È davvero difficile, per chi tifa Philadelphia 76ers e non solo, trovare una prospettiva non inquietante da cui osservare il momento di crisi che stanno vivendo nella città dell’amore fraterno. La classifica ci dice che i Sixers hanno vinto solo tre delle prime sedici partite stagionali, peggio di chiunque in NBA eccetto gli Washington Wizards; e ci racconta anche la sofferenza con cui sono arrivate quelle tre vittorie, tutte contro squadre con record negativo, due delle quali ai supplementari - al netto di nove sconfitte incassate con uno scarto in doppia cifra. La storia della lega ci ricorda invece che, pur essendo solo fine novembre, sono piuttosto rari gli esempi di squadre che pur avendo iniziato così male la regular season sono state poi competitive in primavera (su 105 casi totali: 3 hanno chiuso con un record positivo, 5 si sono qualificate ai playoff con un record negativo e 97 hanno guardato la post-season da casa).
Tutto ciò stride rumorosamente con lo status di contender con cui Joel Embiid e compagni si sono presentati alla stagione 2024/25, facendone tutt’altro che un mistero nelle interviste del Media Day. È un’etichetta che dovrebbe sempre essere il campo a certificare - e finora non lo ha fatto, con tutte le attenuanti del caso - ma che è quasi inevitabile per una franchigia nella posizione dei Sixers. Lo sarebbe per chiunque con uno dei migliori giocatori al mondo nel proprio roster, e al suo fianco due All-Star come Paul George, arrivato in estate con un quadriennale da oltre 200 milioni di dollari, e Tyrese Maxey, il Most Improved Player della passata stagione. I libri paga di Daryl Morey, oltretutto, sono tra i più onerosi della lega (Philadelphia è tra la prima e la seconda soglia delle restrizioni imposte dal nuovo CBA) e il contesto è chiaramente quello di un’organizzazione che vuole e deve dimostrare a Embiid di essere una legittima concorrente per il titolo. E di esserlo ora, dopo sette corse consecutive nei playoff concluse tra primo e secondo turno, e dopo che l’ex MVP ha spento nei mesi scorsi trenta candeline (e trentaquattro Paul George), senza aver mai giocato un minuto nelle Conference Finals.
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“MAI UNA GIOIA”
I big three composti da Embiid, George e Maxey hanno oggi in mano le redini di quel “processo” avviato a Philadelphia una decina d’anni fa e diventato negli anni un endless drama, con stagioni molto divertenti ma anche perennemente deludenti, con sconfitte arrivate in modi spesso frustranti. Viene il mal di testa a pensare a tutte le criticità, le controversie e i problemi di varia natura (siamo in una di quelle franchigie in cui il “varie ed eventuali” è un insieme davvero ampio) che i Sixers hanno attraversato nel recente passato. Ed è con questo brusio di fondo che si affronta la routine NBA in Pennsylvania, con questi trascorsi traumatici alle spalle e tutto lo sconforto di chi ha reso le turbolenze interne all’organizzazione il proprio habitat naturale.
Dal duo storico Embiid-Simmons (drama alert) e i loro fedelissimi (Covington, Saric, Redick), agli arrivi di Jimmy Butler (drama alert) e Tobias Harris; e quindi di Al Horford, Danny Green, James Harden (drama alert), Seth Curry, PJ Tucker, fino al rimpasto dell’estate scorsa. Alla guida delle operazioni, dopo Sam Hinkie si sono seduti alla scrivania Bryan Colangelo (drama alert), Elton Brand e Daryl Morey, con quest’ultimo che - alla propria maniera - ha fatto e disfatto il giocattolo, e adesso probabilmente starà pensando a mille altri modi per intasare le ormai defunte Woj Bombs. In panchina, finita l’era Brett Brown si è passati da Doc Rivers all’attuale head coach Nick Nurse, che cinque anni fa vinceva il titolo a Toronto e viveva anche lui da protagonista quel tiro di Kawhi Leonard, di cui ancora oggi i Sixers (e queste stesse righe) stanno vivendo il butterfly effect. Insomma, è difficile pensare a una fanbase NBA che possa avere familiarità, incarnare e quasi abbracciare l’espressione “mai una gioia” meglio della Sixers Nation, almeno per quanto riguarda le ultime generazioni.
