Il momento in cui una persona si ferma a ragionare sul premio di Most Valuable Player è quello in cui solitamente la quantità di talento presente oggi in NBA rischia di soffocarti.
Cosa bisogna dire di una lega in cui futuri Hall of Famer come Kevin Durant o Steph Curry non sono neanche presi in considerazione per il premio finale, nonostante un paio di mesi assolutamente fuori da ogni logica per cominciare la stagione? O che dire anche di giocatori come LeBron James o Chris Paul, che hanno mantenuto livelli di rendimento altissimi al netto di un’età in cui la stragrande maggioranza dei propri coetanei è già ritirata da un pezzo? O di giocatori come DeMar DeRozan e Trae Young, che devono sobbarcarsi responsabilità offensive enormi per le proprie squadre e a malapena raccimoleranno qualche voto qua e là?
Persino giovani nuovi volti della lega come Ja Morant, Jayson Tatum, Luka Doncic e Devin Booker, che hanno tutti disputato la miglior stagione della propria carriera sia per prestazioni individuali che per risultati di squadra, hanno pochissime chance di finire anche solo sul podio, mentre in altri anni probabilmente se la sarebbero giocata fino all’ultimo per il premio. E questo solo per citare dieci dei 13 giocatori che hanno preso almeno un voto nel più recente sondaggio fatto da ESPN sul titolo di MVP, in cui però neanche uno di questi è finito in almeno la metà delle top-5 dei 100 votanti.
Solamente tre giocatori sono finiti in tutti i 100 “ballot” distribuiti da Tim Bontemps: Giannis Antetokounmpo, Joel Embiid e Nikola Jokic, in rigoroso ordine alfabetico. Con ogni probabilità saranno loro tre a occupare i primi tre posti per il premio di Most Valuable Player a fine stagione, e cercare di indicarne uno che si sia distaccato dagli altri due è un’impresa semplicemente impossibile. A meno che non abbiate degli interessi di tifo o di scommesse in ballo, non c’è una risposta giusta e certamente non ce ne sono due sbagliate: chiunque finirà per alzare il premio di MVP lo avrà fatto con assoluto merito al termine di una stagione da consegnare agli annali. In un qualsiasi altro anno, una qualsiasi di queste tre stagioni avrebbe vinto il premio quasi sbadigliando. Per loro sfortuna sono capitate tutte e tre assieme, ma per nostra fortuna se non altro abbiamo potuto assistere a una delle competizioni per il trofeo di MVP più entusiasmanti di sempre, talmente incerta che anche oggi — a diversi giorni dalla fine della regular season, che è poi il corpus che i 100 votanti dovranno andare a considerare — cercare di capirci qualcosa non è per niente semplice. Ma ci proviamo, analizzandoli giocatore per giocatore.
Joel Embiid, il più immarcabile
Il premio di MVP non sta solo a testimoniare il rendimento di un certo giocatore, ma vuole anche raccontare la storia di cosa è stata quella stagione nel suo intero. Il titolo di Derrick Rose nel 2011 rappresentava anche la rinascita dei Chicago Bulls, tornati in vetta alla Eastern Conference per la prima volta dai tempi di Michael Jordan; quello di Kevin Durant nel 2014 certificava anche la sua ascesa nel gotha della pallacanestro; quello del 2016 di Steph Curry — il primo e finora unico all’unanimità nella storia della NBA, e considerando il talento in giro per la lega potrebbe rimanere tale ancora a lungo — era il culmine di un biennio sensazionale dei Golden State Warriors, capaci di vincere 73 partite quell’anno.
Joel Embiid, suo malgrado, è stato attore non protagonista di una delle saghe che hanno contrassegnato la regular season appena conclusa, cioè il rifiuto di Ben Simmons di scendere di nuovo in campo con i Philadelphia 76ers, incrociandosi poi con l’altra “storia” della stagione, cioè i Brooklyn Nets e lo scambio che ha portato James Harden a casa di Embiid. Tutti questi accadimenti si sono succeduti sotto gli occhi ovviamente interessati del camerunense, che ha dovuto navigare una regular season piena di insidie in campo e fuori, dove ogni sua parola sulla vicenda Simmons — che ha dovuto affrontare quotidianamente o quasi — è stata vivisezionata, mettendogli addosso ulteriore pressione non voluta.
