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Penny Lane
23 mag 2018
Ascesa, morte e rinascita di Penny Hardaway, una delle superstar più iconiche degli anni ‘90.
(articolo)
34 min
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La superstar più divertente degli anni ‘90: capace di passare il pallone come Magic,

di schiacciare come Jordan, di muoversi in post come Hakeem

e di infortunarsi come Grant Hill.

(Geoff Rowley)

Secondo Stendhal la bellezza è una promessa di felicità: ne possiamo distinguere stili e visioni differenti, ma poche cose associate al mondo della palla a spicchi avvicinano lo splendore estetico di Penny Hardaway. Un grande potere di attrazione unito a una naturale eleganza che ha sedotto e abbandonato due generazioni, una luminosa stella cometa che impreziosito il presepe ideale del basket degli ultimi trent’anni. Non si tratta dell’effimera celebrazione di una piacevolezza senza pari, ma del riconoscimento di un modello di completezza tecnica a cui aspirare, una riuscita crasi tra la forma e la sostanza cestistica.

Quattro stagioni con 304 partite di regular season all’attivo e una finale NBA hanno alimentato un piccolo culto della personalità che ha parzialmente travolto lo status quo della generazione del Dream Team e ha contribuito a surrogare il vuoto mediatico successivo al periodo sabbatico di Michael Jordan. Il suo travolgente principio cestistico ha cancellato un lungo e doloroso crepuscolo, un periodo oscuro che si è trascinato per una decade e che ha scritto uno dei più famigerati capitoli del “cosa sarebbe successo se...” dell’antologia NBA. Nei suoi momenti migliori il nativo di Memphis si è conteso la palma del cittadino più celebre del territorio con Elvis Presley e solo una grande fragilità fisica, una proverbiale sfortuna e qualche evidente spigolosità caratteriale ha limitato un impatto che stava ridisegnando la geografia del gioco.

La lega viaggia a due velocità parallele con i suoi giocatori di riferimento, ma a differenza delle celebri rette tende a farli incontrare il più spesso possibile. Da una parte c’è la categoria di atleti-copertina che rivestono il ruolo di ambasciatori a tempo indeterminato e che danno vita a una una sorta di famiglia allargata; sull’altro versante ci sono le attenzioni a tempo determinato per rookie o emergenti rampanti: linfa necessaria per alimentare un’attualità che richiede un ricambio continuo ed è perennemente alla ricerca di nuove storie e volti freschi. Dopo un periodo più o meno intenso di promozione, gli esponenti della seconda categoria scivolano in una sorta di relativo anonimato o più raramente ascendono nel gruppetto degli eletti. Gloria imperitura o una fugace apparizione da protagonisti su uno dei palcoscenici più spietati dello sport professionistico: è la sintesi del semplice ma efficace ecosistema umano a cui ha dato vita l’ex commissioner David Stern. Anfernee “Penny” Hardaway fa parte a pieno titolo della prima categoria, una posizione che di solito richiede almeno due lustri di rendimento stellare, più o meno il doppio della longevità che ha assicurato lui in carriera. Una ridotta finestra temporale che lo ha privato di un sicuro indirizzo nella Hall of Fame, ma che si è dimostrata sufficiente per lasciare una traccia importante nell’immaginario comune. Breve ma intenso, proprio come un sogno che solletica la fantasia ma che dura inevitabilmente troppo poco.

Foto di Andrew D. Bernstein/NBAE via Getty Images

La bellezza effimera di Penny

Quello degli esordi è uno dei migliori esterni comparsi sul globo grazie a una felice combinazione di talento puro, esplosività selvaggia e una singolare aristocrazia di movimenti che nessuno dei suoi eredi ha mai avvicinato. Setoso e fluido con un stile scevro da eccessi o stonate forzature, ma in grado allo stesso tempo di risultare uno dei protagonisti più eccitanti e “rubacuori” degli anni Novanta. Dotato di un buon tiro da fuori e di un solido jumper dalla media distanza, agevolato nei suoi buoni istinti difensivi da una smisurata apertura delle braccia e da un agonismo abilmente celato da un aspetto tipico del ragazzo della porta accanto. Un innato facilitatore e non un regista classico, un atleta con un raffinato istinto teatrale in grado di accumulare giocate sensazionali a getto continuo. Un playmaker poco oltre i due metri che ha sintetizzato una parte importante delle qualità di Magic Johnson, sfoggiato una versatilità vicina a quella di Scottie Pippen e cosparso il tutto con occasionali “pennellate” di trascendenza onirica (sotto forma di passaggi “no look”) tipica di visionari come Jay Williams.

Un giocatore pragmatico quanto il celebre uovo di Colombo, ma allo stesso tempo dilettevole quanto un film blockbuster campione d’incassi. Un repertorio quasi infinito e un corpo più vicino ai sogni di uno scienziato pazzo che alla comune media dei giocatori di pallacanestro. Quando abbandona il parquet per schiacciare dissimula lo strapotere atletico con dei movimenti plastici che sembrano rallentare e alterare in qualche modo la percezione della velocità dell’azione. Il tempo si ferma per un istante interminabile perché non si limita a saltare; torreggia mentre ascende perfettamente verticale prima di affondare inesorabilmente la retina. Il suo linguaggio del corpo sembra più simile a un cartone animato o a un ballerino che a un cestista di grande livello: i suoi movimenti sembrano sottolineati da invisibili linee d’azione che si utilizzano di solito per accentuare il dinamismo nei fumetti. La grazia che incontra una grande veemenza e si lega a una feroce determinazione: il sogno di ogni appassionato.

