Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Ogni squadra eliminata è infelice a modo suo
29 apr 2022
Sette modi diversi di finire la stagione per le sette squadre eliminate dai playoff.
(articolo)
15 min
Dark mode
(ON)

Prendendo in prestito l’incipit di Anna Karenina dall’amico Lev Tolstoj: tutte le squadre NBA che passano il primo turno ai playoff si assomigliano fra loro, ogni squadra NBA eliminata ai playoff è infelice a suo modo. Raggiungere il primo turno della post-season è sempre un risultato di per sé: in una lega che divide quasi a metà chi partecipa ai playoff e chi no, potersi considerare comunque una “squadra da playoff” è sempre meglio rispetto a essere una “squadra da Lottery”, specialmente agli occhi dei free agent. Ma il modo in cui si è conclusa la stagione 2021-22 è stato diverso per ciascuna delle sette squadre finora eliminate dai playoff, mettendo davanti a loro un’estate di riflessioni e pensieri.

Il disastro dei Brooklyn Nets

Solamente una squadra non è riuscita a vincere neanche una partita di playoff, ma è la stessa che ha perso la sua serie per un totale combinato di appena 18 punti. I Brooklyn Nets escono da questa stagione invecchiati di almeno cinque anni: neanche i Los Angeles Lakers hanno avuto così tanti drammi da dover affrontare, da Kyrie Irving a James Harden agli infortuni fino a Ben Simmons. Uno solo di questi eventi avrebbe contrassegnato la stagione di qualsiasi squadra, i Nets li hanno avuti tutti assieme nello spazio di sei mesi.

Il modo in cui Ben Simmons si è tirato fuori da gara-4 dopo aver passato settimane a dire internamente ed esternamente che sarebbe tornato per quella partita è stata la ciliegina di una stagione nata con enormi aspettative, continuata con gigantesche delusioni e conclusa come una farsa. Le ultime due stagioni di Brooklyn sono materiale da libri che certamente verranno scritti nei prossimi anni, specie se la loro epopea dovesse concludersi senza neanche andare vicini a vincere un titolo NBA; e la serie contro Boston ha esposto una lunga serie di contraddizioni che poco a poco sono venute a galla.

Al netto di quello che la difesa di Boston ha fatto con Kevin Durant, nella propria metà campo i Nets sono sembrati incapaci di opporsi a Jayson Tatum e Jaylen Brown, che hanno potuto scegliersi il mismatch preferito da un menù lunghissimo e sempre a disposizione. Chiaro che gli infortuni di Joe Harris e Ben Simmons hanno tolto quantomeno due corpi in grado di portare centimetri e stazza alla causa, ma il roster di Brooklyn è finito per essere spezzato in due tronconi: da una parte una serie di guardie sottodimensionate (Irving, Seth Curry, Patty Mills, Goran Dragic), dall’altra lunghi monodimensionali (Andre Drummond, Nic Claxton, Blake Griffin) e in mezzo Durant chiamato ad arrangiarsi con Bruce Brown per tappare buchi un po’ ovunque. Per un roster che costa quasi 175 milioni di dollari (luxury tax esclusa), le falle erano davvero ovunque e coach Steve Nash — al netto delle attenuanti generiche che vanno per forza concesse dato tutto quello che è successo quest’anno e il materiale umano a disposizione — non è sembrato un allenatore in grado di dare forma coerente al gruppo a disposizione.

Il risultato è un fallimento che comunque non può passare sotto silenzio. Anche se alla fine i Nets hanno perfino tirato meglio dei Celtics nel corso della serie, la differenza di consistenza tra le due squadre è risultata fin troppo evidente più si è andati avanti di partita in partita, arrivando a essere eliminati in gara-4 senza neanche Tatum in campo, complice l’uscita per falli. In definitiva, si è vista la differenza tra una franchigia che ha portato avanti un progetto tecnico coerente e un’altra che invece ha cercato di cavalcare le onde che l’hanno spintonata, uscendone però sommersa. E non è nemmeno così facile uscirne, in una Eastern Conference che è decisamente migliorata attorno ai Nets, che si affacciano alla prossima stagione con più domande che certezze.


La scomparsa di Trae Young dagli Atlanta Hawks

Un anno dopo aver raggiunto le finali di conference, gli Atlanta Hawks si sono ritrovati a fare i conti con la realtà di una cavalcata che è stata più episodica che razionale. Il modo in cui Miami ha dominato la serie, lasciando di fatto solamente un quarto (l’ultimo di gara-4 in cui erano avanti di 14) su cinque partite, è stato un chiaro ed evidente bagno di umiltà per una franchigia che a inizio anno si lamentava perché nessuno li considerava come contender per il titolo.