Embiid è stato semplicemente magnifico nel modo in cui si è rimboccato le maniche e ha trascinato i Sixers fuori dalle secche emotive e mediatiche in cui potevano impantanarsi. Dopo aver cominciato la stagione con 8 vittorie e 2 sconfitte, complice anche una sua assenza prolungata nel mese di novembre i Sixers sono poi crollati attorno al 50% di vittorie con cui sono arrivati a Natale. Ma da quel momento in poi Embiid è stato semplicemente inarrestabile: dal 26 dicembre in poi ha viaggiato praticamente a un punto al minuto, segnando 33.1 punti di media in 33.9 minuti con 12.1 rimbalzi, 4.1 assist, 1.5 stoppate, il 52% dal campo, il 37% da tre punti e l’81% ai liberi su 12.6 tentativi a partita, tutti dati vicini o superiori ai suoi massimi in carriera.
Il suo rendimento in campo unito alla saga Simmons al di fuori lo hanno catapultato in vetta alla corsa per l’MVP attorno al mese di gennaio e febbraio, e quando i Sixers hanno concluso lo scambio per Harden sembrava il tassello finale per poter spingere e raggiungere il primo premio della carriera, che già lo scorso anno era andato vicino a vincere prima di essere rallentato dagli infortuni (solo 51 partite disputate sulle 72 previste). Proprio il pungolo di ripresentarsi nelle migliori condizioni possibili è stato il preludio a questa annata, in cui ha giocato 68 partite che sarebbero state sicuramente di più se non ci si fosse messo di mezzo il Covid-19. Dal punto di vista fisico, Embiid non avrebbe potuto fare niente di più per rimanere lontano dagli infortuni ed essere nelle migliori condizioni possibili, un’eventualità non così scontata visto come era cominciata la sua carriera in NBA e le voci che circolavano sulla sua disciplina e professionalità.
Ora invece è capace di giocate come questa.
Per rendere nei termini più semplici possibili la stagione di Embiid, basti dire questo: i difensori non hanno potuto fare assolutamente nulla contro di lui, se non sperare che sbagliasse. La sua combinazione di forza fisica, dimensioni e velocità è resa ancora più immarcabile dalla sua coordinazione, perché non dovrebbe essere possibile che un giocatore così grosso sia anche così fluido nei movimenti. Uniteci anche un tocco fenomenale (37% da tre punti e 81% ai liberi, che si procura con una scaltrezza diabolica) e il risultato è un attaccante senza difetti, capace di vincere il titolo di capocannoniere pur giocando da centro — una rarità in NBA, visto che l’ultimo a riuscirci era stato Shaquille O’Neal nel 2000. Se proprio bisogna trovare un aspetto del gioco che, pur essendo migliorato enormemente, non è ancora al livello di tutto il resto è la lettura dei raddoppi, specialmente quelli dal lato cieco che ogni tanto ancora lo sorprendono.
Questo è certamente uno degli aspetti che maggiormente dovrà sistemare con James Harden. Da quando il Barba è arrivato ai Sixers Embiid gioca molti più pick and roll centrali, ma quando si mette spalle a canestro l’immobilismo senza palla di Harden finisce per bloccare l’attacco di Philadelphia, una situazione offensiva che le squadre avversarie proveranno a sfruttare il più possibile a partire già dalla serie contro Toronto. A pesare sulla candidatura di Embiid al premio di MVP è anche il fatto che, dopo l’arrivo di Harden, la squadra non ha chiuso la regular season in maniera convincente, perdendo partite interne contro Brooklyn, Denver e Milwaukee che inevitabilmente resteranno nelle teste di chi sarà chiamato a votare, così come il quarto posto in una Eastern Conference che i Sixers potevano vincere.
Dei tre giocatori che si giocheranno l’MVP, Embiid sembra essere quello che ci tiene più di tutti, anche perché è l’unico che non lo ha ancora vinto. Le sue recenti dichiarazioni — «Non so cos’altro dovrei fare per vincerlo: se non mi votano, allora penserei che mi odiano» — hanno l’unico risultato di inquinare il discorso attorno alla votazione, così come i tweet del suo trainer Drew Hanlen non giocano esattamente a suo favore. Eppure non servirebbe altro se non quello che ha già fatto, considerando che il suo livello difensivo è stato eccellente, anche se forse meno continuativo rispetto a quello degli altri due sull’arco delle 82 partite. Quando non ha davanti una minaccia dal palleggio, però, la sua copertura contenitiva del pick and roll è Gobert-iana, e anche quando deve uscire sul palleggiatore la sua condizione fisica migliore gli permette di rimanere con l’avversario per più di uno scivolamento, oscurando la visuale di chi lo affronta.
