L’ultimo quarto della sfida tra New York Knicks e Boston Celtics si sta stancamente avviando verso la sua conclusione quando Julius Randle si procura l’ennesimo viaggio in lunetta della sua inconsistente partita. Il punteggio è di 106-98 e se Randle segnasse i due liberi a disposizione ci sarebbero sei lunghezze di distanza tra le due squadre, che con 2 minuti e 11 secondi sul cronometro rappresenterebbero tutt’altro che uno svantaggio insormontabile. Eppure tutti sanno che la partita è già finita dopo il 12-0 di parziale che i Celtics hanno piazzato nel mezzo dell’ultimo quarto, suggellato da una tripla di Jayson Tatum che fa sospirare al mio vicino di posto un disperato «It happens all the time».
Dalle ultime file della sezione inferiore del Madison Square Garden un ragazzino intona da solo il coro “M-V-P! M-V-P!” per il suo numero 30, di cui indossa la maglietta. Attorno al campo c’è così tanto silenzio che si sente praticamente solo lui. Randle sbaglia il primo libero, l’unica cosa che procura un sussulto ai pochi che non si sono ancora avviati verso l’uscita per tornare nel nevischio che sta avvolgendo Manhattan sin dalla mattina. Mentre Randle comincia la sua routine prima del secondo libero, il ragazzino riprova a far partire il coro ma un’altra voce, ben più adulta, lo tronca sul nascere:
«RANDLE YOU SUCK!».
Questa volta il resto del lower bowl non può fare altro che mettersi a ridere, perché sanno che è vero. I Knicks si sono battuti per tutta la partita, esattamente come fatto due giorni prima contro i Philadelphia 76ers. Ed esattamente come due giorni prima, a un certo punto dell’ultimo quarto la squadra avversaria - sia Sixers che Celtics hanno dato l’impressione di aver decisamente goduto dei benefici di New York nel weekend del Thanksgiving, e non ci riferiamo agli affari del Black Friday - ha deciso di mettersi a giocare e i Knicks sono spariti dal campo, annegati nella loro stessa inadeguatezza anche solo per superare la metà campo o per produrre un qualsiasi tipo di idea di gioco.
È questa sensazione di ineluttabilità che le cose in un modo o nell’altro debbano per forza andare male a permeare tutto ciò che circonda i New York Knicks, la franchigia più disperata della NBA da ormai venti anni a questa parte. Vederli da vicino non fa altro che confermare quello che traspare anche a un oceano di distanza, idea rafforzata dal trovarsi vicino ad altre centinaia di persone che hanno il tuo stesso pensiero: come ci si rialza da tutto questo schifo? E, ancora peggio: a qualcuno interessa davvero farlo?
I Knicks sembrano non averne nessuna idea, o almeno: le persone che dovrebbero avere un’idea di come riuscirci non sembrano averle. L’unica reazione è stata quella di licenziare coach David Fizdale, dopo che nelle due partite contro Milwaukee e Denver il computo totale è stato un freschissimo -81. Una decisione di cui tutti ormai aspettavano solo la notizia ufficiale dalle notifiche sui tweet di Adrian Wojnarowski, arrivata nel pomeriggio americano di venerdì scorso mentre i Knicks si preparavano per affrontare in casa gli Indiana Pacers.
L’ennesima cosa sbagliata dell’avventura Fizdale
Tutti sapevano che Fizdale sarebbe stato cacciato, eppure la dirigenza guidata da Steve Mills e Scott Perry è riuscita a sbagliare anche in questa occasione. Invece di comportarsi in maniera professionale e far uscire di scena Fizdale quantomeno con dignità, la dirigenza dei Knicks gli ha fatto preparare la gara contro i Pacers e dirigere l’allenamento del giorno prima, facendosi anche vedere dai media mentre chiacchieravano a bordo campo in una sorta di armonia. Poi lo hanno licenziato un paio di ore dopo - “così de botto, senza senso” direbbero gli sceneggiatori di Boris, che sicuramente farebbero un lavoro migliore nel scrivere la sceneggiatura dei New York Knicks.
