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Cinque storie da seguire nel primo turno dei playoff NBA
17 ago 2020
Duelli, sfide, vendette e posti di lavoro che rischiano di saltare nelle prossime due settimane.
(articolo)
13 min
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L'ultimo giro di giostra di Brett Brown a Philadelphia

di Lorenzo Bottini

In principio furono Tony Wroten e Hollis Thompson, e nessuno potè dire granché perché bisognava perdere più partite possibile. Poi furono le stagioni perse da Joel Embiid e Ben Simmons per infortunio, e nessuno storse il naso per i playoff mancati. Poi le uscite al secondo turno contro i Boston Celtics, più esperti e allenati da un predestinato. Infine i quattro maledetti rimbalzi del pallone contro i poi campioni in carica dei Toronto Raptors.

Nei sette anni di Brett Brown a Philadelphia è successo di tutto. È partito con una squadra che doveva perdere scientificamente il maggior numero di partite possibile e ora è deve vincere assolutamente il titolo per salvare la sua panchina. Nel mezzo ha avuto una prima scelta assoluta che ha dimenticato come si gioca a basket, una superstar mai in forma nel momento più importante della stagione, un roster montato e smontato con la velocità di un modellino della Lego, coriandoli che hanno invaso il campo durante una partita di playoff che non avevano vinto, la moglie del general manager beccata a criticare i propri giocatori dietro ad un account falso su Twitter e due assistenti - Monty Williams e Lloyd Pierce - che lo hanno abbandonato per diventare capi allenatori ad altre latitudini.

E nonostante la nave sbandasse pericolosamente, imbarcando sempre più cap space e con le scelte al Draft che venivano gettate in acqua a tribordo ed a babordo, Brown è rimasto sempre fisso al timone, come un capitano di lungo corso. La continuità in panchina ha garantito che i Sixers non saltassero in aria da un momento all’altro, azzardando trade ancora più folli di quelle realizzate sul serio, e ha aiutato Simmons ed Embiid ad arrivare ai piani alti della lega. Allo stesso tempo nessuno in NBA può concedersi così tanto tempo senza ottenere risultati consistenti e Brown, nonostante le molte attenuanti, non ci è andato neanche vicino.

L’ultima stagione tutti assieme? Coi Sixers non si può mai sapere

Soprattutto negli ultimi anni ha fallito nel dare una vera identità alla squadra, al netto dello shakeraggio continuo del roster, e non ha mai distintamente indicato una filosofia di gioco per massimizzare il talento di Embiid e Simmons, provando piuttosto a cambiare gli interpreti attorno alle proprie giovani star sperando prima o poi di trovare l’incastro giusto. Una mancanza di visione che si riflette anche nelle parole con le quali ha presentato in conferenza stampa l’ennesima sfida contro i Boston Celtics ai playoff, prima precisando quanto l’assenza di Simmons si farà sentire in fase difensiva e subito dopo sottolineando invece come senza l’australiano la fase offensiva sarà finalmente limpida nelle priorità. Un assist per tutti quelli che da anni chiedono di dividere la coppia e un’ammissione di responsabilità per non essere riuscito a massimizzare il talento che ha avuto tra le mani.

Dopo un anno che doveva essere trionfale e si è invece trasformato in un incubo, Brown affronta per l’ennesima volta i Boston Celtics, conscio che anche un successo nella serie potrebbe non bastare.


TJ Warren vs Jimmy Butler: rivalries are back!

di Lorenzo Bottini

Ho sempre trovato un certo fascino per le rivalità tra i giocatori minori, non le stelle riconosciute ma gli umili lavoratori NBA. Hanno un sapore più autentico, meno condizionato dalla narrazione della vittoria a ogni costo ma più vicino a un odio strapaesano, una guerra tra contrade che interessa solamente a chi ne è coinvolto. Ovviamente né T.J. Warren né soprattutto Jimmy Butler sono due sconosciuti nella NBA odierna, ma il loro detestarsi è così puro, così genuino che non può riportarci alla grana dei VHS anni ’90. Anche perché sia Warren che Butler in molte cose ricordano i giocatori usciti dagli schermi a tubi catodici, con le loro idiosincrasie e le loro mattonelle lucidate a specchio.