Memphis Bound

Anfernee nasce nel luglio del 1971 nella celebre celebre patria del Blues e del Rock’n’Roll e viene immediatamente affidato alle cure della energica nonna materna Louise, una figura chiave nel suo percorso. Dopo una vita di sacrifici da coltivatrice nelle piantagioni di cotone, nonna Louise è riuscita ad acquistare una casa in periferia venti anni prima e il suo nuovo lavoro di cuoca gli consente di affrontare il sostentamento di una famiglia decisamente numerosa. La madre deve ancora completare gli studi e poco dopo il parto si trasferisce in California, un distacco che viene ricucito solo quattordici anni dopo. Louise al momento di registrare le generalità del pargolo chiede e ottiene di adottare il suo cognome al posto di quello del padre (abbiamo rischiato di trovarci di fronte a Penny Golden, che avrebbe dato vita a una lunga serie di giochi di parole che fortunatamente ci siamo risparmiati). Dotato di un talento multiforme, Anfernee dimostra dal principio grandi doti per il football e da bambino sogna di giocare come quarterback per i Dallas Cowboys per cui ha una passione smodata.

Il provvidenziale intervento della sua educatrice lo fa rapidamente virare sulla pallacanestro: il suo fisico longilineo e gracile in effetti non sembra l’ideale per uno sport di puro contatto. È circondato da un ambiente difficile e pieno di pericolose tentazioni visto che negli anni Settanta il quartiere viene duramente colpito dalla recessione economica. Il tasso di criminalità è pericolosamente alto e il rischio di perdersi dietro facili scorciatoie è dietro l’angolo. La padrona di casa instaura una disciplina militare per mantenere saldo il controllo: sveglia obbligatoria alle 6 di mattina seguita da una veloce colazione, una profonda pulizia della camera o dell’abitazione e la frequentazione obbligatoria del coro della chiesa. Il suo soprannome in famiglia è “Pretty” (carino) grazie alla dolcezza dei lineamenti e al temperamento affabile, ma il particolare accento del sud lo fa suonare come “Pweddy”. Con il passare del tempo la leggera storpiatura si trasforma definitivamente in “Penny”, un nomignolo che gli resterà felicemente incollato vita natural durante. L’associazione con il celebre quarto di dollaro è talmente accattivante da determinare il suo iconico numero di maglia e buona parte del suo appeal successivo.

Sin dai primi anni di adolescenza Penny diventa un prezioso punto di riferimento per i campetti locali e le sue qualità raggiungono la notorietà in ogni angolo del tessuto urbano grazie alle generose referenze di atleti già in odore di NBA. Uno dei suoi sponsor principali è il concittadino Vincent Askew, noto alle nostre latitudini per esperienze in maglia Fortitudo Bologna e con l’Emmezeta Udine. Nell’ultimo anno di liceo la sua fama comincia a lambire i più quotati santoni del basket collegiale che si ritrovano a osservare un prospetto che è anni luce distante dai coetanei per completezza e qualità atletiche. Domina come un uomo in mezzo ai ragazzi e molti esperti del settore lo celebrano come il miglior talento del paese.

Chiude il suo anno da senior con la maglia della Treadwell High School con numeri in grado di far stropicciare gli occhi: le medie si attestano su 36 punti, 10 rimbalzi e quasi 6 assist a partita. La sua attenzione è ormai esclusivamente rivolta a un futuro da professionista, un fattore che incide negativamente sul suo impegno scolastico. La preparazione lacunosa gli impedisce di superare il classico A.C.T. (l’American College Test) e di giocare al suo primo anno di università per la sospensione automatica. A garantire la sua borsa di studio è la locale Memphis State che contro ogni ragionevole pronostico è riuscita ad ingaggiare un All-American desiderato da ogni angolo del paese. Arkansas e Georgetown arrivano vicino alla sua firma, ma il ragazzo si convince a restare vicino alla famiglia e alla nonna in particolare. L’anno di punizione scivola via tra chiacchiere maligne (non mancano le frecciatine riguardo le sue qualità intellettuali) e la tremenda frustrazione di osservare i compagni da bordo campo senza poter contribuire.

Le difficoltà non influiscono sul profondo legame tra Anfernee e la sua città, un amore viscerale che influenzerà tutte le sue successive scelte di vita. Un sentimento messo a dura prova da un brutto episodio avvenuto nell’aprile del 1991, un punto di svolta destinato a cambiare l’approccio di un fuoriclasse ancora incerto su come gestire le sue qualità. Hardaway è vittima di una rapina a mano armata e per diversi minuti la pistola di un malvivente gli resta schiacciata sul collo mentre viene spogliato di tutti gli effetti personali. Durante la fuga dei malviventi vengono esplosi dei colpi e uno di questi, rimbalzando sul terreno, colpisce il suo piede destro rompendogli tre ossa ossa metatarsali. L’infortunio mette seriamente a repentaglio la sua carriera e cambia radicalmente il suo atteggiamento che matura immediatamente. Finalmente (e per una volta fortunatamente) ristabilito a pieno, amplifica il grande entusiasmo per il gioco e rivoluziona il suo rendimento scolastico che arriva a raggiungere il prestigioso inserimento nella Dean List - un riconoscimento davvero rimarchevole considerate le sue difficoltà iniziali, tanto che il drastico cambio di marcia accende definitivamente anche la curiosità della stampa. Sport Illustrated infatti gli dedica il primo ampio servizio nell’estate del 1991: durante l’intervista spende diverse volte il nome di Shaquille O’Neal, mentre cerca di descrivere il suo stile di gioco ed esaltare le sue doti di passatore. Il dinamico duo ha fraternizzato l’anno precedente per la comune militanza nella rappresentativa del Sud agli Olympic Games e ha sviluppato immediatamente una grande chimica. Un legame che diventerà di stretta attualità a stretto giro di posta.

