Giudicare una stagione NBA è faccenda complessa. Le variabili di cui tenere conto sono tantissime: aspettative, infortuni, incroci con avversari più o meno pericolosi, età media della squadra, prestazioni dei singoli, chimica di spogliatoio e, buon ultima, l’immancabile dose di fortuna o sfortuna che condiziona i risultati sul campo. Incorniciate il tutto nella recente pandemia, con tutte le complicazioni connesse, e avrete un rebus di difficile soluzione.
Nondimeno, soprattutto per chi ha da tempo attraversato, senza superarlo, lo striscione finale della bizzarra annata 2019-20, è giunto il momento di tirare le somme. E lo striscione finale i New Orleans Pelicans lo hanno incontrato nella bolla di Orlando, esperienza per loro tutt’altro che memorabile e ultimo atto di dodici mesi trascorsi tra alti e bassi e segnali contrastanti. Un percorso accidentato che ha lasciato aperte molte questioni circa il presente e il futuro della squadra e dell’intera franchigia. La prima delle quali era su chi avrebbe sostituito Alvin Gentry sulla panchina della squadra, dopo il licenziamento al termine della bolla.
The Notorious S.V.G.
Alla fine, anche a sorpresa, la scelta è caduta su Stan Van Gundy, ex allenatore di Miami, Orlando e Detroit e ora apprezzato commentatore televisivo. Avrà l’arduo compito di costruire sui giovani talenti che New Orleans ha ammassato negli ultimi anni, a partire da Zion Williamson e Brandon Ingram. Si tratta di un eccellente punto di partenza, s’intende, e sono molte le franchigie che farebbero carte false per costruire un gruppo pieno di talento, ma il percorso che porta alla piena realizzazione di un potenziale così alto è meno semplice di quanto sembri. Le esperienze di OKC prima, e quelle di Philadelphia poi, insegnano che raggiungere la coesione ottimale tra talenti così atipici, ieri Westbrook e Durant, oggi Embiid e Simmons, domani Zion, Lonzo e Ingram, può rivelarsi un’impresa tortuosa.
Nelle valutazioni di dirigenza e proprietà, Stan Van Gundy è l’uomo giusto per guidare i Pelicans lungo questo sentiero tanto intrigante quanto intricato. Riciclatosi, peraltro egregiamente, come commentatore tecnico e come Twitter-star dalla spiccata vis polemica, il maggiore dei fratelli Van Gundy, da autentico invasato del gioco, non ha saputo resistere al richiamo della panchina. Considerato il suo curriculum SVG arriva in Louisiana con una missione chiara: rendere da subito competitiva la squadra. Noto come specialista della fase difensiva, è probabile che Van Gundy partirà innanzitutto dai due difetti macroscopici evidenziati durante la scorsa stagione: la difesa in transizione (4° peggior media per punti a possesso concessi agli avversari in contropiede con 1.16) e nel pitturato (3° peggior media con 52.5 punti concessi a partita, meglio solo di Hawks e Cavs). Può sembrare un punto di partenza banale, ma è da aspetti come quelli, dove l’attenzione ai dettagli e l’applicazione mentale fanno al differenza, che passa il processo che dovrebbe portare Zion e compagni a smettere di battersi da soli.
Quel "form a fuckin’ wall" brevettato a Detroit potrebbe diventare un mantra da imporre ai giovani Pelicans.
Nella metà campo avversaria, invece, la priorità sarà senza dubbio rappresentata dalle palle perse, dato che ha fortemente limitato l’efficienza offensiva di squadra la scorsa stagione. La quantità e la qualità dei ball-handler a disposizione, in questo senso, lascia intravedere margini di crescita, che dovrà andare giocoforza di pari passo con la ricerca di spaziature migliori. E proprio da questo punto di vista la presenza di Van Gundy potrebbe fare la differenza. Se le sue squadre hanno mostrato il comune denominatore della solidità difensiva, è altrettanto vero che durante l’avventura a Orlando SVG ha contribuito a ridisegnare i paradigmi attraverso cui funzionano praticamente tutti gli attacchi della NBA contemporanea.