Certamente anche nel loro caso hanno pesato gli infortuni (John Collins e Clint Capela erano lontanissimi dalle migliori condizioni fisiche e Bogdan Bogdanovic non era nemmeno in grado di scendere in campo dopo gara-4), ma quello che più lascia perplessi della serie contro gli Heat è il modo in cui Trae Young è sembrato disinteressarsi delle sorti della sua squadra. Dopo una stagione in cui ha concluso con il quarto Usage Rate più alto della lega (oltre il 33%, solo Embiid, Doncic e Antetokounmpo hanno usato più possessi di lui), nelle cinque partite contro Miami è precipitato al 27.7%, battendo a malapena Danilo Gallinari (25.6% contro 25%) nella gara-5 persa contro degli Heat privi di Jimmy Butler e Kyle Lowry.

In più di un’occasione Young è sembrato buttare il pallone in direzione del ferro per pura disperazione, senza sapere più cosa fare per spezzare la difesa. E stiamo parlando di un attaccante capace di terrorizzare le difese di Charlotte e Cleveland non più tardi di due settimane fa al play-in.

Prima dell’inizio della sua carriera in NBA era legittimo chiedersi come avrebbe fatto un playmaker di quelle dimensioni a sopravvivere contro gli squali che dominano i playoff a caccia dei pesci più piccoli da fagocitare. La post-season dello scorso anno però aveva sorprendentemente dato esito opposto, con Young capace non solo di sopravvivere, ma anche di dominare in molti frangenti delle partite. Invece Miami ha riportato indietro l’orologio e lo ha distrutto mentalmente ancor prima che fisicamente o tatticamente, portandolo a una sorta di abulia (meno di 13 tiri tentati di media nella serie) davvero difficile da spiegare. Per un giocatore che nell’ultimo anno si è giustamente vantato di essere «costruito per i playoff», il modo in cui Miami gli ha impedito anche solo di mettere piede in area e il modo in cui lo ha ossessivamente puntato in difesa è stato un triste ritorno alla realtà.

Secondo quanto scritto da The Athletic, Young ha finito la partita senza neanche seguire l’ultima rimessa disegnata da coach Nate McMillan per pareggiare gara-5, perso nei suoi pensieri in panchina con lo sguardo fisso davanti a sé mentre i suoi compagni erano intenti ad osservare ciò che stava disegnando il coach. E la sensazione di disconnessione dai suoi compagni è stata evidente per tutta la serie, con un atteggiamento irritante e sinceramente ingiustificabile per uno che dovrebbe essere il leader della franchigia. Ha ancora davanti a sé tutto il tempo per crescere dal punto di vista individuale e di squadra, ma la serie contro Miami rappresenta comunque un punto di svolta per il modo in cui bisogna approcciare ogni discorso su di lui — caratterialmente prima ancora che tecnicamente o tatticamente.


Il limite raggiunto dai Chicago Bulls

Arrivati a un certo punto, c’è un limite a quello che si può fare se non si hanno a disposizione i propri migliori giocatori. Contro una squadra del livello dei campioni in carica dei Milwaukee Bucks (pur senza Khris Middleton da gara-2 in poi), i Chicago Bulls si sono ritrovati con troppi pochi giocatori a disposizione per potersela davvero giocare, dovendo fare a meno anche di Zach LaVine (Covid) e Alex Caruso (commozione cerebrale) oltre a Lonzo Ball che non è più tornato in campo dopo la metà di gennaio.

Pur essendosi conclusa con una delusione, a differenza delle altre due squadre eliminate a Est di cui sopra, il bilancio dei Bulls rimane comunque positivo. Per diverse settimane sono stati anche in vetta alla Eastern Conference e hanno mascherato il più possibile il minus di dover schierare in quintetto un cattivo difensore come Nikola Vucevic, il cui rendimento offensivo è ormai sceso in maniera tale da rendere difficile giustificarne contratto e ruolo nelle gerarchie della squadra. Ma aver riportato i playoff nella Windy City dopo quattro anni in cui si veleggiava tra le 22 e le 31 vittorie è un risultato tutt’altro che scontato, e gli infortuni che in un modo o nell’altro hanno colpito tutti i membri di un roster corto come quello a disposizione di Billy Donovan rappresentano comunque un alibi non indifferente.

Rimane comunque difficile immaginarsi come possa davvero migliorare questa squadra, se non sperando di avere maggiore salute rispetto agli avversari. Zach LaVine va riconfermato con un contratto adeguato allo status che ha raggiunto nella lega (quello di un perenne All-Star, anche se solo le prossime stagioni del suo prime ci diranno davvero quanto “sposta” la sua presenza), anche perché non c’è modo di sostituirlo, e la coppia Caruso-Ball dovrebbe essere in grado di reggere difensivamente sul perimetro per rendere sostenibili tutti gli altri, anche se è una richiesta piuttosto alta per due giocatori che non fanno della solidità fisica il loro punto di forza. Lo scenario più probabile è che i Bulls ritentino la fortuna con questo roster pressoché intatto, ma al termine della prossima stagione — quando DeRozan sarà vicino ai 34 anni e, soprattutto, alla scadenza del suo contratto nel 2024 — bisognerà fare altri ragionamenti perché non sembra esserci abbastanza talento per puntare alle finali di conference o al titolo NBA.