Tornato protagonista sul parquet nella stagione 1991-92, Hardaway conferma in pieno le notevoli aspettative riposte sul suo conto, anche se la prima parte dell’annata è condizionata da qualche fisiologico sali-scendi di rendimento vista la ruggine accumulata e una gestione accorta del piede infortunato. Il suo contributo vale l’inclusione nella squadra nazionale sperimentale, una compagine formata dei migliori talenti giovani del paese (Chris Webber, Allan Houston e Grant Hill tra gli altri) assemblata per disputare la celebre partita d’allenamento con il Dream Team di Barcellona 1992, vinto dai ragazzini con la robusta mano di coach Chuck Daly, intenzionato a impartire una lezione ai suoi Hall of Famer.

L’esperienza accresce notevolmente l’autostima di Anfernee che si presenta ai nastri di partenza del suo anno da junior con il preciso obiettivo di conquistare le prime posizioni del Draft NBA dell’anno successivo. La sua determinazione e la definitiva esplosione fisica travolgono gli avversari e fruttano due triple doppie stagionali con un assortimento di statistiche (quasi 23 punti, 8 rimbalzi e 6 assist ad allacciata di scarpe) che lascia di stucco molti osservatori specializzati. Più che i numeri a impressionare è lo stile di gioco che abbiamo cercato di sintetizzare nella nostra introduzione: le esitazioni in palleggio con variazioni jazzistiche, le prepotenti esplosioni verso il ferro e la proverbiale completezza ne fanno uno dei giocatori più chiacchierati del ristretto gruppo di collegiali individuato per animare l’imminente lotteria.

I dubbi che aleggiano sul suo conto riguardano la possibilità di mantenere lo stesso impatto anche al piano di sopra, in particolare qualche scout esprime perplessità su un suo utilizzo da playmaker in pianta stabile, ne critica l’efficacia del primo passo e il ridotto sviluppo muscolare. Viene considerato più vicino a una guardia o a un ala piccola: Craig Sampson in un suo celebre rapporto lo riconosce come un giocatore versatile e talentuoso ma lo accosta a Walt Williams, discostandosi nettamente dai paragoni con i grandi del passato. Siamo distanti dalla visione d’insieme odierna, un basket privo di posizioni definite come quello che vediamo in campo oggi è ancora una utopia. Nessuno dubita che sia una scelta di grana finissima, ma in pochi sono disposti a immaginare una sua inclusione tra le prime cinque scelte assolute.

Il “super” workout

La percezione di “buon giocatore ben distante dai vertici della lega” lo accompagna anche nei mesi successivi: gli addetti ai lavori che lo visionano nei vari provini continuano a considerare il suo profilo affascinate e pieno di dubbi al tempo stesso. I Magic che possono vantare la prima scelta assoluta lo valutano con un pizzico di superficialità e bocciano la sua candidatura anche perché i nomi di Chris Webber, Shawn Bradley (sigh!) e Jamal Mashburn hanno già catturato la fantasia di stampa e tifosi. Orlando dispone di una squadra da playoff grazie alla presenza di Shaquille O’Neal (rookie dell’anno appena incoronato) che nella sua prima stagione ha dimostrato di poter dominare sotto canestro, sovvertendo i tradizionali ordini di forza nel pitturato NBA. Un paradigma che nei primi anni Novanta è sinonimo di controllo del gioco, anche se il monopolio dei Chicago Bulls va felicemente avanti senza veri lunghi di riferimento grazie all’egemonia di Michael Jordan.

Ci sono i presupposti per costruire una dinastia sportiva in piena regola, ma quando il quadro sembra delineato e tutto lascia presagire la selezione di Webber alla 1, interviene la lunga mano di Shaq. Il faro della franchigia ha già un legame con Hardaway, intesa che viene ulteriormente rafforzata dalle riprese del film Blue Chips che li vede impegnati spalla a spalla per diversi mesi. Il film racconta le peripezie di un allenatore e di un programma universitario in crisi che, pur di risollevarsi, cede alla tentazione di reclutare i migliori prospetti con mezzi illeciti - una storia di grande attualità ancora oggi e uno dei primi gridi di allarme verso il mondo opaco che fa da cerniera tra NCAA e i talenti liceali. O’Neal utilizza tutta la sua influenza per organizzare un nuova occasione per il suo compagno di avventura, esponendosi in prima persona con il management: vuole Anfernee a tutti i costi.