Trovare i giusti equilibri anche in attacco sarà prioritario, partendo comunque dal presupposto che su entrambi i lati del campo, a prescindere dalle idee e dai concetti che Van Gundy deciderà di trasmettere ai suoi, molta della fortuna dei Pelicans sarà nelle mani di Zion Williamson. Prima di tutto, quindi, occorrerà selezionare con cura il gruppo di talenti da mettere attorno alla prima scelta assoluta dello scorso Draft. Le scelte da effettuare sul mercato non saranno molto semplici e saranno scelte in merito alle quali Van Gundy, scottato dagli esiti nefasti del doppio ruolo coach/GM ricoperto a Detroit, si limiterà a fornire indicazioni e pareri. La palla, per quanto riguarda la costruzione del roster, passa quindi dietro la scrivania.
Una trama mai così coerente
Il roster messo a disposizione di Gentry e assemblato dal nuovo front office guidato da David Griffin era figlio di due eventi, uno potenzialmente catastrofico e uno potenzialmente salvifico: l’addio forzato a Anthony Davis e la vittoria alla lottery. I due eventi sono inscindibili uno dall’altro e hanno finito per consegnare al coaching staff una squadra con molte novità e un mix intrigante di giovani, giovanissimi e veterani. Dalla trade con i Lakers che ha chiuso l’era-Davis e dalle firme di Favors, Melli e Redick i Pelicans sono usciti con un parco giocatori completamente stravolto rispetto alla stagione precedente, peraltro poco meno che disastrosa.
Con il solo Jrue Holiday in compagnia di una manciata di role player confermati più per obblighi contrattuali che per effettiva necessità, Gentry si è visto costretto a ripartire da zero. In attesa di Zion e con un Favors fortemente condizionato da questioni personali, la squadra ha iniziato con un poco incoraggiante record di 11 vinte e 23 perse. Una falsa partenza che, considerata l’estrema competitività della Western Conference, poneva i Pelicans fuori dalla zona playoff. A inizio 2020, lo strabiliante ingresso in NBA di Williamson, pur limitato da restrizioni a livello di minutaggio, la crescita di Ball e soprattutto di Ingram sembrava aver rinvigorito la squadra. Il parziale di 17 vittorie e 13 sconfitte prima della sospensione forzata dall’epidemia di COVID-19 aveva quindi concesso a New Orleans qualche residua chance di agganciare l’ottavo posto valido per un rendez-vous proprio con l’ex-beniamino di casa Anthony Davis.
Al ritorno in campo dopo la lunga pausa, però, la squadra è sembrata aver perso quella vivacità che aveva fatto ben sperare i tifosi e anche l’NBA stessa, che si sarebbe volentieri giocata la carta Zion ai playoff contro LeBron James in un’annata così tormentata a livello di ascolti anche per via dell'infortunio di Williamson. Il magro bottino di 2-6 strappato nelle otto gare giocate a Disney World ha mandato in archivio questa versione da 30 vittorie e 42 sconfitte dei Pelicans 2019-20. I confronti con l’annata precedente, chiusa con un record di 33 vittorie e 49 sconfitte, hanno poco senso, così come forse non ne hanno molto le statistiche complessive di squadra. Qualche spunto, tuttavia, può aiutare a individuare un’inclinazione generale, anche se la fotografia della stagione rimane sfocata a causa dei tanti infortuni e del carattere fortemente sperimentale, per usare un eufemismo, dell’impostazione tattica.
Una stagione con tanti lampi ma nessuna continuità.
Quanto alle statistiche, i Pelicans si sono piazzati nelle parti nobili della classifica quanto a punti segnati (5°), triple tentate (7°) e numero di possessi (4°), a riprova di un approccio molto in linea con la pallacanestro contemporanea. Ciò nondimeno, l'efficienza offensiva (110.5 e 15° posto complessivo) è stata limitata dalle tante, tantissime palle perse (15.4 a partita, peggio hanno fatto solo i Cavs). Non solo: i dati relativi agli assist (26.8 di media, 3° miglior dato della lega) e alla percentuale di canestri assistiti (63%, 7° miglior dato), se da una parte confermano la bontà della manovra offensiva, dall’altra sottolineano la carenza di giocatori in grado di crearsi un tiro da soli, specialità più che mai necessaria per ambire in alto e, ad oggi, attribuibile ai soli Ingram e Holiday.