Kevin Durant ha detto recentemente che secondo lui Embiid è l’MVP perché «è capocannoniere, primo per doppie doppie, la sua squadra ha vinto 50 partite e i suoi numeri sono incredibili», ma anche lui stesso ha ammesso che alla fine si risolve solo in una questione di gusti personali. «Puoi chiudere gli occhi e sceglierne uno qualsiasi dei primi sei o sette e hai un grande MVP. Questo dimostra quanto sia grande questa lega in questo momento, ma se dovessi scegliere andrei con Embiid». Che in un anno normale sarebbe già con il premio in mano, ma questo non è un anno normale.
Giannis Antetokounmpo, il più dominante
Molto delle candidature di Embiid e Jokic si basano anche sulle circostanze che hanno dovuto affrontare in termini di assenze ed infortuni dei compagni di squadra. Giannis Antetokounmpo, pur non avendo perso nessun compagno di squadra All-Star, non ha avuto comunque la più semplice delle stagioni: forti dell’anello vinto lo scorso anno, i Milwaukee Bucks hanno costeggiato la stagione per larghi tratti, anche perché Khris Middleton e Jrue Holiday hanno avuto un’estate sostanzialmente senza riposo passando dalla parata per il titolo NBA al debutto alle Olimpiadi senza neanche un giorno di allenamenti nel mezzo. Ma l’infortunio di Brook Lopez alla prima gara stagionale ha avuto un impatto diretto sulla stagione di Antetokounmpo, che ha dovuto giocare più minuti da 5 di quelli che avrebbe probabilmente voluto (quasi il 40% del suo tempo passato in campo, nettamente il suo massimo in carriera), dovendo tenere in piedi una difesa che senza di lui concedeva quasi 5 punti su 100 possessi in più, soffrendo terribilmente a rimbalzo.
Il rispetto con cui Antetokounmpo tratta ogni singola partita di regular season in cui scende in campo, però, è immacolato. Ed è il motivo per cui Milwaukee alla fine ha chiuso con il terzo record nella Eastern Conference, pur scegliendo di non giocarsi fino all’ultimo la seconda posizione regalando la gara conclusiva della stagione schierando solo le terze e le quarte linee. Ma in alcuni frangenti della seconda metà di regular season, i Bucks hanno comunque dimostrato perché sono i campioni in carica e perché rimangono la scommessa più sicura per uscire vincitori dalla Eastern Conference, e il motivo è in gran parte Giannis.
Rispetto ai due anni in cui è stato votato come MVP della lega, questo Antetokounmpo è un giocatore ancora più sicuro dei suoi mezzi. Il titolo vinto lo scorso anno lo ha definitivamente sbloccato dal punto di vista mentale: non c’è nessuna superstar che sbagli quanto lui, ma non c’è neanche nessuna superstar a cui interessa di meno di aver sbagliato. I suoi miglioramenti al tiro lo dimostrano più di ogni altra cosa: ora Antetokounmpo è un tiratore da 44% nelle long 2s (Embiid tira con il 45% da quella zona di campo ed è considerato, a ragione, un tiratore migliore di lui) e i tiri dalla media distanza ora rappresentano il 32% della sua “dieta” di tiri, il punto più alto dell’era Budenholzer. E anche ai liberi è tornato a essere un tiratore da 72% su un volume ai massimi in carriera, anche perché l’unico modo per impedirgli di arrivare al ferro è fargli fallo. Presi singolarmente sono numeri tutto sommato mediocri, ma uniti a tutto il resto del suo gioco lo rendono un enigma irrisolvibile per gli avversari.
La sua presenza difensiva rimane poi talmente terrificante da sconsigliare agli avversari anche solo l’idea di affrontarlo. La cosa curiosa è che quando poi lo fanno, Antetokounmpo non è del tutto impenetrabile: in questa stagione gli avversari hanno segnato 1.125 punti per possesso in isolamento contro di lui, che è un numero alto, ma su un numero bassissimo di tentativi, solo 112 in tutta la stagione. Giannis domina le partite in difesa con la sua sola presenza: con lui in campo gli avversari tirano nettamente di meno al ferro e decisamente di più dalla media distanza, e anche quando arrivano a sfidarlo sotto canestro tirano con l’11% in meno rispetto alla media, seppur anche qui su un numero di tentativi relativamente basso (ne difende meno di Kyle Kuzma, per dire).
