I Milwaukee Bucks si sono presentati alla stagione NBA 2024/25 con due eliminazioni al primo turno dei playoff nello specchietto retrovisore, e con la consapevolezza di dover invertire immediatamente la rotta. Di essere chiamati, cioè, a legittimare sul campo quello status di contender che ci si attende da chi ha vinto il titolo nel 2021 e ora ha sotto contratto due superstar come Giannis Antetokounmpo e Damian Lillard. Un’ambizione fissata anche da una delle proprietà - cambiata nell’assetto nel 2023, con l’ingresso di Jimmy e Dee Haslam - che spende di più in salari nell’intera lega (terza, dietro soltanto a Phoenix e Minnesota), e che nelle ultime sessioni di mercato ha gettato parecchie fiches sul tavolo per investire sull’attuale nucleo.
Considerando tutte le scelte al draft sacrificate di qui al 2030 e la recidività con cui i Bucks sfondano le soglie del “second tax apron” (l’upper spending limit introdotto dal nuovo CBA), si può parlare serenamente di una franchigia in “all-in”. Nulla di strano, anzi: una delle prime regole non scritte dell’NBA impone di fare tutto il possibile - costi quel che costi, o quasi - per massimizzare il prime di un due volte MVP (tre contando anche le Finals) come Antetokounmpo; un imperativo che diventa categorico nel contesto di uno “small market” come Milwaukee, che non gode certo dei privilegi di New York, Los Angeles o San Francisco.
Ben consapevoli di ciò, i Bucks da tempo approcciano ogni decisione nella cosiddetta “win-now mode”, cioè con la prospettiva di puntare a vincere nell’immediato, facendo sentire Giannis al centro del progetto - presente e futuro - dell’organizzazione. Il sottinteso è chiaro: competere ai massimi livelli è l’unico modo per scongiurare una separazione dal greco, come ricordano le indiscrezioni di mercato che circolano puntualmente in ogni momento negativo dei Bucks. Come, ad esempio, quello attuale.
UN INIZIO DIFFICILE
Le prime tre settimane di regular season sono state, senza mezze misure, un disastro. Nelle dodici partite disputate finora la squadra di Doc Rivers ha raccolto otto sconfitte, di cui sei consecutive e alcune particolarmente inquietanti, contro Brooklyn (115-102), Memphis (122-99) e New York (116-94). Dopo il peggior avvio dai tempi della rookie season di Antetokounmpo (2013/14), i Bucks occupano così il dodicesimo posto della Eastern Conference, e nelle prime dieci uscite sono stati - dati alla mano - tra le peggiori squadre in entrambe le metà campo: 20° per efficienza in attacco e 26° in difesa, secondo Cleaning the Glass. Fino a ieri avevano battuto soltanto Philadelphia (senza Embiid e George), Utah, Toronto, vale a dire i tre peggiori record dell’NBA. Nelle ultime ore si è aggiunta anche Detroit, contro cui sono serviti un tempo supplementare, un Brook Lopez che si è ricordato di poter segnare dall’arco e soprattutto un Antetokounmpo stellare: 59 punti, 14 rimbalzi, 7 assist e il 71% di True Shooting.
Prima ancora che i risultati, però, i Bucks hanno trasmesso l’impressione di essere una squadra sull’orlo del baratro, in campo e fuori. Alcune parole spese di recente da Antetokounmpo riflettono chiaramente tutte queste difficoltà, e restituiscono una nitida immagine della crisi d’identità che stanno attraversando i Bucks, e anche della sua frustrazione. «Come vinceremo le partite? Difendendo con intensità, muovendo la palla per 48 minuti? Al momento non abbiamo un’identità», ha detto dopo la sconfitta contro i Nets. In seguito al blowout incassato sul campo dei Knicks, invece, ha messo in discussione l’effort di squadra: «Siamo stati competitivi oggi? No. Se vai in campo e non sei competitivo, non vinci le partite, punto. Le altre squadre non ci daranno una mano a rimetterci in carreggiata, dobbiamo farlo noi». Tutte dichiarazioni che suonano come un monito per l’intera organizzazione, in modo neanche troppo velato: «Siamo a posto con il fatto di non competere? Non lo so, io di sicuro non sono a posto con questa roba».
