Appassionati di NBA, abbiamo una buona ed una cattiva notizia da darvi. Iniziamo da quella buona: la lega ha anticipato l’inizio dal 31 luglio al 30 luglio. La cattiva è che non ci sono assolute certezze che la stagione si chiuderà nella bolla di Orlando. Anzi, appena il commissioner Adam Silver lo scorso venerdì ha approvato il percorso che dovrebbe portare ad incoronare una squadra a metà ottobre, sono cominciati a sorgere ulteriori problemi.
L’associazione dei giocatori NBA (la NBPA) e il suo presidente Chris Paul hanno votato favorevolmente la risoluzione con la quale accettavano il formato proposto dalla Board of Governors all’unanimità ma, secondo alcuni, non hanno ascoltato tutte le voci del coro, specialmente quelle più critiche verso la ripartenza. Voci che sono state invece intercettate da Kyrie Irving, un vicepresidente più improbabile di Selina Meyer, che però questa volta è stato in grado di rendere evidente una stortura all’interno del piano di Adam Silver.
Il giocatore dei Brooklyn Nets si è messo alla testa di una fronda che chiede di non tornare a giocare per non intromettersi nelle proteste del movimento Black Lives Matter e per continuare a scendere in piazza in sostegno alla comunità afroamericana, come fatto finora. Tra questi c’è chi pensa che il ritorno dello sport professionistico possa distogliere l’attenzione del paese dalla lotta contro la brutalità della polizia e il razzismo sistemico, e chi invece ritiene come il ritorno in campo dell’NBA possa garantire un’eccezionale piattaforma per sensibilizzare ulteriormente il paese e il mondo.
Kyrie l’antagonista
L’omicidio di George Floyd e le conseguenti manifestazioni nelle strade delle principali città statunitensi hanno coinvolto profondamente gli atleti NBA - una lega composta al 74% da atleti afroamericani - che si sono immediatamente schierati compatti in prima fila. Ora che però bisogna scegliere le modalità attraverso le quali portare avanti la protesta, si avvertono però le prime crepe.
Kyrie Irving venerdì sera ha organizzato una call su Zoom con oltre 80 giocatori NBA - tra cui Chris Paul, Kevin Durant, Carmelo Anthony e Dwight Howard - per confrontarsi sul da farsi alla luce di tutto quello che sta succedendo ora in America. Come riportato da Shams Charania di The Athletic, durante la call Irving avrebbe detto che lui non appoggia la scelta di andare ad Orlando e che sarebbe "disposto a rinunciare a tutto pur di ottenere un radicale cambiamento sociale". Kyrie ha cambiato idea nell’ultima settimana, spostandosi su posizioni più critiche dopo aver firmato come tutti gli altri rappresentanti la proposta di Adam Silver, assumendo il ruolo del bastian contrario.
Irving non è nuovo ad essere il villain della lega, dopo le due esperienze con Cleveland e Boston finite tra le polemiche e la nuova avventura con i Brooklyn Nets che ha già portato al licenziamento di Kenny Atkinson, considerato fino all’anno scorso un intoccabile. Inoltre la sua passione verso le teorie complottistiche, incorniciata dalle ormai celebri dichiarazioni sulla presunta piattezza del globo terrestre, lo rendono uno dei personaggi più folkloristici della lega.
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L'obiettivo di Kyrie è quello di formare una comunità collettiva che si muova insieme verso un futuro migliore.
In ogni caso Kyrie resterà fuori dalla bolla di Disney World, visto che la sua stagione si era già conclusa a marzo per un infortunio alla spalla, come quella del suo compagno Kevin Durant, che ha recentemente chiarito come non tornerà in campo neanche a fine luglio. I Nets, in questo momento al settimo posto della Eastern Conference, nel caso si ricominciasse davvero la stagione, dovrebbero fare a meno dei loro due migliori giocatori e avrebbero quindi poche possibilità di successo.