Anche perché tutte le storie da venti anni a questa parte ormai sembrano assomigliarsi l’un l’altra. Viene assunto un nuovo allenatore: “Sarà lui a guidarci di nuovo ai fasti del passato! È una nuova era!”. Poi la squadra fa schifo, il Garden contesta, la proprietà perde la pazienza e la testa dell’allenatore salta (se ne sono susseguiti otto dal 2004 a oggi, senza contare quelli ad interim). Si insedia una nuova dirigenza: “Abbiamo imparato dai nostri errori! Sarà tutto diverso, faremo le cose in maniera seria, costruiremo con calma una contender per il titolo!”. Poi si falliscono tutti gli obiettivi dei grandi nomi in free agency, si spendono un sacco di soldi allungando contratti senza senso, non si crea neanche uno straccio di cultura di squadra, e non si sviluppa nemmeno il talento giovane a disposizione. Dal 2003 a oggi ci sono state cinque dirigenze guidate da persone diverse, e tutte hanno finito per fallire.
Anche quando per qualche strano motivo si allineano una lunga serie di pianeti - come successo nella stagione 2012-13 in cui il giusto mix di veterani (Jason Kidd, Marcus Camby, Kenyon Martin, Rasheed Wallace) e tiratori (JR Smith, Steve Novak) ha incontrato un Carmelo Anthony costretto a scalare da 4 (complice l’infortunio di Amar’e Stoudemire) -, i Knicks non sono riusciti a farlo durare per più di una stagione. Neanche il momento più memorabile della decade degli anni ‘10 per l’intera franchigia - l’irripetibile “Linsanity” - è durata più di qualche settimana senza che inevitabilmente qualcosa la facesse saltare per aria. Perché le cose belle non sono fatte per durare al Madison Square Garden.
L’immagine più iconica della decade per i Knicks.
Quand’è che le cose hanno cominciato ad andare male?
Quando Kevin Durant dice che nessuno vuole andare ai Knicks perché “non sono il brand figo di New York”, dice una triste verità. C’è un’aura di tristezza che circonda tutto ciò che è Knicks, a cui si aggiunge il fatto che all’interno della franchigia tutti si comportano come se invece andasse tutto alla grande, o che quantomeno siano superiori agli altri. Perché loro giocano a Manhattan nella “World’s Most Famous Arena”, perché fanno soldi a palate e sono la franchigia più ricca della NBA; perché dai, sarà pure bello giocare da altre parti, ma vuoi mettere giocare a New York?
Beh, un sacco di giocatori, a quanto pare, non la pensano così. È facile far risalire la genesi del disastro della squadra di quest’anno ai clamorosi buchi presi a luglio sul mercato dei free agent, dove si presentavano con la sicurezza di prendere come minimo un grande nome e invece sono ritrovati con giocatori di scarso appeal in mano. Come se non bastasse, invece di proteggere il proprio spazio salariale - leccandosi le ferite e utilizzandolo per raccogliere altre scelte al Draft - lo hanno speso nel giro di pochissime ore su veterani tutti nello stesso ruolo (Julius Randle, Taj Gibson, Bobby Portis, Marcus Morris) con contratti a breve termine, condannandosi da soli a una stagione di transizione di cui ora si stanno vedendo i risultati.
Si potrebbe ancora far risalire l’inizio di questo declino a quando hanno deciso che Kristaps Porzingis doveva diventare il Nuovo Nemico Numero 1 del Madison Square Garden, scambiandolo non appena il lettone (non a torto, a vedere come stanno andando le cose) ha fatto capire di voler essere ceduto. Le parti erano arrivate al termine di una relazione che loro stessi avevano pesantemente contribuito a rendere tossica, ma da cui i Knicks sono usciti tirando il sospiro di sollievo del “Oh, ha chiesto lui di essere ceduto, il cattivo è lui: noi lo abbiamo solo accontentato”. Oppure il crollo si può far risalire alle vestigia della terribile era Phil Jackson (a proposito: a salary cap c’è ancora il simulacro del contratto di Joakim Noah: sei milioni e mezzo all’anno fino al 2022), in cui però se non altro al Draft era arrivato qualche prospetto interessante.