I Magic organizzano un nuovo provino in grande stile a pochi giorni dal Draft e per tutta la giornata viene indirizzato sulle piste del veterano Anthony Bowie, al tempo il miglior difensore della squadra. Diverse leggende metropolitane e una serie quasi infinita di aneddoti alimentano da decenni il mito una prestazione superlativa: per qualche storico della lega si tratta persino di un punto di svolta per i workout, fino a quel momento relativamente sottovalutati. Penny è in giornata di grazia e termina le sue sessioni di uno contro uno con delle percentuali eccellenti, mostrando un campionario di movimenti che lascia sbalorditi i componenti dello staff tecnico e il proprietario della squadra. Va a rimbalzo con l’efficacia di un lungo e fuga ogni ragionevole dubbio sulla sua effettiva efficacia come play, probabilmente il punto di domanda più importante che continua ad aleggiare sul suo conto. Con un accordo lampo i Magic approfittano della disponibilità dei Golden State Warriors: la franchigia della Florida sceglie Chris Webber con la numero uno e lo cede immediatamente in cambio della pick numero tre (e di tre scelte al primo giro) con cui seleziona il nipote della signora Louise. Uno scambio che fa felice il giocatore franchigia ma lascia perplessi i tifosi: ci sono infatti inediti rantoli polemici che attraversano la città di Topolino, e la sensazione immediata è di uno sciagurato azzardo della dirigenza.

Foto di Nathaniel S. Butler/NBAE via Getty Images

Una rockstar in piena regola

Hardaway è comprensibilmente infastidito dalla tiepida accoglienza dei suoi nuovi tifosi ma dimostra di avere le idee ben chiare riguardo il suo valore. Contro ogni previsione ingaggia una durissima disputa contrattuale con la proprietà, un braccio di ferro che provoca più di qualche malumore da parte dei giocatori veterani e della tifoseria locale che aumenta le sue perplessità, tanto che nelle prime apparizioni i fischi non mancano. La sua determinazione frutta un accordo molto generoso (65 milioni per 13 anni) e una pericolosa clausola di rinegoziazione già al termine del primo anno a suo esclusivo vantaggio. Il clima che lo circonda al suo primo training camp da professionista è già carico di tensione, ma la pressione aggiuntiva non scalfisce di un millimetro la sicurezza e la sfacciata disinvoltura che continua a sfoggiare con tutti.

Per facilitare la sua transizione viene impiegato inizialmente da guardia e da ala, con il veterano Scott Skiles investito della responsabilità della cabina di regia. Nel corso della stagione il numero 1 prende progressivamente le redini della squadra e tra lo stupore generale confeziona una delle stagioni più memorabili di sempre per una matricola. Il nativo di Memphis non soffre della grande ombra proiettata da Shaq e si trasforma nel giro di pochi mesi in un giocatore universale che abbaglia pubblico e critica: ad ogni partita sembra spuntare qualcosa di nuovo nel suo repertorio e al momento opportuno si lascia andare persino a qualche ammaliante giocata in post basso che non aveva mai mostrato con continuità al college. La presenza di O’Neal agevola il suo compito e ne mitiga la pressione, ma la sua assoluta diversità rispetto al resto degli esterni della lega (che al suo confronto sembrano usciti da immagini di repertorio in bianco e nero) scuote anche i cuori più rocciosi.

Penny diviene una sorta di quadro futurista dipinto con le doti dei giocatori più rappresentativi della NBA: ogni talento di spicco riconosce in lui diversi pezzi forti del proprio repertorio e vengono spesi accostamenti con Magic Johnson, Pete Maravich, George Gervin e Scottie Pippen solo per citarne alcuni. Una specie di versione giocosa delle macchie di Rorschach. A ben impressionare è anche il rendimento difensivo: grazie alle lunghe braccia è un incubo per le linee di passaggio degli avversari e termina a ridosso dei primi cinque specialisti per palloni recuperati a partita. Griffa una tripla doppia (molto più rare di oggi) e medie che si attestano poco sotto ai 17 punti con 6 assist e 5 rimbalzi. Contribuisce alla prima stagione da 50 vittorie della squadra che ad appena un lustro dalla sua fondazione è già in grado di sgomitare per la lotta playoff nonostante la feroce concorrenza.

L’annata si chiude con un uno sweep (secco 3-0) subito dalla Indiana di Reggie Miller che non lascia alcun tipo di cicatrice. Nessun competitor ha il potenziale e il fascino di Orlando: Shaq domina le plance e Anfernee è il giocatore più divertente e magnetico in circolazione. Considerando fresco ritiro di Jordan, gli indizi lasciano presagire un futuro ricco di successi e un ciclo molto lungo. Sembra tutto a portata di mano, senza passare dalla necessità di dolorose cicatrici e lente evoluzioni del roster. A supportare ci sono infatti Dennis Scott, Nick Anderson e persino Horace Grant che attratto dal progetto ha frettolosamente abbandonato Chicago. Il quintetto e i due leader sono delle stelle pop in piena regola.

La Nike lo trasforma nel suo nuovo ambasciatore di punta regalando ulteriore appeal al suo personaggio: la sua immagine viene trasmessa a tamburo battente sulle emittenti nazionali. Il suo alter ego veste i panni di un impertinente burattino, ha la voce di Chris Rock e duetta con Spike Lee e Tyra Banks. Tanto interesse genera l’inevitabile uscita dal contratto sottoscritto l’anno precedente e la clamorosa richiesta di 134 milioni per 12 anni, una cifra che potrebbe potenzialmente compromettere i rinnovi di O’Neal e dei giocatori più rappresentativi. Dopo mesi di aspre contrattazioni viene raggiunta una faticosa intesa per un importo che sfiora gli 80 milioni proprio a ridosso del training camp. I fischi e la disapprovazione del pubblico tornano a farsi sentire nelle prime gare del 1994-95 per poi tramutarsi rapidamente in scroscianti applausi. Il salary cap che si avvicina a grandi passi verso il lockout è poco generoso e garantista con i team di prima formazione: una lacuna colmata anche per le peripezie affrontate da questa dirigenza, ormai condannata a rincorrere le sue stelle in un infernale girone dantesco.