Mettendo tutto assieme, Antetokounmpo rimane il singolo giocatore più dominante su entrambe le metà campo che ci sia in giro in NBA, e l’unico a dare l’impressione che quando davvero vuole accelerare non ci sia alcun modo di arginarlo, come dimostrano i 15 punti in fila della vittoria dei Bucks a Philadelphia a cavallo di terzo e quarto periodo (conclusa con una sua stoppata decisiva su Embiid a pochi secondi dal termine) o il finale di gara a Brooklyn, suggellando una prestazione da 44 punti, 14 rimbalzi e 6 assist con una tripla fondamentale per forzare l’overtime. Nei momenti decisivi delle grandi partite, bisogna sempre fare i conti con Giannis.
Nikola Jokic, il più indispensabile
Quello che rende affascinante il premio di MVP, ma anche così difficile da afferrare, è il senso che bisogna dare all’aggettivo “Valuable” che sta in mezzo a Most e a Player. Che cosa si intende per “Valuable”? A quale tipo di valore si fa riferimento? Al valore intrinseco del giocatore in sé e per sé o al suo valore riferito nei confronti della squadra? È un premio al giocatore più forte di quella stagione o a quello che è stato più indispensabile per i successi della sua franchigia?
Nikola Jokic forse non è stato il miglior giocatore visto in campo quest’anno, anche se ne potremmo discutere, ma di certo è stato quello più insostituibile per i suoi Denver Nuggets. Che senza di lui hanno dimostrato — complici le assenze pesanti di due giocatori da massimo salariale come Jamal Murray e Michael Porter Jr. — di non avere una singola chance di vincere qualsiasi partita. Il differenziale tra quando Jokic è stato in campo e quando è rimasto fuori è agghiacciante: 19.5 punti di differenza tra un dato e l’altro, viaggiando a 118.5 punti segnati in attacco con lui (sarebbe il miglior dato di tutta la NBA su base stagionale) e precipitando 107.2 senza di lui (sarebbe il quart’ultimo attacco, davanti solo a Orlando, OKC e Detroit). E anche in difesa se possibile siamo sugli stessi livelli, passando da 109.6 (pari alla difesa di Memphis, la quinta migliore della lega) a 117.8 (esattamente il dato di Houston, cioè la peggior difesa NBA).
Rispetto alla passata stagione in cui Jokic ha vinto meritatamente il premio di MVP, la sua importanza per la squadra è pressoché raddoppiata: lo scorso anno difensivamente i Nuggets andavano nettamente meglio quando lui non c’era (-7.4 punti concessi su 100 possessi), dato che lui compensava facendo girare l’attacco come nessun altro in NBA. Quest’anno però è evidente come Jokic sia migliorato anche come difensore, tanto che tantissime statistiche avanzate — dal VORP al PER, dalle Win Shares al Box Plus-Minus, fino a quelle omnicomprensive come l’EPM, il RAPTOR o il LEBRON — lo indicano tutte come il miglior giocatore della lega. E per quanto si possa essere dubbiosi sulla validità di ciascuna singola statistica, quando tutte dicono la stessa cosa ci dovrà pur essere un fondo di verità.
Anche se non siete amanti delle statistiche, però, Jokic ha abbastanza argomenti per soddisfare qualsiasi palato. La sua presenza in campo cambia le geometrie della partita: nonostante le squadre avversarie siano ossessivamente concentrate su di lui per cercare di arginarlo, il serbo conosce ogni contromossa possibile per continuare a far macinare canestri ai Nuggets, che sia mettendosi in proprio o servendo i compagni. La sua stagione offensiva è tra le migliori nella storia del gioco: pur dovendo fare i conti con un calo nelle percentuali da tre punti (complice un problema a un polso), ha comunque chiuso con il 62% di percentuale effettiva segnando oltre 27 punti a partita, con una percentuale da due punti del 65.2% che non si vedeva dai tempi di Wilt Chamberlain su quel volume di tiri. Pur preferendo filosoficamente l’assist per i compagni, i miglioramenti che Jokic ha fatto dal punto di vista realizzativo sono sensazionali, migliorando ulteriormente rispetto alla passata stagione in cui si pensava che fosse già arrivato al suo picco. Jokic è stato ancora meglio.
Un aspetto del suo gioco di cui si parla troppo poco è poi quanto è dominante a rimbalzo sia in attacco che in difesa. Dal punto di vista tecnico, non c’è un rimbalzista migliore di lui: il modo in cui legge con anticipo le traiettorie del pallone e, soprattuto, il lavoro che fa per posizionarsi e poi usare le sue dita fatate per imprimere alla palla la direzione a lui più congeniale è uno spettacolo nello spettacolo. Se è in attacco, riesce a deviare il pallone verso il canestro senza neanche avere bisogno di averlo completamente in mano; in difesa, gli bastano poche frazioni di secondo per lanciare in contropiede i compagni di squadra meglio di buona parte dei quarterback professionisti.