Philadelphia e il suo progetto a lungo termine sono arrivati al momento dell’ora o mai più. ll prime di Embiid non è eterno, meno che mai quello di George, così come il desiderio della superstar di restare a Phila (ormai sappiamo le regole del gioco); e la recente serie di firme ed estensioni al massimo salariale ha legato le sorti dell’organizzazione ai suoi tre migliori giocatori, anche se è proprio qui che sorgono le preoccupazioni intorno a questo roster, nonché le attenuanti per il pessimo inizio di stagione. Intorno ci sono dei giovani - in primis KJ Martin (arrivato nella trade Harden e rifirmato a luglio) e Jared McCain (rookie e grande sorpresa di inizio stagione) - e la batteria di veterani allestita nelle ultime finestre di mercato: Kyle Lowry, Eric Gordon, Caleb Martin, Kelly Oubre Jr, Reggie Jackson, Andre Drummond, Guerschon Yabusele. Una lista di nomi in cui solo l’ultimo arrivato, McCain, rappresenta ad oggi una buona notizia: un’immagine che dice molto di un collettivo senza punti di riferimento, tra infortuni, problemi disciplinari e di leadership, e… sì, varie ed eventuali (eccome, e nel caso non fosse abbastanza).
SIXERS CONTRO IL RESTO DEL MONDO
Come se il 3-13 e i bassifondi della classifica non bastassero, i dati del primo mese di regular season restituiscono una chiara immagine di cosa non abbia funzionato finora a Philadelphia. Ovvero: Philadelphia. L’attacco ha prodotto 106.9 punti ogni 100 possessi (per Cleaning the Glass), terzo peggior offensive rating dell’NBA, in calo di dieci punti netti rispetto all’anno scorso; ha prodotto tanti tiri da tre punti o al ferro (il 74% del totale) ma pessime percentuali (rispettivamente 32.6% e 59.6%), ha corso e segnato poco in transizione, ha avuto uno scarso contributo dalla panchina. La difesa è la diciottesima della lega per efficienza (115.9 punti concessi per 100 possessi), essendo quella che contesta (per distacco) meno tiri a partita e la seconda peggiore per percentuali degli avversari (56.9% di effective field goal).
Tutti questi dati, però, necessitano di una premessa che quasi ne oscura il senso, e cioè che non esistono squadre NBA in grado di funzionare intorno a tre giocatori per cui ogni sera bisogna aprire l’injury report e lanciare una moneta per sapere chi gioca, e chi è infortunato. Insieme hanno messo a referto 22 presenze su 48 totali: 4 per Embiid, a causa della complicata gestione del solito ginocchio sinistro (oltre che per varie ed eventuali), 8 per George (non una novità i suoi infortuni); servono mentre i ripetuti problemi fisici di Maxey sono una novità degli ultimi mesi.
I tre hanno giocato insieme soltanto sei minuti, settimana scorsa, in una di quelle occasioni da “mai una gioia”: la sconfitta sul campo dei Grizzlies, senza Morant, in cui George si è infortunato allo stesso ginocchio (iperstensione) per cui si era dovuto fermare in pre-season, e in cui Maxey ha vissuto la sua peggior serata al tiro da parecchio tempo.
Di sicuro non potevamo aspettarci che questi Sixers, all’inizio dell’opera di costruzione della propria identità dopo i tanti cambiamenti estivi, potessero uscire indenni da tutto ciò. Per quanto aver vinto solo tre partite sia preoccupante, lo è ancora di più l’impressione che il percorso sia arenato a un punto morto, prima ancora di partire. «Possiamo ancora essere competitivi per il titolo», ha detto Embiid in una recente intervista, «ma abbiamo bisogno di tempo: sono sicuro che molti dei nostri problemi derivino dal fatto che non siamo ancora sulla stessa lunghezza d’onda». Philadelphia ha bisogno di tempo, ma quando si deve scalare la classifica dal gradino più basso non ce n’è molto. E di sicuro ce n’è poco anche per tutti i discorsi sulla prevenzione degli infortuni che riguardano lo stesso Embiid, nel terreno poco fertile di un’eventuale rincorsa al play-in e con l’urgenza di trovare nuovi, e soprattutto stabili, equilibri di squadra.