Lo sviluppo mancato dei giovani Knicks e un roster assemblato male
Ma anche lo sviluppo dei giovani si è rivelato un argomento a dir poco drammatico a New York. Di tutte le scelte al Draft arrivate in questi venti anni nessuna è stata confermata con il secondo contratto, e davvero pochi hanno mostrato tangibili segni di miglioramento nel loro percorso in maglia Knicks - sintomo che anche il sistema di player development ha gravi mancanze. Nella partita contro Milwaukee Kevin Knox, RJ Barrett e Dennis Smith Jr. sono tutti partiti titolari e hanno combinato per 2/25 al tiro, e Knox era alla seconda partita sopra i 20 minuti giocati da otto gare a questa parte (tra cui anche un DNP-CD con Philadelphia pochi giorni prima).
Barrett ha mostrato dei lampi di talento ed è ancora troppo acerbo nella sua stagione da rookie perché gli si possano accollare reali colpe, ma non ha nemmeno dato l’impressione di essere un giocatore in grado di caricarsi la franchigia sulle spalle come lo era il giovane Porzingis (anche perché sta tirando in maniera raccapricciante). E Smith, pur avendo appena compiuto 22 anni, gioca già con l’aria stanca di chi ne ha viste di ogni nella sua carriera: sembra invecchiato di dieci anni da quando è arrivato a New York.
Allonzo Trier, la sensation dello scorso anno, era stato sepolto da qualche parte a White Plains prima di lasciare due tracce incolori sulle due partite straperse con Bucks e Nuggets. Frank Ntilikina non ha mai mostrato quei passi in avanti offensivi in grado di renderlo una guardia titolare in NBA, per quanto sia diventato un beniamino del Garden per la sua voglia quantomeno di sbattersi in difesa. Mitchell Robinson è un prospetto superiore alla media per essere stato preso al secondo giro, ma fatica a tenere in campo sia per problemi di falli che di concorrenza nel ruolo, visto che davanti a lui sono stati presi settemila veterani con necessità di minutaggio.
Julius Randle è stato firmato con un triennale (pur con ultimo anno non garantito) per fungere da trait d’union tra l’ala giovane del roster e quella più esperta, ma ha finito solo per estraniarsi da entrambe le parti - mettendo giù la testa tanto in campo quanto in spogliatoio, giocando per se stesso con l’obiettivo di portare a casa le sue statistiche per avere la coscienza a posto. Lo stesso si può dire di Marcus Morris, che se non altro sta facendo alla grande il lavoro per se stesso tenendo medie irreali dall’arco (50% su 5.6 tentativi a partita) e rendendosi appetibile per la deadline del mercato, avendo solo un annuale da 15 milioni. Ma di fatto c’è una data di scadenza bella grossa anche sul giocatore che ha performato meglio in questa stagione: nulla sembra fatto per rimanere.
Il minimo comun denominatore
Si potrebbe andare avanti per ore a elencare tutte le cose che non vanno bene di questa squadra, e comunque passerebbe un bel po’ di tempo prima di arrivare a coach David Fizdale. Probabilmente in questi giorni di “instant analysis” sul suo licenziamento lo si sta assolvendo un po’ troppo in fretta, forse anche perché tutti sapevano da un mese che sarebbe stato cacciato e quindi non fa più neanche troppa notizia elencare le sue colpe. Che comunque sono ben presenti: le sue rotazioni erano quantomeno sospette, l’identità di squadra inesistente, e in attacco si faceva esattamente il contrario di quello che chiedeva (predicava mentalità forte e attacco veloce, si è vista una squadra molle con il terzo pace più basso della lega). I Knicks non sembravano ben allenati da nessun punto di vista: non erano neanche una di quelle squadre con poco talento che se non altro si sbattono e “perdono bene”, dando l’impressione di stare costruendo qualcosa di positivo mentre le sconfitte si accumulano. Qualche quarto ben giocato c’è stato, anche nelle ultime gare interne del weekend del Thanksgiving, ma era inevitabile notare quanto pesasse l’atteggiamento svogliato da parte dell’altra squadra e/o quanto impegno in più ci mettessero gli stessi Knicks.
Non è un caso che, delle quattro vittorie raccattate quest’anno, due siano arrivate contro i Dallas Mavericks di Porzingis, con la seconda gara in un Garden infuocato nel gridare di tutto al lettone. Serate come quella rendono ancora più amaro pensare a cosa potrebbe essere l’MSG con dei Knicks forti, sia a livello di ambiente che di narrativa, ma oramai è come se ci si fosse rassegnati che sotto la proprietà di James Dolan questo non sia possibile.