Tutto ha avuto inizio una fredda notte di gennaio, durante il terzo quarto della gara tra i Pacers e gli Heat, con Miami che stava spazzando via Indiana dal proprio campo. Butler riceve un passaggio consegnato da Meyers Leonard e rifiuta il seguente blocco, girando velocemente nella direzione opposta e lasciando sul posto T.J. Warren, che aveva il compito di marcarlo. Quest’ultimo per evitare un canestro facile non può fare altro che afferrare Butler da dietro per il braccio, causando una piroetta che finirà con i due fronte a fronte, mentre non si recitano vicendevolmente i bigliettini dei Baci Perugina. Scatta la solita rissa, con i rispettivi compagni di squadra a separare i due contendenti e gli arbitri che tentano di riportare la calma.

Ed effettivamente è così. Nessuno viene espulso, viene solo assegnata la rimessa agli Heat che tornano immediatamente da Butler marcato da Warren. Perché alla fine non puoi impedire l’inevitabile, al massimo puoi rimandarlo. Così Butler eccede e commette fallo in attacco dando una spallata durissima a Warren in pieno petto, il quale non fa una piega, anzi insegue Jimmy per il campo per applaudirgli in faccia. A quel punto gli arbitri non possono più esimersi dal buttar fuori dal campo l’ala dei Pacers per taunting, imbeccando la reazione di Butler, che manda dei baci al suo avversario appena espulso.

Tutto è cominciato così.

Ovviamente la cosa non poteva finire sul campo, ed infatti Butler subito dopo la partita ha postato su Instagram uno screenshot del calendario con cerchiata la successiva partita contro Indiana, che si sarebbe dovuta giocare a fine marzo. Come ben sappiamo quella partita non si è mai giocata e quando finalmente è arrivato il giorno della rivincita T.J. Warren nel frattempo era diventato il più fiammeggiante realizzatore della bolla.

Una situazione inaccettabile per Butler, che come il Cyrano ha piacere a dispiacere, tornando in campo nonostante avesse saltato le precedenti tre partite con la sola missione di non far segnare Warren. Missione riuscita, visto che l’ala dei Pacers si è fermato a soli 12 punti con 14 tiri, in piena controtendenza con quanto visto a Orlando.

Nella successiva partita tra Pacers e Heat entrambi sono rimasti seduti in panchina, rimandando il nuovo atto ad una succulenta serie di playoff. Ora avranno il modo per risolvere una volta per tutte la loro rivalità, vedendo chi dei due potrà rivendicare il diritto di applaudire l’altro mentre esce mestamente dalla bolla.


Chris Paul, la vendetta è un piatto da gustare freddo

di Dario Vismara

Negli USA la definiscono come “poetic justice”: è poeticamente giusto che, dopo l’acrimonioso addio dell’estate 2019, la storia tra Chris Paul e gli Houston Rockets si risolva in una serie di playoff. CP3 probabilmente non aspettava altro: a 35 anni di età e dopo una stagione in cui ha zittito la narrazione che lo voleva già destinato al viale del tramonto con quel suo contratto mastodontico sulla schiena e i mille acciacchi del suo fisico, ora ha la possibilità di far rimpiangere la scelta di un anno fa Daryl Morey, che pur di cederlo per prendere Russell Westbrook ha dovuto dare svariate prime scelte, come fosse un albatross qualsiasi.

Il biennio di Chris Paul al fianco di James Harden è stato pieno di successi e di contraddizioni. Nessuno quanto loro è andato vicino a eliminare i Golden State Warriors nella versione con Kevin Durant, portandosi sul 3-2 nella serie di finale di conference nel 2018 prima che il bicipite femorale della sua gamba lo tradisse sul più bello. Poi lo scorso anno le cose sono andate decisamente peggio, con Paul che chiedeva a Mike D’Antoni di obbligare Harden a condividere di più il pallone con gli altri e l’ex Baffo che lo guardava come a dire “Pensi davvero che possa farci qualcosa?”.

La faccia di D’Antoni che nemmeno prova a guardarli dice già tutto.

