Dopo quasi metà stagione e una finale di NBA Cup, gli Oklahoma City Thunder sono primi a ovest, con ampio margine sulle inseguitrici. Sono per distacco la miglior difesa della lega, nonostante le assenze prolungate di un candidato Defensive Player of the Year, Chet Holmgren (out da due mesi), e di altre pedine fondamentali sullo scacchiere come Alex Caruso ed Isiah Hartenstein (15 partite saltate ciascuno). Hanno cresciuto in casa l’Allenatore dell’Anno in carica, coach Mark Daigneault, e un pluri-candidato (per ora) MVP come Shai Gilgeous-Alexander, allestendogli intorno un supporting cast giovane, profondo e talentuoso. E non è tutto, anzi: la lista di buoni motivi per essere invidiati da tutte le altre franchigie si allunga fin dove lasciate spazio a questi Thunder, ed è molto più ampia di quanto già non ci raccontino numeri, classifiche e record, per quanto brillanti.
L’eterna sensazione è che il meglio debba ancora venire nell’Oklahoma, e non potrebbe essere altrimenti per il 29esimo nucleo più anziano della lega, per un player development che merita tutte le attenzioni ricevute, e per una dirigenza che si sta godendo il lusso sfrenato di competere per il titolo, dopo essersi dedicato (full time) allo sviluppo del talento e all’accumulo di scelte - un triliardo circa - nei prossimi Draft. Non è un caso se il recente sondaggio condotto all’interno della lega da The Athletic, in cui si chiedeva quale sia il miglior front office dell’NBA, si è trasformato in un plebiscito per Sam Presti e soci; e non è un caso se i suoi Thunder sono sulla carta i favoritissimi per la Western Conference 2024/25, e quindi per tornare a quelle NBA Finals giocate una sola volta - escludendo i precedenti di Seattle - tredici anni fa, con Durant, Westbrook e Harden.
OKC si presenta allo storico testa a testa (numeri alla mano) di stasera contro i Cleveland Cavaliers con 5 sconfitte e 30 vittorie all’attivo, di cui le ultime 15 consecutive, la striscia più lunga di sempre per la franchigia. E fa impressione vederli lassù nonostante un calendario impegnativo e soprattutto l’infortunio del proprio secondo (o al massimo terzo) giocatore più importante, Chet Holmgren. Merito prima di tutto della difesa, che ha avuto numeri senza senso fin qui, appena 102.7 punti concessi ogni 100 possessi, per Cleaning the Glass; e merito prima di chiunque altro di Shai Gilgeous-Alexander, che sta veleggiando verso un altro All-NBA First Team e secondo Las Vegas ha addirittura superato Nikola Jokic nella corsa per l’MVP.
SHAI'S THE LIMIT
Ovviamente è la squadra di SGA. Il canadese è arrivato nel 2019 da Los Angeles - in cambio di Paul George e un cospicuo draft capital - e in cinque anni è diventato tutto quello che OKC si aspettava, e anche di più. Molto di più. Non è il realizzatore elettrizzante che manda in tilt il grande pubblico, magari - un po’ per motivi di gusto, e un po’ perché non vive di exploit (il suo career-high è di “soli” 45 punti, in sei stagioni e mezzo non arriva a quindici quarantelli totali). Insomma, Shai fa parlare tanto di sé, ma non tantissimo come meriterebbe la miglior guardia in assoluto sulle due metà campo.
Sul biglietto da visita però troviamo 31.3 punti e 6 assist a partita, più di 3 stocks (stoppate e rubate), e il settimo attacco dell’NBA sulle sue spalle. Il contesto è ben allenato e il contributo del supporting cast è considerevole, soprattutto quello di Jalen Williams (e Holmgren prima dell’infortunio), ma se i Thunder sono nell'orbita dei migliori sistemi offensivi della Western Conference (Nuggets, Grizzlies, Mavericks e Kings) è in larga misura grazie a Gilgeous-Alexander. I numeri lo confermano in modo fin troppo chiaro: 118.5 l’Offensive Rating con lui in campo e +15.1 il suo On/Off complessivo, sempre per Cleaning the Glass.