Kyrie sulla carta dovrebbe essere uno dei meno adatti a prendere scelte così importanti in momento critico per la NBA e l’America ma, come per tutti gli orologi rotti, le lancette segnano l’ora giusta due volte al giorno. Se anche l’azione sabotatrice di Irving non andrà a buon fine e se mai si sapranno quanto siano limpide le sue motivazioni, l’aver garantito una piattaforma di confronto per gli atleti è stato comunque utile vista la poca chiarezza sulla situazione corrente.
I giocatori finora sono stati poco coinvolti nel processo decisionale e vogliono farsi sentire. Secondo alcune indiscrezioni - tra queste anche quella offerta da Malcolm Brogdon - ci sarebbero tra i 40 e i 50 giocatori a non voler concludere la stagione ad Orlando tra gli oltre 300 in rappresentanza delle 22 squadre invitate. Un numero quindi non indifferente, che potrebbe avere un serio impatto sulla competitività della stagione.
Tra questi anche Dwight Howard, che attraverso un comunicato ha sottolineato come “il basket, e in generale l’intrattenimento, non è necessario in questo momento perché sarebbe solamente una distrazione”. Il lungo dei Lakers nonostante si dichiari dispiaciuto di non poter lottare per il suo primo titolo in carriera, crede che “questa sia una rara opportunità che come comunità dobbiamo sfruttare al meglio”.
Giocare per farsi ascoltare
Di altro avviso invece è Austin Rivers. Il figlio di Doc ha affidato ad Instagram le sue considerazioni sulle azioni di Irving, confermando ovviamente il suo pieno appoggio al movimento Black Lives Matter ma ritenendo le partite una piattaforma troppo forte per non sfruttarla in questo momento. Inoltre - come fa notare Rivers - salvare la stagione per molti motivi significa anche salvare gli stipendi dei giocatori, i quali per il 99% non hanno guadagnato quanto Irving o Howard in carriera.
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Su questo punto Ed Davis è stato ancor più duro ed ha accusato il playmaker dei Nets di poter parlare così liberamente perché in ogni caso non avrà mai problemi economici. Il lungo dei Jazz ha poi aggiunto che i soldi degli stipendi dei giocatori potrebbero essere investiti direttamente nelle comunità nere, per creare un impatto positivo reale, piuttosto che perderli a favore dei broadcaster e dei proprietari.
L’idea di usare i soldi incassati dal finale della stagione per aiutare il movimento BLM e le associazioni sul territorio è ovviamente condivisa da tutti i giocatori NBA. Carmelo Anthony ha proposto che ciascuno doni 25.000 dollari, una cifra che moltiplicata per gli oltre 300 giocatori nella bolla supererebbe i 7 milioni di dollari.
Ci sono già state anche delle proposte verso chi eventualmente destinare tali somme. LeBron James ha lanciato la scorsa settimana un’associazione non-profit “More Than a Vote”, che ha come scopo non solo far registrare il maggior numero di persone in vista delle elezioni di novembre, ma garantire anche la massima consapevolezza del sistema di voto alle minoranze.
Al suo fianco ci sono Draymond Green, Trae Young, Eric Bledsoe, Jalen Rose e molti altri tra atleti e figure dello spettacolo vicine all'agenzia Klutch Sports. LeBron è sempre stato un sostenitore del piano di concludere la stagione, anche perché è consapevole che non avrà molte altre possibilità di vincere un altro titolo. È però allo stesso tempo uno degli atleti più esposti riguardo le tematiche sociali e politiche, tanto da essere stato più volte attaccato pubblicamente dallo stesso Donald Trump.
Su Twitter Patrick Beverley scherzando (o forse no) ha scritto che la NBA ricomincerà perché lo ha detto LeBron, evidenziando il potere che la superstar dei Lakers esercita sulla lega. Ed è effettivamente così: la NBA è sempre stata una Player’s League, e gli avvenimenti degli ultimi mesi hanno solo rafforzato questo modello. La voce dei giocatori conta, specialmente quando saranno quest’ultimi a doversi chiudere dentro Disney World per tre mesi.