Come sempre in questo momento dell’anno, è doveroso chiedersi se non sia troppo presto per saltare a conclusioni. In una recente intervista, Lillard ha predicato pazienza, ricordando quanto sia lunga la regular season e come gli up-and-downs facciano parte della normalità per una squadra NBA. L’ex Portland ha ragione, almeno in linea teorica: un filotto di sei sconfitte non verrebbe descritto con tinte drammatiche come sta avvenendo a Milwaukee, se solo si fosse verificato in un altro momento dell’anno; ed è anche vero che l’assenza di Khris Middleton e un calendario particolarmente impegnativo hanno giocato un ruolo non trascurabile nel brutto avvio dei Bucks. D’altra parte, è la storia dell’NBA a suggerire quanto il margine d’errore, a questo punto, sia ristretto: solo una manciata di squadre hanno raggiunto la post-season dopo un avvio del genere, ed è bene ricordare che la mera qualificazione ai playoff rappresenti meno, molto meno, dell’obiettivo minimo stagionale.
Se è vero che nei momenti di crisi ci si aggrappa al “poco ma sicuro”, è proprio qui che si annidano le angosce dei Bucks, che sembrano aver perso completamente il filo discorso dopo aver visto sgretolarsi davanti ai propri occhi ogni certezza, o presunta tale. Dal campo alla dirigenza, passando ovviamente per lo staff tecnico, a Milwaukee pare che non siano davvero più sicuri di niente; e se la sensazione dovesse confermarsi nei prossimi mesi, è impossibile non immaginare uno scenario catastrofico durante l’estate 2025.
SICURI DI ESSERE UNA CONTENDER?
La domanda più importante, e per certi versi opprimente, troverà risposta sul campo nelle 70 partite mancanti di stagione regolare, e soprattutto in quanto accadrà - sembra strano, ma va detto: eventualmente - a primavera inoltrata. Nonostante le recenti dichiarazioni di coach Rivers - «non sono preoccupato, faremo i playoff» (da contestualizzare come risposta al dato sullo storico delle squadre che hanno iniziato con un record di 1-6, ma che non suonano comunque rassicuranti per una franchigia che dovrebbe dare per scontato il raggiungimento della post-season) - i Bucks sono una squadra costruita e pensata per ambire al Larry O’Brien Trophy. A guardarli giocare, però, non sembra ci siano molto vicini.
«Prima di parlare di Conference Finals e NBA Finals, dobbiamo essere in grado di superare il primo turno», aveva detto Antetokounmpo durante il Media Day di inizio ottobre. Come dargli torto: dopo il titolo del 2021, Milwaukee è stata deposta dai Boston Celtics in sette gare nel secondo turno dell’anno successivo, prima di due clamorosi upset contro i Miami Heat nel 2023 e gli Indiana Pacers lo scorso aprile. Ora, dopo questo inizio di stagione, chi scommetterebbe sul loro anno del riscatto? Di certo non Las Vegas: secondo i bookmakers, infatti, al momento ci sono ben dodici squadre davanti nella corsa al titolo.
Certo, gli infortuni non sono stati d’aiuto. Antetokounmpo ha avuto problemi fisici (alla schiena e al polpaccio) in entrambe le eliminazioni, saltando otto delle undici gare contro Miami e Indiana, e non sorprende che alla vigilia del season opener abbia detto di «pensare prima di tutto all’integrità fisica, per essere disponibile nei playoff e superare il fottuto primo turno». L’assenza di Middleton, inoltre, incide non poco sulle difficoltà in cui versano i Bucks, ma allo stesso tempo fa spazio a due interrogativi: è ipotizzabile una lunga corsa nei playoff per una squadra che appare totalmente smarrita senza il proprio “terzo violino”? E quanto possiamo fidarci di lui quando ci dice di «non essere un giocatore propenso agli infortuni», e che quelli recenti siano stati «solo incidenti di percorso»? Middleton è prossimo a compiere 34 anni, è sceso in campo soltanto 88 volte da ottobre 2022 ad oggi, e in estate si è sottoposto a un intervento chirurgico ad entrambe le caviglie.
In modo analogo, lo storico recente di Doc Rivers nei playoff non è confortante. Nelle sue dieci stagioni a Los Angeles e Philadelphia, non è riuscito a portare i Clippers e i Sixers alle finali di Conference nemmeno una volta, nonostante roster più che competitivi e la presenza di svariati All-Star. Il ricordo del titolo conquistato a Boston nel 2008 è ormai troppo lontano per avere un qualsiasi significato, e se è lecito chiedersi perché Rivers goda ancora di una considerazione così elevata tra i front office NBA, è chiaro che a Milwaukee potrebbe consumarsi la sua ultima grande occasione. L’ex coach di Phila risponde con apparente serenità che “l’ansia percepita intorno ai Bucks è tutta all’esterno dell’organizzazione, non dentro”, ma le parole di Antetokounmpo ci raccontano una storia diversa.