La Finale NBA e i primi scricchiolii

Il secondo anno di Hardaway è poesia in movimento e la definitiva affermazione di un potere seduttivo tale da eclissare parzialmente anche il più celebre compagno di merende. Irrobustita la parte superiore del corpo in estate, non c’è praticamente nessun pivot della vecchia generazione che si trovi al sicuro nei pressi del canestro: ne fa la spese Patrick Ewing che tenta di fermarlo con una stoppata e si ritrova nel classico poster, ma perfino il Karl Malone del caso è guardingo quando incrocia la sua sagoma vicino al ferro. Orlando sembra un mostro a due teste: O’Neal (dall’alto suo 29 punti a partita) o Hardaway, a voi la scelta del veleno con cui morire. I libri registrano 57 vittorie stagionali e medie che si attestano sui 21 punti, 7 assistenze e 4 rimbalzi a sera, un rendimento che vale la prima partenza da titolare per l’All-Star Game e la menzione nel miglior quintetto della stagione. Oltre agli evidenti miglioramenti fisici la sua economia di gioco si arricchisce con un utilizzo sempre più sapiente del footwork (sacra e mai troppo celebrata arte del movimento dei piedi), di un tiro da fuori più efficace e delle prime movenze di chiara ispirazione jordaniana con il classico lavoro delle ginocchia a favorire il tiro in allontanamento. Il suo magistrale utilizzo della mano sinistra assicura grattacapi a ogni difesa, e a tutto questo aggiungete un sorriso liquido degno del protagonista di una sit-com, un impeccabile pizzetto che fa tendenza e un approccio talmente cool da rendere la sua canotta un puro oggetto di culto.

La stagione regolare fila via trionfale come la marcia di Radetzky tanto che il record casalingo viene cronometrato su un irreale 39-2, un rendimento inferiore di una sola partita rispetto ai Boston Celtics di Larry Bird nel 1986, squadra universalmente considerata una delle migliori di sempre. Sono proprio i Celtics ad essere strapazzati nel primo turno di playoff con un perentorio 3-1 che chiude definitivamente la carriera del Boston Garden, mentre alle semifinali di conference ci sono proprio i Chicago Bulls del rientrante MJ, che dopo quasi due anni di oblio è tornato a vestire i suoi consueti panni. I nuovi arrivati però sono un osso troppo duro per un collettivo scollato che sta ricostruendo telaio e motivazioni e che si lascia irretire perfino dal trash talk: i Magic passano il turno con Chicago con qualche piccolo patema d’animo e diventano l’unica squadra capace di sconfiggere la truppa di Phil Jackson in una serie di playoff nella decade degli anni ‘90, altrimenti contrassegnate dai loro sei titoli. Le finali di conference si trasformano in una battaglia senza quartiere con gli Indiana Pacers di Reggie Miller che cedono solo alla settima partita in una serie che viene decisa dal fattore campo.

L’ultimo atto contro gli Houston Rockets di Hakeem Olajuwon è molto più equilibrato di quanto dica il risultato, un netto 4-0 per Houston, ma cambia inesorabilmente il destino della squadra. Olajuwon al picco della sua carriera vince il duello con Shaq (imberbe 23enne) ma è il rocambolesco finale di gara-1 della finalissima che spegne gli entusiasmi e avvelena l’anima di un gruppo ancora inesperto. In vantaggio di tre punti e con le mani saldamente sulla partita, Orlando affonda per colpa dei quattro tiri liberi sbagliati in rapida successione da Nick Anderson, subisce la tripla del pareggio di Kenny Smith e si inabissa nel supplementare. Il saldo emotivo precipita rapidamente determinando il secondo titolo di fila per Houston e un sorprendente processo di autodistruzione per i Magic: Penny contribuisce con 25 punti, 5 rimbalzi e 8 assist di media, confermando il solido 50% dal campo registrato nella regular season, ma subisce la prima vera grossa delusione della sua carriera.

La fragorosa implosione

Gli strascichi della sconfitta alterano gli equilibri e comincia un lento ma inesorabile scollamento tra le varie anime dello spogliatoio. Infuriano liti e polemiche che qualche volta finiscono per animare gli articoli sportivi. La chimica tra O’Neal e il suo compagno di riferimento comincia a diminuire; come se non bastasse la proprietà comincia a nutrire perplessità riguardo l’approccio scanzonato del suo centro che continua a moltiplicare le iniziative commerciali (ha più sponsor personali di una scuderia di Formula 1) e sembra sempre più attratto dal mondo dello spettacolo. I dubbi aumentano dopo un infortunio al polso che gli impedisce di giocare la prima parte della stagione successiva, un’assenza che secondo molti esperti avrebbe determinato un record vicino o di poco sotto il 50%.