Adam Silver dovrà accettare le loro richieste pur di rimettere in moto l’associazione, comprese quelle riguardo una piattaforma per sostenere le manifestazioni e le proteste sotto l’hashtag #BLM. Non che la NBA si sia mai tirata indietro negli ultimi anni quando ha dovuto prendere una forte posizione politica.
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Quando nel 2014 le superstar NBA, da Kobe Bryant a LeBron James, decisero di scendere in campo per il riscaldamento indossando le t-shirt I Can’t Breathe per ricordare Eric Garner, soffocato a morte dalla polizia di New York, rompendo di fatto il protocollo sul vestiario della lega, Silver scelse di non prendere alcuna misura nei loro confronti. E per quanto la NBA abbia regole che vietano determinati gesti, come ad esempio l'inginocchiarsi durante l'inno prima di ogni partita, è molto improbabile che impedirà ai giocatori di esprimersi come riterranno necessario in quel di Orlando.
La paura di molti è che il ritorno delle partite distragga il pubblico dalle manifestazioni che quotidianamente evidenziano il razzismo sistemico e le violenze della polizia sulla comunità afroamericana. Purtroppo ogni movimento di protesta rischia di normalizzarsi dopo un certo periodo di tempo, perdendo l’abbrivio iniziale e le prime pagine dei giornali. Sicuramente il ritorno dello sport professionistico causerà una riduzione della visibilità, ma è una riduzione inevitabile.
La NBA però non sarà il panem et circenses di cui molti hanno timore, Orlando non sarà il Colosseo e i giocatori non saranno dei gladiatori. In questi ultimi mesi hanno dato dimostrazione della loro sensibilità sociale e hanno realizzato che possono essere attori del cambiamento. Dovranno essere ascoltati di più e meglio, e se questo succederà potremmo solo ringraziare Kyrie Irving.
Gli effetti economici
La conference call però è servita soprattutto a chiarire l’impatto che ogni scelta avrebbe sugli introiti e di conseguenza i guadagni dei giocatori in questa e nelle stagioni future.
Senza girarci troppo attorno, tornare a giocare ad Orlando sarebbe fondamentale per la sostenibilità della lega sia nel breve che nel lungo periodo. Abbiamo già discusso di quanti soldi verrebbero persi nel caso in cui la stagione finisse senza ulteriori partite, con effetti devastanti sull’ecosistema NBA. La scelta di Disney World, la cui proprietà è la stessa di ESPN e ABC, è stata quindi mirata per tamponare al massimo questa emorragia. Si parla di oltre 900 milioni di dollari che entrerebbero nelle casse delle squadre dal solo accordo con le televisioni nazionali, ai quali bisognerebbe sommare quelli delle varie squadre con le televisioni regionali.
Una somma che non avrebbe solo un impatto positivo sulla stagione corrente, ma fermerebbe un inevitabile effetto domino dalle ripercussioni devastanti, specialmente per i giocatori. I mancati introiti televisivi di questo finale di stagione, a cui vanno aggiunti quelli non incassati dai mancati biglietti delle varie arene, costringerebbero la lega a fare scelte eccezionali per mantenere in piedi il Salary Cap.
Se questo sostegno artificiale non dovesse funzionare, i proprietari NBA avrebbero la possibilità di schiacciare il pulsantone rosso e terminare unilateralmente il Collective Bargain Agreement (CBA) esercitando la clausola di forza maggiore. I giocatori perderebbero automaticamente 1.2 miliardi di dollari in salari, circa il 35% del totale annuale. A quel punto bisognerebbe ridiscutere poi un nuovo accordo, con i proprietari ad avere il coltello dalla parte del manico ed i giocatori a dover sfidare la lama.
Per questo C.J. McCollum, uno dei giocatori più informati e rispettati del circuito, ha affrontato la questione economica, avvertendo i propri colleghi come scegliere di non giocare (soluzione che lui preferirebbe) porterebbe inevitabilmente a un sensibile riduzione di tutti gli ingaggi attuali e futuri.