L’inarrestabile crescita del suo scoring è tutta lì da vedere, qualunque sia la prospettiva da cui la osservate. Prima di tutto, è un realizzatore tremendamente continuo, con minimi del motore particolarmente elevati: da ottobre 2022 ha mandato a referto 154 volte almeno 20 punti, su 164 partite totali; e questa regular season dovrebbe essere la terza conclusa oltre i 30 di media, un traguardo che nella storia è stato raggiunto soltanto da sedici giocatori prima di lui (reminder: ha 26 anni). Lo skillset, la taglia, le doti fisiche e atletiche, il controllo del corpo, l’intelligenza, la capacità di manipolare i difensori e attirare fischi arbitrali: sono tante le qualità che fanno di Gilgeous-Alexander un accoppiamento proibitivo per chiunque. Lo abbiamo visto in lungo e in largo nelle ultime stagioni, e ancora più nitidamente nel recente filotto di 15 vittorie di OKC, in cui viaggia a 33.1 punti e 5.6 assist di media a partita, con il 55% dal campo e il 94% in lunetta (con un volume di tiri liberi superiore ad ogni altra guardia).
Come ripete Mark Daigneault ad ogni occasione possibile, ogni giorno che passa Gilgeous-Alexander sembra migliorare in qualcosa. E con lui, la capacità di coinvolgere i compagni e l’efficienza realizzativa, su tre livelli. Al ferro (72%) e da fuori (36%), passando neanche a dirlo per il mid-range (51%), Shai sta elevando tutti i propri numeri anche in questa stagione, che chiuderà probabilmente tra i primissimi scorer in isolamento dell’NBA (dietro soltanto ad Harden e Tatum) e giocandosi un’altra volta lo scettro di scoring leader con Jokic e Antetokounmpo.
A tutto ciò - che è un carico già piuttosto ampio - bisogna aggiungere anche l’impatto nell‘altra metà campo, che è altrettanto positivo, senza voler esagerare. Le 3.5 stocks (2.4 rubate, 1.3 stoppate) ne sono una testimonianza impressionante, anche se non esaustiva, e l’highlight più spettacolare della sua stagione - forse di quella dei Thunder - ne è la degna copertina. Ovviamente il riferimento è alla sequenza di qualche giorno fa contro i Celtics (a proposito: 33-11-6-3-2 con il 62% di True Shooting), iniziata con la chasedown a Tatum e conclusa con il lob per Hartenstein. Una sintesi perfetta di un secondo tempo in cui la difesa dei Thunder ha letteralmente fatto a pezzi l’attacco di Joe Mazzulla, lanciando un segnale forte e chiaro all’intera lega.
Questo ci porta inevitabilmente all’altro grande tema in casa OKC, la difesa. Una metà campo in cui i numeri - ma anche chi ci gioca contro - raccontano che la squadra di coach Daigneault stia giocando, senza esagerare, uno sport diverso da tutti gli altri.
SKY'S THE LIMIT
Le presentazioni sono quasi superflue per una difesa che stacca di quasi 4 punti per 100 possessi la seconda in assoluto per efficienza, quella degli Houston Rockets; e per un sistema che si colloca al primo posto per palle perse forzate agli avversari (18.8) e deflections a partita (22.3, il dato più alto da quando la statistica viene rilevata), nonché per le percentuali concesse dal campo (42.6%) e dall’arco (32.7%, prima). Pur non avendo ancora testato le twin towers, Holmgren e Hartenstein insieme, i Thunder sono la seconda squadra nella lega per protezione del ferro (60.9%), ed è quasi ridicolo - ma doveroso - pensare che ci sia ancora un margine di crescita.
Su trentacinque uscite stagionali, OKC ha tenuto sotto la tripla cifra i propri sfidanti ben sedici volte. Per dare un’idea, l’anno scorso era la seconda miglior difesa della Western Conference - quando ancora aveva una debolezza: Josh Giddey (scambiato in estate per Caruso, che in uscita dalla panchina guida ora l’NBA per deflections) - e ci era riuscita “solo” dodici volte. La più recente è stata proprio contro i Celtics, che pure erano andati negli spogliatoi del Paycom Center con 65 punti segnati in 24 minuti, prima di vivere un incubo: 8/40 al tiro, una marea di palle perse, la miseria di 15 e 12 punti mandati a referto rispettivamente nel terzo e quarto periodo. Una prova di forza impressionante.
La rottura prolungata di Boston ha messo in luce, tra le altre cose, la profondità delle risorse a disposizione di Daigneault. Oklahoma City può fare affidamento infatti su un’organizzazione granitica, e prima ancora su un’interminabile batteria di difensori solidi e versatili, sulla palla e in aiuto, sui blocchi e nei closeout. Il tutto, a un livello che va dall’affidabile all’elitario: Lu Dort, Chet Holmgren, Alex Caruso, Isaiah Hartenstein, Jalen Williams, Shai Gilgeous-Alexander, Aaron Wiggins, Cason Wallace, Isaiah Joe - c’è quasi l’imbarazzo della scelta, ogni partita, e questo in ottica Playoffs può fare tutta la differenza del mondo.
