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C’è davvero l’imbarazzo della scelta, se per inquadrare il momento di Paul George si vuole partire dai numeri. Il più immediato è l'età: 34 anni che tra un paio di mesi diventeranno 35, e che, a guardare il campo, sembra vadano misurati con parametri più umani rispetto a quelli introdotti da LeBron James, Kevin Durant e Steph Curry. Lo suggeriscono prima di tutto i suoi tabellini, che dicono 16.1 punti a partita (si scende addirittura a 10.2 nelle cinque prima dell'All-Star break) con 42.5% dal campo e il 36.3% da tre punti, il tutto su appena 13.9 tentativi a gara. Dati vistosamente al ribasso per le abitudini di George.
Poi c’è l’utilizzo che ne fanno i Philadelphia 76ers. Non in senso “avanzato” (il 24% di Usage, comunque, è il minimo da oltre dieci anni), ma nell’accezione comune del termine, cioè i 32 minuti medi di impiego. Che sono un altro career-low (escluse le prime due stagioni da professionista), e una miseria per gli standard di Nick Nurse con i propri titolari. Soprattutto sono l’ombra dell’elefante nella stanza: l’integrità fisica. Un tasto dolente sia per George, che è all’ennesima annata part-time del genere, avendo scollinato le 60 presenze in regular season solo una volta dal 2019, sia per i Sixers, che dall’inizio di “The Process” si sono regolarmente schiantati contro l’affolamento dell’injury report (in breve: lo status di Joel Embiid), prima che per mano delle squadre rivali.
Le 19 partite saltate da George finora, su 54 totali, raccontano solo in parte la sua scarsa disponibilità. Andrebbero aggiunte le volte in cui era integro solo nominalmente, tra un problema fisico e l’altro (alla mano, all‘inguine, alla caviglia, al ginocchio, al polpaccio); e anche il tempo perso per allenarsi con i nuovi compagni, di cui in effetti sembra notarsi la mancanza.
Sono pochi mesi, ma sembra passato un secolo: Woj non è più la voce degli scambi NBA, e Phila non è più una squadra da titolo.
Di sicuro a oggi l’ex Clippers non si è rivelato quel “pezzo mancante” di cui si era parlato in estate. La terza stella che avrebbe trascinato Embiid e Maxey a contendere per il titolo, come si auguravano - e in qualche modo sperano ancora - Daryl Morey e soci. Anzi, prendendo in mano la classifica della Eastern Conference, in cui i 76ers sono undicesimi, e dando un’occhiata ai loro libri paga, in cui George ha intasato gli spazi con un contratto quadriennale da 212 milioni di dollari, si fa presto a puntare il dito contro la sua firma nella scorsa free agency. E probabilmente non si sbaglia neanche, perché da qui al 2028 c’è davvero tanto basket da giocare; e perché al di là delle tante attenuanti degli ultimi mesi (ci torniamo), buona parte dei problemi sono figli del deterioramento fisico. E quello tende a non migliorare nel tempo.
SOTTOFONDO
C’è chi al fardello di tutti questi numeri ha sentito di dover aggiungere un confronto tra il numero di clip postate su YouTube da “Podcast P” negli ultimi tre mesi (240, o qualcosa del genere) e i suoi canestri segnati in stagione (207). E ai detrattori si è unito di recente anche l’ex giocatore e opinionista Kendrick Perkins (reminder: non prendetelo mai troppo sul serio), che ha detto di «non essere sicuro che Paul George voglia ancora giocare a basket».
Fondata o meno che sia l’affermazione, Perkins ha dato voce a un’idea piuttosto popolare - fin troppo - nel mondo NBA. E non è niente di nuovo, anzi: il pubblico è particolarmente agguerrito nei suoi confronti, da sempre. Dargli del “washed” (non letterale: bollito), o del “soft” (perdente), è un hobby praticato da una costa all’altra degli Stati Uniti, diffuso anche sulla nostra sponda dell’oceano; ed è difficile da spiegare, per un atleta con una storia di infortuni tanto drammatica. Potrà suonare cinico come discorso, ma di solito una sfortuna simile è sufficiente - pensiamo a Derrick Rose o Gordon Hayward, ad esempio - per suscitare un minimo di empatia.