Peggio, molto peggio è andata nell’altra metà campo, dove a dispetto della presenza di diversi buoni difensori il rendimento è risultato del tutto insufficiente (21° rating difensivo complessivo). Questo nonostante gli anelli deboli a roster fossero tutto sommato pochi e l’assetto complessivo di squadra sembrasse in qualche modo rispondere adeguatamente al requisito di flessibilità ormai così cruciale in una NBA che vive di continui cambi e adattamenti. Non solo: tra il coaching staff la scorsa estate era stato ingaggiato Jeff Bzedlik, specialista difensivo molto stimato dagli addetti ai lavori di tutta la lega. È quindi plausibile dedurre che uno dei motivi che hanno portato al licenziamento di Gentry sia stata l’incapacità di costruire una fase difensiva all’altezza delle potenzialità dei singoli interpreti, limite che ha fortemente segnato il destino di Zion e soci nella stagione appena chiusa, in cui a tratti sono sembrati svogliati e del tutto disinteressati a difendere di squadra.
Una stagione in cui, a prescindere dall’eventuale approdo ai playoff, i Pelicans si aspettavano di maturare qualche certezza. Di certezze non ne sono arrivate molte, anche a causa di forza maggiore, ma un pilastro pare già inamovibile: il futuro della squadra passa dal trio Ball-Ingram-Williamson.
I Big Three della Big Easy
Tra le domande che David Griffin e il resto del front office dei Pelicans si sono fatti durante le scorse settimane, al primo posto svetta probabilmente quella relativa alle potenzialità del trio di giovani stelle. Anche in questo caso, purtroppo per Griffin e soci, i dati concreti su cui ragionare sono alquanto scarsi e suscettibili a diverse interpretazioni. Il campione in esame è davvero troppo esiguo per condurre a conclusioni rilevanti: i tre hanno giocato insieme 22 partite (record 10-12) per un totale di 360 minuti complessivi. Il plus/minus (+4.1) e il net rating (+11.3) accumulati farebbero intravedere margini più che interessanti. Eppure, forse, il dato più intrigante è quello che riguarda il numero di possessi: i tre insieme hanno registrato una media di 106.41, ben più alta rispetto a quella già notevole di squadra (103.89). Semplificando, si potrebbe dire che i Pelicans di questa stagione correvano parecchio, ma non a sufficienza per star dietro a Zion, Lonzo e Ingram. Come detto, si tratta comunque di dati poco significativi perché riferibili a una porzione di regular season troppo ridotta. Può invece avere più senso analizzare singolarmente la stagione vissuta dai tre, premessa necessaria per immaginare gli sviluppi futuri della loro coabitazione.
La valutazione della stagione di Zion Williamson è forse la più semplice e insieme la più ostica, perché le partite giocate sono state poche ma i lampi di classe si sono rivelati abbaglianti. L’impatto della sua gara di debutto, amplificato dall’attesa mai così spasmodica per un rookie dai tempi di LeBron James, ha fatto cadere parecchie mascelle.
Si sono viste gare d’esordio peggiori rispetto a quella di Zion contro gli Spurs.
Da lì in poi, anche se utilizzato con cautela (27.8 minuti di media), Zion ha giocato un totale di 24 partite (11-13 il record di squadra con lui in campo) raccogliendo cifre notevolissime (22.5 punti e 6.3 rimbalzi tirando con il 58.3% dal campo). Anche per l’ex Duke va tenuto però conto del campione numerico alquanto risicato e le statistiche più interessanti sono forse quelle relative al numero di possessi utilizzati (29.1%, il più alto tra i Pelicans) e a una selezione di tiro manifesto della consapevolezza dei propri mezzi e di come sfruttarli al meglio (Williamson si è preso il 93% delle proprie conclusioni tra il pitturato e la restricted area, lasciando solo il 3% al mid range e alle triple).