I passaggi di Jokic sono diversi da quelli di tutti gli altri giocatori perché sembrano viaggiare a velocità diverse: accellerano quando sono in aria per raggiungere più velocemente il compagno di squadra (e impedire l’intervento degli avversari), ma rallentano quando atterrano dolcemente sulle mani del destinatario. Quando il pallone transita dalle mani di Jokic sembra diventare di una consistenza diversa.
La sua presenza a rimbalzo difensivo permette poi ai Nuggets di non concedere seconde opportunità agli avversari (è la squadra che subisce meno rimbalzi offensivi), un aspetto cruciale per una difesa che non ha grande talento né grandissimi atleti per impedire agli avversari di arrivare dove vogliono, come testimonia il fatto che contro i Nuggets si tira con il 68.7% al ferro (peggior dato NBA). Il valore difensivo di Jokic sta nell’impedire agli avversari di arrivarci così frequentemente: il serbo ha una capacità speciale nel mantenere la giusta distanza nei confronti degli avversari forzandoli a prendere tiretti dai 3-4 metri, sfruttando paradossalmente a suo vantaggio il fatto di non saltare davvero mai, usando la sua mole enorme per costringere gli avversari a tirare sopra di lui.
L’idea che Jokic non sia un buon difensore può definitivamente andare in soffitta: non sarà forte come le statistiche avanzate lo vogliono dipingere, ma è anche come minimo superiore alla media del suo ruolo, anche grazie ad un’intelligenza cestistica rivoltante. Questo non significa che sia immune da qualsiasi matchup: come tutti i lunghi di quelle dimensioni può andare in sofferenza contro grandi realizzatori dal palleggio, come hanno dimostrato i playoff dello scorso anno contro Chris Paul e Devin Booker. Molto dipenderà anche da quali condizioni atletiche riuscirà a mantenere nella post-season: solamente Karl-Anthony Towns tra i centri ha giocato più dei suoi 2.473 minuti non-garbage in stagione, e come abbiamo visto ha dovuto giocare ciascuno di quei minuti al massimo delle sue possibilità per dare una chance ai suoi Nuggets. Se si prende in considerazione l’intera mole di lavoro della sua stagione, la sua continuità partita dopo partita, l’aver reso pressoché una routine anche linee statistiche da 38 punti, 19 rimbalzi e 8 assist con il 66% al tiro come fatto a inizio mese contro Minnesota (prestazioni che sarebbero da career-high per il 95% della NBA e che fatte da lui non fanno alzare neanche un sopracciglio) e i miglioramenti per certi versi inattesi rispetto anche alla passata stagione, si ottiene un candidato MVP meritevole del riconoscimento in back-to-back.
Quindi, chi vincerà l’MVP?
Ribadendo il fatto che tutti e tre se lo meritino, probabilmente per la composizione dei votanti il premio rischia di rimanere nelle mani di Jokic. I 100 giornalisti che assegnano i voti, infatti, sono molto diversi rispetto al passato: pur essendo comunque una rappresentazione più o meno omogenea dei 28 mercati, non ci sono più i “color commentator” che votano solo per i giocatori delle proprie squadre e non guardano ciò che succede nel resto della lega. Con il League Pass a disposizione di tutti, un’attenzione sempre maggiore alle statistiche avanzate da ormai 10 anni a questa parte e, soprattutto, con i voti che vengono resi pubblici dopo l’annuncio del premio, nessuno vuole più essere preso di mira da tifosi e da altri addetti ai lavori (specie quelli che non hanno ricevuto il prezioso “ballot”) per le proprie scelte, allineandosi più o meno con quello che è il pensiero comune.
Nella votazione finale finirà per vincere non necessariamente chi riceverà il maggior numero di voti per il primo posto (che vale 10 punti), quanto chi riuscirà ad accaparrarsi il maggior numero di seconde posizioni (7 punti) e il minor numero di terzi (5 punti), dando per scontato che i quarti posti (3 punti) e quinti posti (1 punto) non muovano più di tanto la somma finale. E Jokic da questo punto di vista sembra avere maggiori possibilità rispetto agli altri due di finire nelle prime due posizioni, mentre sia Embiid che Antetokounmpo potrebbero essere visti per motivi diversi al terzo posto. Rimane comunque una corsa per l’MVP destinata a rimanere negli annali, e comunque vada dobbiamo ritenerci fortunati di averla potuta vivere in questa stagione che si è appena conclusa.