Il campo stravolge queste previsioni ed esalta ancora una volta le doti di Penny, ormai asceso al livello dei giocatori più dominanti: tra lo stupore generale trascina la franchigia ad un sorprendente risultato di 17-6 al momento del rientro del prodotto di Louisiana State. Tornato in forma anche Shaq matura l’ennesima buona annata, ma i riflettori cominciano a mostrare una certa preferenza per il ragazzo di Memphis che finisce terzo nella votazione MVP e che ormai è l’ambasciatore naturale dell’organizzazione. Nei playoff la corsa si interrompe proprio contro i Chicago Bulls in edizione 1995-96, la squadra capace di chiudere il suo campionato con un abbacinante 72-10 complessivo. Jordan è tornato a livelli celestiali e la difesa mefistofelica di Scottie Pippen neutralizza buona parte del potenziale di Hardaway, che sembra spesso giocare fuori ritmo e fatica a mantenere un apporto costante. Parte del calo di rendimento deriva anche da malanni fisici: dopo uno scontro fortuito con Joe Dumars nel primo turno giocato e dominato contro i Detroit Pistons, il ginocchio lo tormenta e gli impedisce di giocare al 100% delle sue possibilità.

Foto di Barry Gossage/NBAE via Getty Images

Il popolare duo della Florida viene convocato per giocare con il secondo Dream Team alle Olimpiadi di Atlanta: pur di scendere in campo e onorare l’impegno il numero 1 decide di stringere i denti, e il dolore della sua articolazione dopo settimane di riposo è diventato sopportabile. Ha modo di mettersi in evidenza nella semifinali e nella finalissima contro la Jugoslavia dove mette a referto ben 17 punti. L’oro è una grande soddisfazione personale ma un ciclone di polemiche è destinato ad abbattersi sulla città: Shaq abbandona la nave per firmare con i Los Angeles Lakers dopo la corte serrata di “The Logo” Jerry West. Tutte le responsabilità finiscono immediatamente per ricadere sulle sue spalle, un peso che sembra gravare in modo proporzionale anche sul suo ginocchio.

Quella del 1996 è una free agency selvaggia: regole e vincoli sono ridotti al minimo e la firma di Alonzo Mourning con i Miami Heat con un contratto di oltre 100 milioni mette sotto pressione i Magic, dato che i dirigenti non possono trattenere la coppia d’oro formata da Shaq e Penny con le cifre dettate il mercato. La franchigia offre a O’Neal un ingaggio tra gli 80 e i 90 milioni, una somma che potrebbe consentire una nuova negoziazione con Penny negli anni successivi e allo stesso tempo garantire un minimo flessibilità per i giocatori di supporto. Il tifo amico si scaglia contro le pretese di Shaq che ormai è semplicemente più importante della squadra stessa in ottica NBA. Vengono aspramente criticate anche le scelte nella vita privata da una comunità eccessivamente conservatrice, fattore che congela definitivamente i rapporti tra le due parti.

Shaq non ha la minima intenzione di fare sconti per nessun componente del roster e ha voglia di esplorare le ricche opportunità di un mercato come Los Angeles, un contesto nettamente più grande e cosmopolita della piccola città sorta attorno al complesso della Disney. A soli 24 anni vuole testare fino in fondo anche le sue possibilità nel mondo del cinema, e l’offerta di 120 milioni per 7 anni dei Lakers è sostanzialmente imbattibile. Poco dopo la firma tutti i componenti della nazionale statunitense sono a conoscenza del fattaccio ad eccezione del suo ex compagno preferito, informato da Reggie Miller sul bus della squadra in una conversazione dai toni surreali. Si rompe un binomio che avrebbe potuto garantire almeno un paio di titoli, e con esso il progetto tecnico sembra naufragare miseramente. Un colpo molto duro che secondo molti analisti non è stato ancora assorbito del tutto dalla franchigia della Florida, al netto del ritorno alle Finals nel 2009 con Dwight Howard. Dalle stelle alle stalle nel giro di un battito di ciglia.

Un uomo solo al comando

La sua gamba sinistra di Hardaway è palesemente in disordine ma continua a rimandare le cure necessarie: il buon senso avrebbe richiesto un periodo di assoluto riposo dopo la serie con Houston e la ovvia rinuncia alle Olimpiadi, e invece la sua attività non accenna a diminuire. Uno dei problemi di fondo di questa strana situazione è la difficoltà dei medici nel formulare una diagnosi tempestiva ed efficace: gli strumenti medici a disposizione nei primi anni Novanta non vanno molto d’accordo con le lesioni alla cartilagine, un tipo di infortunio che al tempo richiedeva numerosi approfondimenti e come nel suo caso operazioni “esplorative” in artroscopia per far luce sulla situazione. Anche un menisco è lesionato e la muscolatura che ha cercato di compensare i danni dell’articolazione procura più di qualche preoccupazione.