A Paul George, invece, viene perdonato poco. Anche quando gioca sopra il dolore per settimane, facendo infiltrazioni prima di ogni partita (in regular season!). La pazienza è perennemente in riserva, dal pubblico gli viene rimproverato un po’ di tutto: il calo fisico, la fragilità (anche mentale, se ricordate i tempi della bubble), gli scarsi risultati nei playoff, una Instagram stories in vacanza durante l’All-Star break, l’avventura nel podcasting, ogni dichiarazione invecchiata male (come il soprannome Playoff P); fino alle scelte di unirsi ai Sixers di Embiid e Morey, e in passato ai Clippers di Kawhi Leonard - che per molti forse rappresentano l’inconfessabile origine (transitiva) del sentimento.
Non ultimo, è stato strano - per George in primis - sentire i “boo” con cui i suoi ex tifosi l’hanno accolto a Los Angeles, a inizio stagione. Una scena peraltro già vista a Indianapolis, qualche anno fa. Eppure, non ci sono state grandi promesse non mantenute o separazioni turbolente - anzi, tra le tante superstar che hanno ricattato i front office negli ultimi anni, a George si può contestare poco in tal senso.
In ogni caso, brusio di fondo a parte, quanto c’è di veritiero nella valanga di critiche piovute ultimamente su Paul George? E cosa si cela, ammesso che ci sia un mistero da svelare, dietro al suo deludente impatto a Philadelphia? È davvero invecchiato di cinque anni, nel giro di qualche mese, come sembra?
PROBLEMI
Scavando dentro la sua stagione, è evidente che l’accumulo di difficoltà individuali e collettive abbia reso il suo inserimento molto più complicato del previsto. Il primo punto da considerare, certo, sono i guai fisici. I due infortuni al ginocchio rimediati in preseason hanno minato la sua esplosività, mentre la lesione tendinea al mignolo della mano sinistra, accusata a fine gennaio, ne ha compromesso le doti da trattatore di palla, fiducia nei propri mezzi inclusa. Ha raccontato lui stesso, nei giorni scorsi, quanto sia «difficile giocare con il dolore che va e viene, che dà fastidio in tante piccole cose: ricevere palla, palleggiare, andare a sinistra, tirare. È frustrante, ma la situazione è questa. Spero col tempo di poter almeno indossare un tutore meno ingombrante, ma non avverrà presto».
Le condizioni in cui l’abbiamo visto negli ultimi mesi hanno ingigantito il sospetto che l’All-Star visto negli ultimi anni, avvicinandoci alle trentacinque candeline, sia ormai un ricordo. E di certo non lo hanno aiutato i problemi cronici di Embiid, che anche in questa stagione stanno tenendo in ostaggio l’organizzazione. Ed è qui che emerge il secondo grande tema: la mancanza di continuità.
I big three che dovrebbe trascinare Philadelphia hanno avuto ben poco tempo per il collaudo. In tutto, appena tredici partite con Embiid, George e Maxey tutti a disposizione di Nick Nurse, che nel frattempo ha già usato 33 starting lineups diverse in stagione (sì, trentatre). Nonostante il record positivo in quelle rare occasioni (7-6), è chiaro che non si tratti di un serbatoio abbastanza capiente per depositarci i necessari esperimenti, tecnici e tattici (rotazioni, set offensivi, situazioni di gioco); e quindi, per favorire la conoscenza reciproca e trovare un accenno di chimica sul campo. “Ci serve tempo insieme”, ha confermato George in una recente intervista, “ci servono occasioni per capire come vediamo e leggiamo il gioco, per abituarci”.
Stando a Cleaning the Glass, quando i tre hanno condiviso il campo - pur in una porzione di tempo troppo limitata per trarre solide conclusioni - l’impatto di George è stato ondivago. I numeri sottolineano che il duo con Maxey ha più o meno funzionato (115.7 punti per 100 possessi, con una discreta efficienza al tiro), ma che la coesistenza con Embiid sia ancora da metabolizzare. Per ammissione dello stesso George, si è rivelata «più sfidante del previsto, nonostante la sua presenza generi enormi attenzioni per le difese avversarie». Nei quintetti con i due insieme, la produttività offensiva dei 76ers cala ad un pessimo 104.1 di offensive rating.