L’exploit nelle ultime partite di Jared McCain, reso possibile dalle assenze in quintetto ma non per questo meno significativo, ha messo in mostra tutte le qualità della sedicesima scelta al Draft 2024. A giugno Daryl Morey ci aveva avvertito, dicendo di aver rinunciato alla possibilità di scambiare la pick, sicuro di pescare con McCain uno dei migliori prospetti in assoluto. Neanche lui, però, si sarebbe aspettato un inizio del genere: «era tra i nostri primi dieci nomi», raccontava dopo il draft, «anche se non sono sicuro che sia quel giocatore già pronto per stare in rotazione». I 24 punti di media con il 62% di True Shooting nelle ultime nove partite sembrano suggerire ampiamente di sì, oltre a fare di McCain l’attuale favorito per il premio di Rookie of the Year. Si tratta davvero dell’unica buona notizia di questi tempi, che porta un’arma in più all’attacco di Nick Nurse. In attesa, di nuovo, di ritrovare le proprie stelle e provare a costruirci qualcosa insieme, nella speranza che quei lanci di moneta vadano bene.
Con l’urgenza di trovare risposte ai problemi e argini alle emergenze, dopo quattro sconfitte consecutive e il blowout incassato dagli Heat, i Sixers all’inizio di settimana scorsa hanno indetto una riunione di squadra con invito riservato soltanto a giocatori e membri più rappresentativi dello staff tecnico. Un confronto che certifica il momento di difficoltà della squadra, ma che non ha nulla di strano; anzi, fa parte della vita delle squadre NBA durante la regular season, «succede abbastanza spesso», come ha spiegato Paul George nell’ultimo episodio del suo podcast. Il problema, piuttosto, riguarda gli effetti indesiderati che ha prodotto chi non era invitato al team meeting, ma ne è stato messo al corrente e ne ha diffuso il contenuto. «Non ho idea di come abbia fatto Shams Charania a ottenere quella storia, come gli sia arrivata», ha commentato PG dopo il report comparso su ESPN, che in pochi minuti ha fatto entrare tutto il mondo nello spogliatoio del Wells Fargo Center. «Soprattutto perché è quasi parola per parola, o comunque delle citazioni dirette. Questa è la parte più assurda. Le persone che erano in quella stanza sono le persone che dovevano essere in quella stanza, quelle che vengono là fuori con noi e con cui siamo in trincea ogni sera. (...) Il fatto che sia trapelato», continua su Podcast P, «in un certo senso vanifica tutto quello che abbiamo detto in quella riunione, la fiducia reciproca di cui abbiamo parlato e la disponibilità di tutti ad avere conversazioni del genere».
L’analisi di George è prevedibilmente molto lucida, e ci dà un’idea dello stato d’animo all’interno di uno spogliatoio che nel tentativo di compattarsi, ha invece aperto un’altra, grossa e non necessaria crepa nelle fondamenta. Come ha detto George, più per il principio che per le parole riportate ai media, che comunque non rafforzano nessuno all’interno dell'organizzazione. «I giocatori hanno detto a coach Nick Nurse che vogliono essere allenati più duramente, e lo staff ha risposto che vuole più disponibilità e attenzione ai dettagli in allenamento» ha scritto Shams Charania, prima di spegnere sul nascere l’idea che gli incarichi di Morey e Nurse possano essere a rischio, e soprattutto prima di raccontare alcune esternazioni di e nei confronti di Embiid. Che anche stavolta, alla fine, è il protagonista (suo malgrado) dell’intera vicenda, non ultimo per la sua reazione al report di ESPN nella conferenza stampa del giorno successivo - «chiunque abbia fatto trapelare questa cosa è un pezzo di merda» - e per la volontà consegnata dall’entourage dell’ex MVP a Marc Stein di “andare attivamente alla ricerca della spia in spogliatoio”. No, non è quello che vorresti sentire in un momento delicato del genere, ma nella squadra di Joel Embiid rientra tutto nell’ordinario.
EMBIID CONTRO IL RESTO DEL MONDO
Come riferito da Charania, durante l’incontro Maxey si è rivolto a Embiid accusandolo di “essere sempre in ritardo per ogni attività di squadra”, e spiegando l’impatto negativo del suo atteggiamento sulla coesione e sulla cultura del gruppo. Il centro ha esposto invece qualche perplessità sullo stile di gioco della squadra, dicendo di “non capire a volte quello che si vuole fare in campo”. È interessante notare che la spinta a responsabilizzare la leadership dell’MVP 2023 sia arrivata dalla giovane voce di Maxey, il compagno di squadra più vicino anche fuori del campo; forse anche per questo l’appello è stato accolto positivamente dal diretto interessato, sia durante il confronto, sia in seguito davanti ai media. «Abbiamo parlato di molte cose e non voglio entrare nei dettagli», ha spiegato il nativo di Yaoundé, «ma l’intera faccenda con Maxey sarà durata forse 30 secondi. Ma d’altronde si tratta di Joel Embiid, no? Si deve sempre gonfiare tutto. A me piace quando le persone dicono se non sto facendo bene e in cosa devo migliorare, e questa cosa dei ritardi è probabilmente accaduta una o due volte quando non stavo giocando. Ma devo essere un esempio perfetto, e lo farò».