Alla fine tra i tre a pagare è stato Chris Paul, il cui stile di leadership decisamente abrasivo e so-tutto-io aveva reso insostenibile la sua convivenza con Harden. Ma non è tanto il fatto di essere stato ceduto ad aver indispettito Paul, quanto il fatto che pochi giorni prima dello scambio - secondo la sua ricostruzione - gli fosse stato detto da Morey che non sarebbe stato ceduto. Chiaro, lo scorso luglio le cose sono cambiate in fretta quando Paul George ha deciso di lasciare Oklahoma City e Westbrook è improvvisamente diventato disponibile sul mercato, ma per un uomo orgoglioso come CP3 venire meno a un impegno preso in maniera così plateale sarà certamente un ulteriore motivo per vincere questa serie.

Chissà se nei due anni in cui ci ha giocato assieme Paul ha anche trovato il modo di marcare James Harden in uno contro uno e se il piano difensivo ideato da coach Donovan terrà conto delle sue indicazioni. Quest’anno ai Thunder Chris Paul è sembrato un vero e proprio allenatore in campo ancor più di quanto lo sia stato in carriera, guidando una squadra che non aveva diritto di cittadinanza a una serie di playoff tra testa di serie numero 4 e numero 5 con delle concrete possibilità di avanzare, anche perché gli avversari saranno privi (non si sa per quanto tempo) di Russell Westbrook.

Paul ha voluto fortemente creare la bolla di Disney World lavorando a stretto contatto con Adam Silver (in qualità di presidente dell’associazione giocatori) e ora vuole godersi questi playoff fino all’ultimo secondo, con tutte le motivazioni extra del caso. E se c’è un finale punto a punto, state pur certi che quel tiro dal gomito Chris Paul se lo andrà a prendere contro tutto e tutti. Anzi, meglio se contro James Harden.


Luka Doncic contro la miglior difesa per marcare Luka Doncic

di Dario Vismara

Se non siete eccitati all’idea di vedere come se la caverà Luka Doncic ai suoi playoff NBA, allora forse non vi piace la pallacanestro. In questo momento lo sloveno è uno spettacolo di basket straordinario e varrebbe la pena sintonizzarsi per vederlo anche se giocasse contro gli Washington Wizards, figuriamoci se davanti a lui ci sono Kawhi Leonard e Paul George.

Certo, per essere la prima volta a livello NBA gli poteva andare meglio: non esiste probabilmente in tutta la lega una squadra che abbia quel tipo di talento difensivo perimetrale, visto che i Clippers possono far ruotare su Doncic due difensori del calibro di Paul George e Kawhi Leonard con qualche spruzzata di Patrick Beverley e Marcus Morris giusto per andargli sotto pelle. Quarantotto minuti contro quei quattro non sarebbero facili per nessuno, e c’è da scommettere che Doc Rivers darà compito ai suoi di stanarlo nella metà campo difensiva dei Mavericks così da stancarlo il più possibile e caricarlo di falli, specialmente con Leonard che è abituato a bullizzare chi si trova davanti.

Se c’è un difetto di Doncic è la tendenza a frustrarsi troppo durante una partita, specialmente nei confronti degli arbitri quando non vede arrivare fischi a suo favore. Contro una squadra di veterani come i Clippers potrebbero non arrivare e lo sloveno dovrà essere intelligente nel non perdere la testa quando le cose non andranno dalla sua parte, oltre a mantenere la lucidità per giocarsi meglio i finali di gara rispetto a questa tremenda stagione.

Le partite della regular season ci hanno detto che Doncic è comunque in grado di mettere i suoi punti a referto (29 di media), ma non è sicuro che riuscirà a creare lo stesso tipo di vantaggio a cui i suoi compagni sono abituati per segnare triple aperte. E senza Doncic che crea vantaggi per tutti, anche il miglior attacco della storia della NBA può essere disinnescato.

La qualità degli avversari rende improbo il compito di Doncic (nessuno si aspetta davvero che Dallas vinca contro i Clippers, siamo seri), eppure c’è qualcosa di così speciale in quelle mani e in quella testa da portarti a credere che una soluzione sia in grado di trovarla, che non esista problema troppo difficile da risolvere per uno come lui. È ingiusto chiedergli a 21 anni di essere già ora uno in grado di rendere la sua squadra una contender, e anzi sarebbe normale vederlo in difficoltà o uscire con le ossa rotte da questa serie contro un avversario di quel livello. Eppure andateci voi a scommettere contro uno così.