La presenza di George sul parquet, in assoluto, peggiora l’attacco dei Sixers (on/off) di quasi 5 punti ogni 100 possessi. Chiaramente è il dato più basso mai fatto registrare dal californiano, ed è un sintomo delle difficoltà mostrate finora dalla squadra nel tentativo di coinvolgere (e valorizzare) George offensivamente. Non per caso Nurse ha evidenziato spesso questo aspetto nelle conferenze post-partita, ma il suo margine di manovra è quasi inesistente senza un po’ di tempo, banalmente, per lavorare sul core della squadra.
Nel sistema macchinoso dei 76ers, incentrato su isolamenti, tocchi in post e giochi statici, sembra mancare la linfa vitale per innescare le doti di George lontano dalla palla, che non possono limitarsi alla dimensione di spot-up. Dal canto suo, George ha provato a sacrificarsi, limitando la propria dieta di tiro (complice la crisi nella creazione per sé stesso), e cercando - in assenza di un playmaker secondario all’altezza - di agire da facilitatore. Alla fine, però, è andato fuori giri. Lo testimoniano le percentuali al tiro, ma anche i prolungati momenti di estraneità, l’aggressività a corrente alternata, i rari viaggi in lunetta.
A complicare ulteriormente la situazione, c’è la composizione del roster di Phila, pieno di veterani acciaccati, con un supporting cast discontinuo e carente di profondità nel reparto lunghi. E così, in assenza di Embiid (una condizione che è difficile chiamare emergenza), George si è trovato a dover giocare anche da centro, in svariate occasioni. Uno scenario per cui non ha nascosto il malcontento, e che forse ha intercettato uno stato d’animo più profondo.
SOSPETTI
I tanti problemi menzionati finora hanno sicuramente inciso sul rendimento e sullo stato d’animo di Paul George, ma ciò che preoccupa, da fuori, è l'impressione che qualcosa si sia rotto nel suo rapporto con il gioco. Non è necessario mettere in dubbio la voglia o la professionalità, come hanno fatto Perkins e chi lo definisce “un podcaster a tempo pieno”; un po’ tutti, però, abbiamo raccolto strane sensazioni dal suo linguaggio del corpo, in campo e fuori.
A volte è difficile riconoscere il Paul George che abbiamo imparato ad apprezzare negli anni, tanto lo vediamo passivo, sconnesso. Durante l’ultima partita contro i Nets, ad esempio, era ragionevole aspettarsi che provasse a caricarsi la squadra sulle spalle, dopo un filotto di sconfitte e in assenza di Maxey ed Embiid. Invece ha chiuso la sua serata con 2 punti e 1/7 dal campo, lasciando (incustodite) le redini dell’attacco per tutta gara, quarto periodo incluso.
Ci si può chiedere se oltre a un po’ di brillantezza, George abbia perso anche un po’ di quel fuoco sacro che serve per andare oltre alle difficoltà. Lo potremmo quasi concedere a un giocatore che ha sempre dovuto convivere con problemi fisici, roster disfunzionali, pressioni e critiche di ogni genere; è che è passato da una logorante dipendenza dalla salute di Kawhi Leonard, a una situazione per certi versi analoga con Joel Embiid (scelta sua, direte voi).
Di sicuro questi Sixers non lo stanno aiutando, e magari stiamo andando troppo in là con la dietrologia. La frustrazione di George e la sua remissività potrebbero essere l’effetto delle sue difficoltà sul parquet, più che la causa; e magari gli infortuni gli daranno finalmente tregua (più facile a dirsi che a farsi), e con un po’ di pazienza ci restituiranno un Paul George simile a quello delle ultime stagioni.
Quel che sappiamo è che il proseguo della storia, comunque vadano i prossimi due mesi (tre?), dovrebbe essere a Philadelphia. Nonostante qualche indiscrezione a ridosso della trade deadline, oggi nessun general manager offrirebbe alcunché per farsi carico del contrattone di Paul George (Bill Simmons l’ha definito “il peggior asset in NBA”), che è distante ancora tre anni dalla scadenza. E lato Sixers, il costo per liberarsene dovrebbe essere un forte deterrente, soprattutto se la stagione di PG non si dovesse allontanare dai binari degli ultimi tempi.