Già, James Dolan: l’inizio e la fine di ogni cosa che succede sotto il cielo blu-arancio della Grande Mela. Ormai non si fa neanche più finta di sviare l’argomento: il suo nome è il punching ball dei media di New York, che hanno tirato qualche cazzotto a Mills e Perry dopo la tremenda conferenza stampa a seguito della sconfitta con i Cavs - ordinata da Dolan per far mettere la faccia a loro, ovviamente - ma si sono rapidamente rimessi a tirare fuori i suoi scheletri dall’armadio. Howard Beck del Bleacher Report lo ha definito “il comune denominatore del disastro dei Knicks”, elencando tutte le sue malefatte: il clima di instabilità perenne che ha creato all’interno della franchigia; le assunzioni e le ri-assunzioni di gente che gli sa solo dire di sì come Mills; le volte che ha imposto le trade per Melo e per Andrea Bargnani; l’avventura di facciata con Phil Jackson (a cui non era mai stata data davvero carta bianca, a dispetto dei 12 milioni di contratto) e il modo in cui ha trattato una leggenda come Charles Oakley (e anche Spike Lee pare non essere figura più gradita all’MSG).
Ma anche i danni che ha fatto quando nella scorsa primavera ha pronosticato “un’estate di grande successo” sul mercato dei free agent, salvo poi costringere i suoi dirigenti a un comico tentativo di salvataggio in angolo con un comunicato stampa destinato alla Hall of Fame delle Assurdità di Zach Lowe. “Sebbene comprendiamo che alcuni tifosi dei Knicks possano essere delusi dalla notizia di stasera [le firme di Kevin Durant e Kyrie Irving coi Nets, ndr], continuiamo a essere ottimisti e fiduciosi nei nostri piani per ricostruire i Knicks e competere per il titolo in futuro, sia attraverso il Draft che free agent mirati”, c’era scritto. Perciò mentre a Brooklyn arrivavano KD e Kyrie, i Knicks in rapida successione annunciavano Randle (63 milioni in tre anni), Gibson (20 milioni in due anni) e Portis (31 milioni in due anni), bruciandosi praticamente tutto lo spazio salariale nel giro di poche ore su tre giocatori che giocano di fatto lo stesso ruolo.
Sono cose come questa - e come il comunicato di ringraziamento a Fizdale arrivato due giorni dopo l’annuncio del licenziamento! - a rendere i Knicks la barzelletta della NBA ormai da 20 anni, salvo sporadiche eccezioni (ma da sei comunque non fanno i playoff, e negli ultimi quattro anni il record è sempre andato in calando). Magari un colpo di fortuna può cambiare il loro destino, magari un altro salvatore della patria - questa volta si spera competente - può prendere in mano questo lussuosissimo yacht e portarlo nelle acque che il suo blasone e il suo costo dovrebbe solcare.
Magari sarà proprio Masai Ujiri, il sogno per niente nascosto di Dolan per il futuro della franchigia. Non c’è un vero motivo per cui dovrebbe lasciare una situazione perfetta come quella dei Toronto Raptors e andare in una impossibile come quella dei Knicks, se non gli interessi extra-basket legati al suo lavoro filantropico con Giants of Africa, come riportato da Howard Beck. Ma dovrebbe ricevere quella carta bianca che finora Dolan - a dispetto delle parole di facciata - non ha ancora concesso a nessuno in venti anni, oltre che a una quantità di soldi tali da renderlo di gran lunga il dirigente più pagato della lega. Detto questo, in tanti gli hanno già suggerito di non farlo anche nel caso in cui arrivasse l’offerta-che-non-si-può-rifiutare, e il fatto che non abbia accettato l’estensione di contratto messa sul tavolo dai Raptors lascia pensare che qualcosa sotto ci possa essere.
Sarebbe da pazzi, ma il Madison Square Garden non è un posto come tutti gli altri. Lo si percepisce quando si entra, quando il pubblico si scalda per una minima giocata, per l’eco che potrebbe avere riportare una franchigia decaduta ai fasti di talmente tanto tempo fa che neanche più ci si ricorda cosa si prova a vincere un titolo. Di fatto, è l’unica cosa che rimane ai Knicks: un’attrattiva che non si può spiegare. Sempre che non svanisca anche quella.