Offensivamente, insomma, è già piuttosto chiaro che tipo di giocatore sia Williamson, peraltro in possesso anche di doti di playmaking più che discrete. Al contrario, in difesa l’impressione è che occorra disciplinare istinti che già così, in assenza di indicazioni ben definite, gli hanno concesso di portare a casa un defensive rating nettamente migliore rispetto a quello della squadra (106.9 contro 111.8). Molto meno chiara è risultata la questione inerente l’abbinamento con il compagno di reparto, dove Melli e Favors si sono alternati con più continuità rispetto all’altro esordiente Jaxson Hayes ma senza dare l’impressione di rappresentare il fit ideale per Zion. Poco sperimentata, infine, l’opzione che vede il rookie da centro in quintetti piccoli, strutturazione molto suggestiva ma che al momento presenta parecchie falle nel bilanciamento su entrambi i lati del campo. L’ultima, ineludibile eredità della stagione d’esordio di Williamson sta nella fragilità fisica, unica vera incognita verso un futuro da potenziale MVP.
Brandon Ingram di gare ne ha giocate 62, risultando per distacco il migliore tra i suoi (23.8 punti, 6.1 rimbalzi e 4.2 rimbalzi di media), diventando finalmente un All-Star e vincendo il premio di giocatore più migliorato. Secondo solo a Zion per Usage (27.5%), Ingram è stato il go-to guy durante tutta la stagione: il 51.5% dei canestri segnati sono stati segnati senza assist, a riprova della sua abilità nel mettersi in proprio per aggiungere punti a tabellone. Per diventare davvero una stella a tutti gli effetti, Ingram dovrà migliorare difensivamente, in particolare nella tenuta contro avversari di taglia e peso superiori. In questo senso la costituzione fisica piuttosto esile non aiuta, perché volente o nolente gli toccherà incrociare i vari Leonard, Antetokounmpo e simili. A meno che, nel futuro assetto difensivo di New Orleans, a occuparsi di quel tipo di giocatori non sia deputato proprio Williamson, ipotesi non del tutto da scartare ma che complicherebbe ulteriormente gli equilibri di squadra.
In assenza di Kevin Durant, la scorsa stagione, è toccato accontentarsi della versione light di KD.
Anche perché il terzo pilastro su cui poggia il destino dei Pelicans è un altro giocatore dalle caratteristiche alquanto peculiari. In barba al ruolo - ammesso che parlare di ruoli abbia ancora senso nella pallacanestro contemporanea - Lonzo Ball si è dimostrato più adatto a giocare lontano dalla palla rispetto ai due compagni già citati (16.1% il suo Usage Rate). Dotato di una visione di gioco immaginifica, Ball ha adattato il suo stile alle esigenze della squadra dimostrando una maturità superiore alla sua età e all’esperienza relativamente breve in NBA. Difensore solido, fisicamente in grado di tenere sui cambi e di leggere le linee di passaggio avversarie (1.4 palle rubate di media), Ball ha prima di tutto fatto registrare un netto miglioramento al tiro dalla lunga distanza (37.5% partendo dal 30.5% della sua stagione da rookie due anni fa). E se appare riduttivo attribuire all’affidabilità del tiro il destino della sua carriera futura, non c’è dubbio che questa rimanga elemento dirimente, a maggior ragione considerando l’abbinamento con i due compagni appena menzionati. Ball in questa stagione ha ridisegnato la sua mappa di tiro; la sfida ora sta nel continuare con la stessa efficacia anche in vista di spazi offensivi che, con il rientro a pieno regime di Williamson e il ruolo ormai acclarato di prima opzione di Ingram, si dovrà ritagliare con perizia.
Meccanica di tiro, tempo di rilascio della palla, posizione dei piedi: Lonzo ha lavorato sodo durante tutta l’estate 2019, anche se le sue prestazioni in quella del 2020 sono state deludenti.
Il modello da seguire, per dare un’idea, potrebbe essere quello del Jason Kidd della seconda parte di carriera, altro playmaker visionario che ha saputo reinventarsi come tiratore affidabile. Ironia della sorte, ad accompagnare Ball lungo questa sfida avrebbe potuto essere lo stesso Kidd, che a lungo è stato tra i candidati papabili a guidare dei Pelicans. Griffin e il front office di New Orleans, però, hanno deciso di affidare il destino della squadra, e forse anche quello della franchigia, in altre mani.