Per molti giocatori che in estate dovranno scegliere se estendere o firmare nuovi contratti la scelta non sarà così banale. Donovan Mitchell, che nella prossima stagione potrà esercitare la Qualifying Offer del suo contratto da rookie, ha espresso perplessità rispetto a ricominciare la stagione dopo un periodo di inattività così lungo per paura degli infortuni. Non è un caso quindi che molti giovani star stiano cercando un’assicurazione che li tuteli in caso di infortuni gravi in quel di Orlando.
E il rischio per la salute fisica, come ben sappiamo, non si limita solamente al campo di gioco.
La bolla di Disney World
Disney World è stata scelta come sede deputata per molti motivi, tra cui lo stretto rapporto tra Disney e i broadcaster che hanno i diritti delle partite, le strutture già predisposte e la possibilità di creare una vera bolla nel gigantesco parco divertimenti di Orlando. Altrettanto importante però è stata l’azione di lobbying che il Governatore della Florida, Ron DeSantis, ha fatto sulle principali associazioni sportive affinché scegliessero il suo stato per tornare a giocare.
Il prossimo mese sempre in Florida dovrebbe scendere in campo la MLB, nonostante anche nella Major League ci siano forti proteste sulle modalità scelte per i pagamenti e forse si arriverà alla sospensione della stagione. La WWE e la MMA hanno già effettuato eventi durante il lockdown e anche la WNBA giocherà 22 partite a partire dalla fine di luglio alla IMG Academy.
Il tutto mentre la Florida fa segnare l’aumento di casi più netto della Nazione - specialmente nella Contea di Orange County, dove ha sede Disney World. Domenica sono stati registrati 2.500 positivi, il numero giornaliero più alto dall’inizio della pandemia, e lo stato viaggia spedito verso i 3.000 morti per COVID-19.
Numeri che però non fermano la politica estremamente libertaria di DeSantis, convinto di poter sfruttare lo sport professionistico come volano per far ripartire l’economia del suo stato. La Florida continua a riaprire tutto, dalle spiagge ai centri commerciali, anche a costo di contraffare alcuni dati come sembra da alcune ultime inchieste, e si prepara ad aspettare gli atleti come fossero pensionati.
Se però l’escalation di contagi dovesse continuare come gli ultimi grafici lasciano supporre, anche Silver potrebbe fare un passo indietro e riconsiderare l’idea di bolla. Qualche giorno fa è bastato un tweet di Tom Haberstroh di NBC Sports che ipotizzava come il personale Disney sarebbe potuto liberamente entrare ed uscire senza fermarsi per la quarantena per moltiplicare ulteriormente la confusione tra i giocatori.
Anche perché mentre scriviamo non sono stati ancora decisi i termini dell’accordo tra NBPA e NBA, e tra NBA e Disney e anche le linee guida cambiano velocemente. I giocatori hanno già fatto capire di non gradire un continuo controllo sulle proprie vite oltre l’attività sportiva e vorrebbero avere i propri cari durante questi mesi di isolamento. Questo significherebbe allargare di molto il perimetro della bolla, con potenziali ripercussioni sulla tenuta di quest’ultima. Basta infatti un caso per far saltare il banco e far scoppiare la presunta immunità della NBA al mondo esterno.
https://twitter.com/ShamsCharania/status/1271846203609792514
Recentemente Anthony Fauci - l’immunologo della Casa Bianca diventato personaggio pubblico in questi ultimi mesi - si è espresso favorevolmente rispetto al piano della NBA, dicendo come abbia messo al primo posto la salute degli atleti. Silver ha poco più di un mese per cercare di sistemare tutte le tessere del puzzle al loro posto, sperando che non arrivi nessuno a ribaltare il tavolo.
Certo il clima anti-Orlando che si respira negli ultimi giorni non aiuta a calmare gli animi e non sarà facile coniugare impegno politico, esigenze economiche e desiderio competitivo in un momento storico in cui non sembra esistere una risposta giusta.