua carriera?
Se la questione del numero potrebbe risolversi optando per il 9 (che, in verità, non gli portò benissimo all’Olimpiade di Atene 2004), il discorso relativo alla fattibilità dell’operazione potrebbe essere più complicato. Qualsiasi ragionamento deve partire dall’assunto che, per aumentare le possibilità di unirsi alla franchigia più vincente della storia NBA, LeBron dovrebbe esercitare la sua Player Option per facilitare così una trade simile a quella che ha portato nella scorsa stagione Chris Paul a Houston, o che porterebbe lo stesso James verso destinazioni come Houston o San Antonio.
Una trade del genere, in casa Celtics, dovrebbe essere incentrata quasi sicuramente su uno tra Gordon Hayward e Kyrie Irving: 29 GM NBA avrebbero probabilmente più di una remora a imbastire un’operazione del genere; come però dimostrato anche nella scorsa off-season, Danny Ainge è l’uno su trenta.
Il cinismo e la lungimiranza vista nella trade di Isaiah Thomas raggiungerebbe, in questo caso, nuove vette. È verosimile che l’opzione rappresentata da Hayward sia la più semplice, sia per compatibilità dei salari che per potenziale interesse dei Cavs nella contropartita (visto che già nel 2014 Cleveland aveva corteggiato a lungo Hayward prima di ricevere indicazioni dal Re per il suo ritorno a casa). Per quanto sarebbe incredibilmente suggestivo - e surreale - assistere a un ritorno in Ohio di Kyrie Irving in cambio di LeBron James in Massachusetts, è probabile che qualora la scelta dovesse ricadere sul prodotto di Duke l’approdo del Re in maglia verde avverrebbe tramite una trade con più di due squadre coinvolte: Bill Simmons, ad esempio, ha proposto l’idea di uno scambio che porterebbe Kyrie Irving ai New York Knicks.
Se la questione logistica è tutta da scoprire, il fit tecnico è probabilmente, pound for pound, il migliore possibile. I Boston Celtics, infatti, potrebbero offrire a LeBron James alcune delle migliori peculiarità di altre squadre in “ballo” nella corsa ai suoi servigi: un core giovane e di talento, con magari meno picchi verso l’alto rispetto a quello dei Philadelphia 76ers, ma di comprovata prospettiva, solidità e anche esperienza di partite di alto livello; un coaching staff e una dirigenza che per abilità e capacità tecniche non ha nulla da invidiare a quello dei San Antonio Spurs; una tradizione vincente e una situazione attuale che potrebbe garantire possibilità di vittoria del titolo, nell’immediato ma anche nel medio periodo, forse anche superiori a quelle degli Houston Rockets.
Rimanere nella Eastern Conference darebbe a James una situazione migliore - e con meno insidie - rispetto all’attuale, e pur se la presenza in città di cugini di altri sport indubbiamente più ingombranti per tradizione in confronto ai Cleveland Browns o ai Cleveland Indians, è fuor di dubbio che LeBron James da Akron, Ohio, sarebbe il nuovo Re sportivo del Northeast degli Stati Uniti d’America.
Le potenzialità di flessibilità futura dei Celtics, frutto del lavoro strepitoso messo in piedi negli ultimi anni da Danny Ainge, potrebbe essere la ciliegina sulla torta o il gran finale del pitch, quella slide in grado di far pendere definitivamente la bilancia a favore di Boston. Per una storia che sarebbe “like no other”: l’antieroe che, dopo aver spezzato i cuori per cinque volte nell’arco di otto stagioni, diventa l’eroe e il nuovo protagonista dell’ennesima Dinastia targata Boston Celtics.