SICURI DI AVER DATO IL NECESSARIO A GIANNIS?
La domanda, come detto, parte dal campo ma si estende al mercato: sia nell’ottica di valutare la bontà delle operazioni effettuate di recente da John Horst e soci, sia per lo spettro di una richiesta di trade di Antetokounmpo, perennemente all’orizzonte. La franchigia nell’ultimo anno e mezzo non è mancata nel far sentire al greco l’urgenza di correre ai ripari, dopo ogni delusione: prima con i cambi di guida tecnica, passando da Budenholzer a Griffin, e quindi a Rivers; e poi con coraggiose mosse di mercato, a partire da quella che ha portato Damian Lillard in Wisconsin l’estate scorsa.
Eppure, la squadra vista in queste settimane sembra portarsi dietro alcuni difetti ormai di vecchissima data, soprattutto nella metà campo offensiva. La scarsa efficienza dell’attacco di Doc Rivers (109.6 punti segnati per 100 possessi, per NBA.com) non è giustificabile per una squadra che affianca alle proprie due stelle - che individualmente stanno facendo registrare numeri più che degni del loro status - una serie di buoni tiratori; o almeno sulla carta, perché nel mondo reale Gary Trent Jr, Brook Lopez, Bobby Portis e Pat Connaughton hanno tutti iniziato la stagione con mani freddissime al tiro e con un contributo realizzativo ben al di sotto delle rispettive abitudini. L’unica eccezione, ad oggi, è Taurean Prince, che sta tirando con un clamoroso (ma insostenibile) 56.4% dall’arco.
Tutto ciò, però, non si spiega con la casualità, la sfortuna o la varianza, bensì con un attacco farraginoso, lento e prevedibile, in cui Milwaukee sta visibilmente faticando a coinvolgere il supporting cast e costruire tiri di qualità. La palla si muove poco, spesso ci si accontenta di giochi a due Dame-Giannis in situazioni statiche, senza un reale “piano b”; e in transizione si corre pochissimo, soprattutto nei momenti in cui Antetokounmpo è seduto in panchina. Tutto ciò genera percentuali sotto la media dall’arco (intorno al 34% di squadra, 20° nella lega), pochissimi rimbalzi offensivi (20.5% dei tiri sbagliati, 30°) e la miseria di 21.8 assist a partita (27°).
Anche nell’altra metà campo i problemi sembrano gli stessi che hanno caratterizzato tutto il post-Jrue Holiday, la cui partenza ha segnato l’inizio del declino della difesa drop attuata con Brook Lopez. Oltre ai segni del tempo che si fanno notare sulla mobilità del centro, a Milwaukee oggi manca un difensore Point-of-Attack come Holiday, che rendeva sostenibile ed efficace questa strategia grazie a un’abilità elitaria di navigare i blocchi e togliere i trattatori di palla avversari dalle loro zone di comfort.
Nelle ultime tre settimane abbiamo visto Lillard coinvolto molto spesso in situazioni di blocchi sulla palla (11.3 a partita, il tasso più alto da più di dieci anni, secondo ESPN Research), e una lunga lista di guardie avversarie fare a pezzi la difesa di Rivers a metà campo, con tiri dal palleggio o comunque creando facilmente vantaggio con un semplice pick&roll. I Bucks sono 15° in NBA per percentuali concesse nel pitturato (con un 66.2% che non può essere soddisfacente, pensando agli standard degli anni passati), 26° nei tiri dalla media distanza (44%) e 24° nella difesa del perimetro (38%). E quando gli spazi si dilatano, in transizione, i Bucks ci ricordano di essere la squadra più anziana della lega, concedendo quasi 140 punti ogni 100 possessi (28esimi).
Sullo sfondo - anzi che in primo piano, ed è proprio questo il punto - ci sono le prestazioni di Antetokounmpo e Lillard, che stanno facendo registrare medie rispettivamente di 33.3 e 26.0 punti a partita, con ottima efficienza al tiro (salvo qualche rara occasione).