Errori da non ripetere
I Pelicans, che dovrebbero aver preso spunto dalla rivedibile gestione di un talento generazionale come quello di Davis, si trovano di fronte alla questione che ha attanagliato, tra gli altri, i Thunder e Sixers di cui sopra: costruire il miglior supporting cast possibile oppure quello più adatto alle caratteristiche dei talenti già a roster? Andare a caccia di altre stelle che alzino ulteriormente il livello oppure puntare su role player in grado di amalgamarsi con quelli che sono i giocatori franchigia designati?
A dover fornire una risposta sarà David Griffin, dirigente che può contare su una lunga esperienza e, a quanto è parso di capire, anche su un certo riguardo da parte della Dea bendata. Arrivato a New Orleans a metà aprile e subito incaricato di trovare una soluzione alla grana Davis, l’avventura in Louisiana di Griffin ha vissuto una clamorosa svolta positiva dopo poco più di un mese. Alla Lottery del 2019 i Pelicans si presentavano con un misero 6% di possibilità di accaparrarsi la prima scelta, ovvero Zion Williamson, il prospetto più chiacchierato degli ultimi quindici anni, e proprio Griffin, in rappresentanza della franchigia, è stato volto televisivo di un colpo di fortuna clamoroso. La vittoria alla Lottery, come detto, ha mutato i destini dei Pelicans favorendo e rendendo meno amaro l’addio a Davis. Ora, dopo un anno che potrebbe essere definito d’assestamento, è arrivato il momento di decidere che forma dare alla squadra.
La struttura salariale, in questa prospettiva, concede a Griffin e al suo braccio operativo Trajan Langdon buoni margini di manovra. La conferma di Ball, Ingram e Williamson comporterà giocoforza il mantenimento della flessibilità necessaria ai rinnovi degli ex Lakers, che andranno affrontati nell’arco delle prossime due stagioni. Al netto delle incognite relative all’ormai imminente revisione al ribasso del salary cap, trattenere Ingram e Ball difficilmente richiederà una disponibilità inferiore a 40/50 milioni di dollari complessivi, ovvero poco meno della metà del presumibile spazio salariale a disposizione. Conti alla mano, l’attenzione si concentrerà prima di tutto su due categorie distinte: gli altri giovani a roster come Hart, Alexander-Walker e Hayes, e i veterani ancora a libro paga come Holiday e Redick. I primi hanno mostrato un potenziale di crescita interessante, i secondi hanno una profilatura e una situazione contrattuale (un anno con player option per Holiday, scadenza nel 2021 per Redick) che li rende adatti a realtà con ambizioni di vittoria immediate. Sono nomi che sul mercato potrebbero trovare non pochi estimatori, su questo non ci sono dubbi, ma è tuttavia difficile immaginare cosa i Pelicans potrebbero chiedere in cambio all’interno di una eventuale trade. In questo quadro, ovviamente, si inserisce anche la nomina del nuovo capo allenatore, profilo di alto livello arrivato per ottenere risultati concreti a breve termine. La scelta di Stan Van Gundy, in teoria, dovrebbe essere espressione di una pianificazione effettuata dal front office e dalla proprietà. E proprio quest’ultima, paradossalmente, rappresenta forse l’elemento di maggior incertezza per la franchigia.
Addio Louisiana
A dire il vero, non è che il coinvolgimento diretto della proprietà sia un ingrediente necessario nella ricetta per il successo, anzi, chiedere a New York o a Phoenix. Eppure, considerata la situazione dei Pelicans, una maggior presenza e ancor di più una maggior chiarezza a livello di strategie e obiettivi sarebbe essenziale. Perché se dal punto di vista strettamente tecnico il futuro della squadra appare promettente, pur all’interno di una Western Conference che si preannuncia sempre più combattiva, da quello economico e gestionale le premesse sono tutt’altro che rassicuranti.