Siamo già in autunno quando si decide di agire, poco dopo che il problema alla cartilagine è individuato e riconosciuto ufficialmente. Ancora una volta si sceglie la strada del recupero affrettato visto che dopo il primo leggero intervento salta solo una ventina di partite nel 1996-97. Difficile stabilire se la colpa sia da attribuire alla pressione dell’ambiente o della testardaggine e della voglia di competere di Penny. La cultura dei giocatori della sua generazione non aiuta: approcci conservativi sono spesso giudicati un segnale di scarsa voglia di competere e quindi di problemi assicurati con i media. In panchina è rimasto Brian Hill nonostante i ripetuti tentativi di siluramento di Shaquille e il pollice verso di molti componenti del roster nel recente passato, un altra situazione trascurata e mal gestita da una dirigenza frastornata. In qualità di leader Hardaway rompe gli indugi e decide di chiederne il licenziamento dopo una pesante lite e una pessima partenza in regular season, con l’incarico che viene quindi affidato al traghettatore Richie Adubato. Una situazione spiacevole che per la prima volta danneggia la sua immagine immacolata, anche se è il roster nel suo complesso ad ammutinarsi contro un coach più propenso allo scontro che al confronto. Per l’opinione pubblica, però, Hardaway diventa immediatamente un “mangia allenatori” e una superstar viziata. Ristabilita a caro prezzo l’armonia interna e rammendato per quanto possibile il ginocchio sinistro, il campo conferma il prevedibile ritornello: 38-21 il record in sua presenza, 7-16 in sua assenza. Arriva un sofferta qualificazione ai playoff e la sorte offre in dote un complicato accoppiamento con la difesa fisica e logorante dei Miami Heat di Pat Riley. Le prime due partite finiscono a vantaggio degli Heat e a un passo dall’eliminazione l’orgoglio e l’amor proprio del nipote di Louise danno vita ad una furiosa rimonta. In gara-3 e gara-4 realizza oltre 40 punti e in puro stato di esaltazione agonistica mette in scena uno spettacolo di altissimo livello: getta il cuore oltre l’ostacolo e con un canestro più bello dell’altro si riconquista la giusta attenzione dopo un anno ricco di amarezze. Si tratta, però, dell’ultimo canto del cigno: Hardaway forza gara-5, ma è costretto ad arrendersi di fronte a una squadra più organizzata e tonica fisicamente.

Fine di un amore

La fitta e dolorosa successione di sfortunati eventi del 1996-97 ha uno strascico lungo e conseguenze spiacevoli sia per Penny che per i Magic. Il martoriato ginocchio cede nuovamente l’annata seguente e si rende necessaria un’altra operazione per alleviare il dolore persistente e una fastidiosa tendinite. La lesione della cartilagine si è ormai profondamente e irrimediabilmente aggravata: l’entourage del giocatore in accordo con l’agente pianifica la riabilitazione a Houston, una decisione che provoca la prima grande frattura con la dirigenza che è di fatto tagliata fuori dal processo di guarigione. Hardaway ritiene la squadra responsabile delle sue condizioni e il rimpallo di accuse scatena una guerra fredda senza esclusione di colpi bassi.

Penny diserta lo spogliatoio e non raccoglie i numerosi appelli di concordia del nuovo allenatore, il santone Chuck Daly, che è stato assunto per gestire la sua emotiva spigolosità. Fioccano i pettegolezzi e quando torna a giocare a febbraio (esclusivamente per onorare la convocazione all’All-Star Game) il rapporto raggiunge il massimo livello di ostilità. Terminata la manifestazione, Hardaway torna rapidamente indisponibile stimolando di fatto la proprietà a esplorare la possibilità di uno scambio, anche se i potenziali acquirenti sono molto scettici riguardo alle sue condizioni fisiche. Dopo una stagione da 19 partite, affronta l’estate del lockout da separato in casa con un clima da Guerra dei Roses. L’intenso lavoro di riabilitazione estivo gli restituisce una condizione accettabile, anche se è già evidente un netto calo della forza esplosiva nel suo gioco, una limitazione che non pregiudica il discreto andamento della campagna 1998-99 in cui riesce a disputare tutte e 50 le partite con risultati onesti ma poco esaltanti. I tempi sono maturi per un divorzio e infatti la sua avventura si conclude con una trade ai Phoenix Suns che gli riconoscono una ricca estensione salariale: un azzardo destinato a diventare uno dei peggiori contratti siglati in era moderna e che di fatto inaugura la seconda parte della sua carriera.

Il lungo crepuscolo

In Arizona hanno pensato le cose in grande: il nuovo progetto tecnico si fonda sulle qualità di Penny e di Jason Kidd, una formidabile coppia di esterni che si conquista rapidamente il nomignolo di “Backcourt 2000”. I numerosi infortuni della due stelle però ridimensionano bruscamente le aspettative e in particolare il precoce declino fisico della stella di Memphis impedisce particolari voli pindarici. Per alleviare il dolore alla solita articolazione sinistra ricorre da pioniere alla microchirurgia della cartilagine (praticamente dismessa dopo il disastro di Greg Oden) e solo nel suo primo anno riesce a fornire un contributo di spessore. Hardaway guida i compagni alla vittoriosa serie al primo turno (con annessa tripla doppia in gara-3) contro i San Antonio Spurs campioni in carica ma privi di Tim Duncan, per poi ben figurare nel capitolo successivo contro i Lakers dell’ex compagno Shaq e di Kobe Bryant.