Il contributo del supporting cast, però, è troppo limitato perché questo si tramuti in un record vincente. Come ha evidenziato Doc Rivers di recente, «la panchina è un problema da risolvere con urgenza». Ancora: il ritorno di Middleton (a proposito, quel momento dovrebbe essere imminente, ma viene rimandato di giorno in giorno) sarà d’aiuto, ma non è un alibi sufficiente. Rivers ha provato a staggerare i minuti delle due stelle e cambiato più volte le proprie rotazioni, senza riuscire però - almeno finora - a dare la svolta desiderata. E questo ci porta alla terza, inquietante domanda.
SICURI DI POTER CAMBIARE LA SITUAZIONE?
Se quanto detto finora non fosse abbastanza per rovinare il sonno dei tifosi Bucks, c’è dell’altro da aggiungere. Sì, il record di squadra è senz’altro destinato a migliorare, almeno in parte: più della metà delle partite in calendario nel prossimo mese si giocheranno al Fiserv Forum, buona parte delle quali contro avversarie con un record inferiore al 50% di vittorie; e al di là di questo, è impensabile che una squadra con i mezzi di Milwaukee non riesca a migliorare un rendimento, ad oggi, da tanking team. La vera domanda però è se Antetokounmpo e compagnia, inclusi tutti i membri della franchigia, saranno in grado di invertire velocemente e soprattutto drasticamente la rotta.
I problemi strutturali del roster non scompariranno magicamente: sette degli otto giocatori principali a libro paga hanno scollinato quota 30 anagraficamente, e le implicazioni di campo e infortuni rimarranno quindi dietro l’angolo; le rotazioni di Doc Rivers si potranno aggiustare, ma non possiamo aspettarci un salto di qualità con la promozione dei pur positivi Andre Jackson Jr e AJ Green; e dal mercato non arriverà alcuna scintilla significativa, considerando la penuria di asset (la prima scelta cedibile è nel 2031) e soprattutto le limitazioni cui sono soggetti i Bucks per via della loro situazione salariale (“l’inferno del second apron”, come ha scritto Sam Amick su The Athletic). Brian Windhorst di ESPN ha raccontato recentemente che i dirigenti di Milwaukee “hanno chiamato praticamente tutta la lega” alla ricerca di soluzioni, ma difficilmente riusciranno a cavare qualcosa, non avendo la possibilità di aggregare contratti negli scambi, non potendo concludere transazioni con un saldo negativo, né avendo chances di fare innesti importanti sul buyout market.
Se a prendere le decisioni fosse una giuria popolare, il primo passo sarebbe scontato: licenziamento di Doc Rivers e cambio di guida tecnica. Del resto, le perplessità sullo stile di gioco dei Bucks erano state abbastanza l’anno scorso, nel pieno della stagione, per legittimare l’esonero di Adrian Griffin, nonostante un bottino di 30 vittorie in 43 partite allenate. E prima di lui, era stato allontanato Mike Budenholzer, che aveva guidato la squadra al titolo ventiquattro mesi prima. Ora la situazione sembra ancor più preoccupante, e dall’arrivo di Rivers lo scorso febbraio il record complessivo è inferiore al 50% di vittorie. A patto che la squadra riesca (almeno parzialmente) a migliorare il proprio rendimento, però, non c’è da aspettarsi nulla di tutto ciò: i Bucks hanno elargito un contratto garantito da circa 40 milioni di dollari per tre stagioni e mezzo al loro attuale allenatore, ed è abbastanza improbabile, al netto delle spese per il roster, che decidano di mandare tutto all’aria a stretto giro.
A prendere una simile scelta, peraltro, dovrebbe essere il general manager John Horst, la cui posizione al momento non è così stabile, anzi. La recente combinazione di cambi allenatore e blockbuster trade portano la sua firma, e se le cose non dovessero funzionare è difficile che la nuova proprietà metta ancora in mano sua le sorti della franchigia. In estate Horst è rimasto in Wisconsin nonostante il flirt dei Detroit Pistons (corrisposto, ma stroncato dagli stessi Bucks); adesso però la sua permanenza a Milwaukee al termine della stagione appare meno probabile ogni giorno che passa, una sconfitta dopo l’altra.
Per quanto possa sembrare difficile in questo momento, osservando il mare di difficoltà che sommergono i Bucks, l’unica strada per rinascere passa dall’interno dello spogliatoio e dalla capacità di questo gruppo di ritrovare le proprie certezze. A Milwaukee è chiaro a tutti che un altro fallimento potrebbe avvicinare la fine di un ciclo, anzi di un’era. Quello che non è chiaro, è cosa si possa e si debba fare per tornare a vestire gli abiti di una contendente per il titolo.