Durante l’ultima stagione i Pelicans sono risultati 23° nella lega per spettatori di media, un leggero miglioramento rispetto alle annate precedenti in cui si erano classificati sempre tra il 24° e il 25° posto. Quello degli spettatori al palazzetto può sembrare un dato marginale in una NBA più che mai globalizzata, ma gli incassi relativi ai biglietti rappresentano in media circa il 40% delle entrate di ogni franchigia. È chiaro come alla luce della recente pandemia quel dato sia destinato a scendere per la stagione appena conclusa e anche per quella che seguirà, oltretutto nel contesto di una NBA che per diversi motivi vedrà assottigliarsi i propri margini in entrata. Per una realtà poco solida come quella di New Orleans, quindi, la prospettiva a medio termine potrebbe farsi oscura. Penultimi nella classifica di Forbes che stima il valore complessivo delle franchigie NBA, i Pelicans restano sul fondo anche quanto a volume d’affari generato (224 milioni di dollari) e relativo guadagno (49 milioni). L’opera di rebranding effettuata nel 2013 e la disponibilità di campioni dal forte potenziale mediatico come Davis prima e Williamson poi non ha invertito una tendenza che prosegue ininterrotta da quasi un decennio.
La quota di maggioranza della proprietà è attualmente nelle mani di Gayle Benson, vedova del magnate Tom, che nel 2012 aveva comprato gli allora Hornets direttamente dalla lega, subentrata dopo la tragicomica fuoriuscita della gestione precedente. Da sempre poco appassionata alle questioni inerenti lo sport, la signora Benson è tuttora impegnata nella rissosa disputa ereditaria infiammatasi dopo la morte del marito nel 2018 e pare nutrire un interesse alquanto relativo rispetto alle sorti dei Pelicans. A capo della franchigia ci sarebbe Dennis Lauscha, uomo di fiducia della signora Benson, che di fatto ha però trasferito pieni poteri a Griffin già al momento della sua nomina. Lauscha infatti, sempre per conto della proprietà, gestisce anche l’altra realtà sportiva di famiglia, i ben più seguiti New Orleans Saints. Presenza costante ai playoff grazie ai lanci millimetrici di Drew Brees, i Saints fanno parte di quella aristocrazia NFL che rappresenta un eccellente veicolo di business (441 milioni di dollari il volume d’affari generato nell’ultima stagione, 115 milioni il guadagno netto).
Considerando il relativo interesse e la prevedibile necessità di recuperare liquidità in vista delle fasi decisive della battaglia successoria, non è quindi azzardato ipotizzare che Gayle Benson possa decidere di liberarsi della meno redditizia tra le attività sportive possedute. Il cartello "vendesi" non è ancora appeso all’entrata dello Smoothie King Center, ma potrebbe esserlo presto, specialmente se la nuova conduzione tecnica della franchigia non saprà trascinare la squadra fuori dalle sabbie mobili della mediocrità in cui è rimasta impantanata negli ultimi anni. Inoltre l’affare, dal punto di vista speculativo, si prospetterebbe vantaggioso: acquistati per 338 milioni di dollari nel 2012, oggi i Pelicans potrebbero essere messi sul mercato ad un valore quasi quattro volte superiore, complice la presenza di Williamson. E sul mercato gli acquirenti non dovrebbero mancare, soprattutto perché, alla luce dei recenti sviluppi, gli investitori che in precedenza puntavano su una possibile espansione del numero di squadre da parte della NBA si troverebbero di fatto costretti a virare verso acquisizioni di realtà già esistenti. L’eventuale cessione, con ogni probabilità, comporterebbe l’addio alla Lousiana. Piazze come Las Vegas e Seattle, infatti, non fanno mistero di voler portare, o riportare, una franchigia NBA nella loro città. Anche ad Adam Silver e soci, infine, potrebbe non dispiacere un trasloco verso mercati decisamente più floridi.
La posta in palio, quindi, è di quelle davvero alte per New Orleans. E tra le tante incertezze che caratterizzano il futuro dei Pelicans sembra esserci un solo punto fermo: il loro destino dipende in gran parte dal responso che darà il campo nei prossimi mesi.