Il furioso susseguirsi di operazioni, ricadute e riabilitazioni lo condanna per il resto della carriera a brevi e intensi exploit, seguiti da lunghi periodi di buio che progressivamente lo trasformano in un giocatore di contorno. Scambiato ai Knicks nel 2004, si adatta il più possibile al ruolo di saggio veterano per poi essere nuovamente girato a Orlando nel 2006 in una manovra di “scarico” salariale delle due squadre. Ironicamente si ritrova a giocare per Brian Hill, che nel frattempo è stato richiamato in panchina: il suo contratto viene mestamente tagliato e la sua avventura si conclude a Miami nel 2007. Resta in Florida su invito di Shaq (che è tornato a supportare il vecchio amico) ma riesce a giocare per sole 16 gare prima del suo addio definitivo. Lascia la palla a spicchi con una mobilità laterale ridotta ai minimi termini e una vasta gamma di dolori articolari. La comunità degli allenatori non gli perdona il licenziamento di Hill e sopra tutto il comportamento eccessivamente duro nei confronti di Chuck Daly, anche se le attenuanti generiche sono innegabili. Questo sentimento si traduce in atteggiamenti ostili e in frecciate gratuite che si susseguono per diversi anni, perfino dopo le fine del ciclo di Orlando. Il livore che John Thompson sfoggia in un celebre faccia a faccia televisivo è un esempio perfetto. Quando si spinge a domandargli “Sei ipocondriaco?” il volto del suo nervoso interlocutore tradisce la tentazione di un pianto liberatorio. Fisicamente spremuto e ormai incapace di incidere, Penny Hardaway abbandona un ambiente caustico che sembra quasi infastidito dal grande affetto che il pubblico continua a tributargli.

Foto di Fernando Medina/NBAE via Getty Images

Il riscatto: Coach “Penny” Carter

Il suo legame viscerale con Memphis aggiunge un nuovo capitolo grazie all’influenza del suo amico d’infanzia Desmond Merriweather, un coach di scuola media che ha speso la sua vita allontanando dalle tentazioni i ragazzi in un quartiere difficile. Debilitato da un cancro e sempre più in difficoltà nella gestione quotidiana della sua squadra, “Dez” tra il 2011 e il 2012 si rivolge a lui in cerca di sostegno. Un appello prontamente accolto dal miglior giocatore della storia della città che, con un inserimento graduale, inizialmente riveste il ruolo di sponsor/mecenate prima di assumere il ruolo di aiuto allenatore.

Il suo contributo volontario diventa via via sempre più importante mentre il suo amico combatte per la vita affrontando terapie e chemio. Il suo apporto è impagabile: sprona i ragazzi privi di una guida paterna grazie alla sua esperienza e il suo entusiasmo risulta fondamentale per ispirare e far crescere un gruppo che gestisce come una grande famiglia. “Dez” tiene lontane le gang dai componenti del roster e riesce a far diventare il gruppetto un simbolo di riscatto cittadino, mentre delega sempre di più le responsabilità tecniche al suo partner. I risultati sportivi sono eccellenti e in qualche partita i ragazzi demoliscono gli avversari con scarti superiori ai 50 punti, i voti e il rendimento scolastico allo stesso tempo sono estremamente soddisfacenti e diventano una parte fondamentale della cultura della squadra.

La storia è curiosamente simile alla trama del film Coach Carter con Samuel L. Jackson, tanto che coach Penny si trasforma progressivamente nella figura dell’allenatore per i tanti tifosi sparsi nel quartiere. Quando il nucleo principale del gruppo si iscrive al liceo, i due decidono di seguire lo stesso percorso e la coppia ottiene infatti la panchina della East High. L’avventura si rivela un nuovo travolgente successo e la sua fama di allenatore e la sua abilità nel gestire e sviluppare il talento raggiunge una dimensione nazionale. “Dez” si spegne dopo una lunga battaglia con la sua malattia nel febbraio del 2015 e in sua memoria viene istituita una fondazione: ogni successo conseguito da Hardaway è dedicato alla sua figura e quando East High vince il secondo titolo consecutivo (diventeranno tre in tutto) nel 2016 dominando la stagione con un record di 35-3, si moltiplicano ulteriormente le iniziative per ricordare il suo impegno e il suo importante retaggio.

Nella primavera del 2018 l’agonizzante Memphis State University gli offre la panchina dopo la travagliata esperienza di Tubby Smith. Hardaway raccoglie prontamente l’invito dell’ateneo che lo ha trasformato in un giocatore di grido, una decisione che riaccende improvvisamente i riflettori su un programma afflitto da un grave declino. Il suo lavoro si traduce immediatamente in una rivoluzione che nel giro di un mese consente al college di tornare a fare notizia sulle pagine dei giornali. Penny assembla un grande staff grazie ai suoi importanti contatti nel mondo del basket (uno dei suoi assistenti è Mike Miller) e facendo leva sulla sua aura comincia a reclutare i migliori prospetti disponibili in grande stile. Si presenta a casa dei ragazzi con un pulmino customizzato con il suo logo, un veicolo creato apposta per l’occasione che e’ già diventato celebre. Carico di fascino, di storie e di un promettente presente ottiene la firma di tre talenti indicati nella lista dei migliori 150 giocatori del Paese e non trascura la famiglia grazie all’ingaggio del figlio Jayden. Il suo avvento ravviva la vendita di biglietti che era scesa ai minimi storici e inserisce nuovamente Memphis State nella cartina più importante della NCAA. In una recente conferenza stampa ha reso pubblico il suo obiettivo: convincere nei prossimi anni i migliori cestisti del paese ad accantonare idealmente scuole come Duke e North Carolina per dare vita a un progetto più incisivo e stimolante. Sopra ogni cosa, spera di stabilire un legame di fiducia con le famiglie della città per consentire ai migliori prospetti locali di restare uniti e fare grande Memphis.

Il Re è tornato, lunga vita al Re.

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