Pur essendo abbastanza difficile credere che l’intervento di Maxey sia dovuto a “uno o due” episodi, il nervo che la giovane guardia dei Sixers ha scoperto è ben più ampio. Non è una novità infatti che la credibilità della leadership di Embiid causi dei disagi all’interno dello spogliatoio o venga messa pubblicamente in discussione. Non si deve tornare necessariamente all’addio di Jimmy Butler, può bastare il torbido ritratto offerto dall’insider Yaron Weitzman nel suo libro Tanking to the Top, o tutte le recenti vicissitudini (tra cui la “caccia alla spia” delle ultime ore) che hanno portato lo stesso centro dei Sixers a dire che «per qualche motivo, è come se la negatività continui a seguirmi».
Durante la pre-season, ad esempio, si è discusso molto delle sue dichiarazioni in merito all’intenzione di non giocare nei back-to-back, nei noti schemi di quel load management che l’NBA sta combattendo con determinazione negli ultimi anni, introducendo le norme di Player Participation. Le sue parole del mese scorso di certo non sono state una trovata geniale, se non altro dal punto di vista comunicativo, tant’è che la lega ha anche aperto un’indagine nelle settimane successive e ha combinato una multa all’organizzazione per la scarsa trasparenza nella gestione del suo infortunio al ginocchio. E la vicenda non è finita qui, anzi è detonata quando il Philadelphia Inquirer ha pubblicato di recente un editoriale proprio riguardo alla presenza “part time” di Embiid in squadra.
La penna in questione è quella di Marcus Hayes, che nel suo pezzo ha decisamente passato il segno - va detto - citando scenari familiari non richiesti e fuori luogo all’interno della sua critica all’etica del lavoro di Embiid. La risposta di Joel, d’altro canto, non è stata incoraggiante in tal senso, come testimonia la squalifica per tre partite combinata dall’NBA per le tensioni tra il giocatore e il giornalista che, secondo quanto emerso avrebbero avuto un acceso diverbio nelle facilities dei Sixers, sono culminate con qualche spinta e una intimidazione fisica da parte del giocatore al giornalista. Nel comunicato ufficiale firmato da Joe Dumars, l’NBA ha dichiarato che “il rispetto reciproco è fondamentale nel rapporto tra giocatori e media. Comprendiamo che Joel si sia sentito offeso dalla natura personale della versione originale dell’articolo del giornalista (che nel frattempo ha modificato l’editoriale e chiesto scusa sui social, ndr), ma le interazioni devono rimanere professionali da entrambe le parti e non si può mai arrivare alle mani”.
Quando Nick Nurse raccontava nel Media Day che «con Joel come leader e con il talento di questo gruppo, si possono fare grandi cose» non diceva il falso, anche se non intendeva la prima condizione come un’ipotesi, e di certo non si aspettava un paesaggio tanto desolante dopo un mese di regular season. È vero, davanti ci sono ancora 66 partite per i Sixers, e il tempo stringe ma non manca del tutto nell’attuale Eastern Conference: sembra assurdo, ma il sesto posto è distante meno di cinque vittorie. Ed è vero anche che Embiid ci ha abituato a inizi lenti di stagione, e poi a mesi da candidato MVP; e che valutare la squadra, figurarsi fare previsioni, a prescindere dai lanci di moneta sugli infortuni - che finora sono andati male - trova il tempo che trova.
Allo stesso tempo, è innegabile che tutti i problemi mostrati dai Sixers dovranno pur essere risolti, prima o dopo, se si vuole davvero raddrizzare la stagione; e la sensazione è che Embiid e compagni tendano cronicamente a ingarbugliare la matassa, piuttosto che scioglierne i nodi. Senza interrompere questo loop, sarà difficile tornare a parlare di pallacanestro, vincere qualche partita e riprendere in mano le proprie ambizioni.