«In qualsiasi momento abbiamo tre giocatori in campo che possono marcare il miglior attaccante degli avversari», diceva Caruso a inizio stagione. Lo sa bene l’ultimo malcapitato: Jaylen Brown, che dopo un primo tempo da 21 punti con il 66% dal campo, si è trovato di fronte un Dort in versione “Lu The Beast” (ma anche un muro chiamato I-Hart), che lo ha costretto a una ripresa da 0/7 al tiro e nessun viaggio in lunetta.
Dort è la guida e l’incarnazione di quella 48-minutes-mentality dei Thunder, o se preferite 82-games-mentality, di cui sentiamo spesso parlare in NBA. Nella gara contro Boston è stato decisivo anche offensivamente, con un’ultima frazione da 11 punti e tre pesanti triple a bersaglio, ma è nella metà campo difensiva che Dort fa davvero la differenza, tutte le sere. Una questione di fisicità, mobilità e tecnica difensiva, ma anche di un effort e un sacrificio del proprio corpo senza eguali, come apprezzato ad esempio (in più di un’occasione) nella semifinale dell’NBA Cup contro i Rockets.
Se Dort è il motore (e l’inesauribile serbatoio), a fare paura è l’intera macchina difensiva di OKC, in cui ben cinque giocatori scollinano l’unità di palle rubate a partita, e altri quattro si collocano non troppo distanti (tra 0.7 e 0.9). Guardando le partite dei Thunder potrebbero capitarvi davanti grafiche televisive con dati inquietanti del genere, oppure numeri sulla loro efficienza a metà campo, in cui concedono soltanto 85.6 punti per 100 possessi agli avversari. «Il nostro obiettivo primario non è rubare la palla» - spiega coach Daigneault, la cui parola d’ordine è “disruptive” - bensì «collassare sulla palla coi tempi giusti, mettere le squadre sotto pressione e far prendere loro decisioni difficili». Il risultato è sotto gli occhi di tutti, e anche l’attacco ne beneficia, potendo contare su tutte le transizioni (i Thunder sono quarti per frequenza in NBA) generate da palle perse e tiri sbagliati.
La domanda viene quasi spontanea: si può essere davvero meglio di così? Teoricamente, sì. OKC è già il team che concede meno nel pitturato (poco più di 40 punti a partita) dell’intera NBA, eppure il binomio Holmgren-Hartenstein deve ancora essere collaudato, e parliamo del sesto e settimo miglior protettore del ferro della passata stagione, stando alla Opponent Rim Field Goal Percentage. Il ritorno di Chet, previsto nelle prossime settimane, porterà nuove frecce nella faretra di coach Daigneault: la versatilità del prodotto di Gonzaga consentirà infatti di variare ulteriormente le strategie difensive sui blocchi avversari, rendendo ancora più malleabile la difesa. Vengono le vertigini solo a pensarci, ma è così.
Insomma, in casa Thunder ci sono tutti gli elementi - ci si potrebbe mettere molto altro: la crescita di Jalen Williams come secondo violino, l’accresciuta capacità della squadra di mettere in moto le proprie stelle in situazioni off ball e svariati altri fattori che sarebbe riduttivo liquidare in poche righe - per considerarsi legittimamente la squadra da battere della Western Conference. Con la possibilità, tra l’altro, di muoversi sul mercato prima della trade deadline di febbraio, per completare il puzzle con un ultimo pezzo. Gli asset non mancano, anzi, e flessibilità salariale neppure. Il resto potrebbe farlo la creatività di Sam Presti.
Intanto c’è la sfida di stasera contro i Cavs, un bello spettacolo per noi e un altro interessante banco di prova per i Thunder, alla seconda possibile preview delle NBA Finals in pochi giorni, dopo quella superata brillantemente contro i campioni in carica. Prendendo in prestito le parole di Shai Gilgeous-Alexander quando gli è stato chiesto di fissare l’asticella per il futuro di Jalen Williams, “sarebbe stupido porre un limite al cieling” di questi Oklahoma City Thunder. Una consapevolezza, questa, che fa spazio a tutta l’ambizione del mondo, ma che consente comunque di rimanere pazienti. Le pressioni e le aspettative su questo nucleo non mancano, certo, ma è un costo fisiologico quando ci si trova a rappresentare, insieme, il presente e il futuro dell’NBA.