Gobert vs Jokic, scontro di stili

di Lorenzo Bottini

Rudy Gobert e Nikola Jokic non potrebbero essere più diversi l’uno dall’altro. Uno secco e lunghissimo, l’altro pieno e dolcissimo: sono agli estremi opposti della biodiversità dei lunghi possibili nella NBA contemporanea. Ma entrambi sono di scuola europea - nonostante le personali storie di formazione - ed entrambi sono capaci di forgiare l’identità delle proprie squadre con il loro talento unico. Gobert trasformando i quattro giocatori che lo circondano in una muraglia impenetrabile nel momento esatto nel quale scende in campo, anche in una stagione in cui Utah ha faticato a mantenere la consueta efficienza difensiva. Con lui sul parquet i Jazz hanno un differenziale positivo strepitoso (+12.6) rispetto a quando siede in panchina, specialmente perché concede 8 punti in meno agli attacchi avversari su 100 possessi.

Jokic invece è un direttore d’orchestra capace di far suonare ogni esecuzione in attacco come se si giocasse in un auditorium. Tutto l’attacco di Denver (quinta per rating offensivo in questa stagione con 112.6 su 100 possessi) gira attorno alla sensibilità dei suoi polpastrelli e la creatività del suo software (+5.1 punti per 100 possessi quando è in campo). In un certo modo si completano a vicenda, ognuno dominante a proprio modo su una metà campo, e per questo sono due duellanti perfetti. I pregi dell’uno vanno a coincidere perfettamente con i pregi dell’altro e i difetti dell’uno vengono mitigati dai difetti dell’altro.

Jazz e Nuggets si sono incontrati tre volte quest’anno durante la stagione regolare, due volte prima dello stop e una nella bolla di Orlando. Tutte e tre le volte Denver è emersa vincitrice in partite decise da due possessi o meno. L’ultima sfida è stata una delle più divertenti tra quelle viste finora a Disney World, con due overtime e tiri pazzi da una parte e dall’altra. Nel primo tempo Gobert ha messo la museruola a Jokic, limitandolo a soli due punti e a 4 conclusioni dal campo, con Utah che ha chiuso il parziale avanti in doppia cifra. Poi nel secondo tempo Denver è tornata forte, grazie al solito tandem Jokic-Murray, autori di 33 dei 56 punti con i quali la squadra di Malone ha forzato l’overtime. Lì Jokic è riuscito a far spendere il sesto fallo a Gobert svitandosi come un cavatappi tra i tentacoli del francese e nel possesso successivo ha sfruttato l’assenza del miglior difensore in NBA per impattare nuovamente l’incontro.

Sette partite di questo? Sì grazie

Nel secondo supplementare, senza nessuno a presidiare l’area pitturata, Denver ha avuto gioco facile a portarsi a casa il terzo successo contro la franchigia di Salt Lake City. Sui 103 minuti stagionali nei quali Gobert e Jokic sono stati in campo insieme Utah l’ha spuntata per soli 3 punti, un dato che invece diventa drammatico quando Gobert è in panchina e Jokic può sbizzarrirsi liberamente (+18 in 13 minuti). Il francese è fondamentale per limitare la prima fonte di gioco dei Nuggets e allo stesso tempo non può limitarsi a essere uno spettatore in attacco, specie contro una delle difese più permissive della bolla (peggior rating difensivo tra le 22 squadre presenti). Dall’altro lato del campo Jokic dovrà stanare Gobert portandolo lontano dal canestro, dove è meno efficace ed è stato spesso messo in difficoltà nei playoff, usando il suo tiro da fuori e l’abilità come bloccante nel pick and roll giocato con Jamal Murray.

Arrivati ad Orlando dopo aver contratto nei modi più assurdi il COVID-19, due dei lunghi più atipici dell’NBA sono pronti a dar vita ad una delle delle serie più intriganti di questo primo turno di playoff tra due squadre che a Orlando cercano la definitiva consacrazione.




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