Arrivederci al prossimo anno, Denver Nuggets

Chi invece avrebbe sulla carta il talento per poter dire la sua contro chiunque è Denver, che ha vissuto una stagione nel limbo e altrettanto nel limbo si affaccia alla prossima stagione. Le assenze di Jamal Murray e Michael Porter Jr. hanno evidentemente messo un tetto a quello che i Nuggets potevano fare nella metà campo offensiva, aggrappandosi alle spalle gigantesche di Nikola Jokic per sopravvivere e avanzare il più possibile. Golden State ha fatto loro quello che ci si poteva attendere e Jokic ha portato la squadra al risultato più prevedibile, con una più o meno onorevole eliminazione in cinque partite sparando tutte le cartucce che aveva (31 punti, 13.2 rimbalzi e 5.8 assist di media con il 57% dal campo, praticamente confermando il suo celestiale rendimento della regular season anche contro una squadra del livello degli Warriors).

Tutte quelle cifre lì e poi anche il consiglio decisivo per vincere gara-4.

Quello che bisogna chiedersi però è se bastino i ritorni di Murray e Porter per considerarli davvero una contender per il titolo. Nessuno dei due, infatti, offre garanzie dal punto di vista fisico e soprattutto difensivo: anche ammettendo che possano tornare ai livelli visti pre-infortunio (e nel caso di MPJ è tutto da vedere, perché i problemi alla schiena lo accompagnano sin dal liceo), nessuno dei due è però un difensore in grado di fare la differenza in un’eventuale rematch contro gli Warriors di Steph Curry, Klay Thompson e Jordan Poole. I problemi avuti da Jokic contro tiratori dal palleggio del calibro di quei tre si ripresenteranno uguali anche con gli altri due “max contract” a disposizione: il focus della dirigenza di Denver deve essere quello di trovare ali in grado di tenere il campo in attacco e in difesa e di trovare un’alternativa a Jokic che sia in grado di dare una dimensione diversa dal punto di vista difensivo, e di sicuro la risposta non può essere DeMarcus Cousins anche nel 2023.

In ogni caso, la prossima stagione sarà quella che davvero ci darà una dimensione del progetto Nuggets negli anni migliori di Jokic: sprecare il prime di un futuro Hall of Famer e non tornare alle finali di conference come successo nella bolla di Orlando sarebbe un delitto, ma considerando che i prossimi sei anni sono già assicurati dall’estensione che firmerà in estate, si può guardare al futuro con ottimismo.


Neanche gli Utah Jazz si sopportavano più

La squadra che forse esce peggio da questi playoff sono gli Utah Jazz, banalmente perché dovrebbe essere stata l’ultima volta che li vediamo con questa strutturazione. Già in regular season si erano viste tutte le crepe nei rapporti interpersonali di una squadra che ha mostrato sempre meno voglia di rimanere assieme e di combattere davvero per tenere viva la possibilità di raggiungere il titolo. E pur trovando qualche momento di orgoglio in gara-4 (quel 5-0 di parziale negli ultimi 40 secondi ha rimandato quello che comunque si è rivelato inevitabile) e in gara-6 (rimontando dopo un pessimo terzo quarto e mettendo nelle mani di Bojan Bogdanovic la tripla della vittoria sulla sirena), alla fine neanche i Jazz si sopportavano più tra di loro, in primis nel rapporto in campo tra Donovan Mitchell e Rudy Gobert, ma anche con Gobert e il resto della squadra in generale.

I prossimi Jazz saranno inevitabilmente molto diversi da questi. Quasi certamente ci sarà una nuova guida tecnica, visto che Quin Snyder è già stato accostato più o meno a tutte le panchine libere attualmente in NBA, ma anche dal punto di vista del roster nessuno può ritenersi al sicuro, a partire da Gobert – il cui destino è più legato a quello che il mercato avrà intenzione di offrire che non alle intenzioni della dirigenza dei Jazz (che ha cambiato uomo di riferimento mettendo Danny Ainge a capo di tutto) di costruire di nuovo attorno a lui. Molto dipenderà anche da Donovan Mitchell, sulle cui intenzioni future aleggiano nuvole oscure ormai da diverso tempo, dando per scontato un suo addio prima o poi: bisognerà vedere se i Jazz vorranno essere proattivi, quindi cedendolo ora che con tre anni rimanenti sul contratto può avere ancora un certo valore in sede di scambio, oppure se vorranno cambiare tutto attorno a lui, cercando di convincerlo di poter vincere un titolo nello Utah.

Sempre considerando che poi Mitchell sia il giocatore in grado di portarti fino al titolo NBA, cosa che in questa stagione sicuramente non ha dimostrato di essere, con un atteggiamento a tratti “da compitino” per cercare di ricevere il minor numero di critiche possibili sulle sue prestazioni. Ma il suo deterioramento nella metà campo difensiva non depone a favore delle sue doti di leadership, così come i rapporti con i suoi compagni di squadra.


New Orleans ha trovato il supporting cast

Nessuno avrebbe fatto una colpa ai Pelicans se avessero deciso di “dare su” questa stagione dopo il pessimo inizio da una vittoria e 12 sconfitte in regular season e l’infinita querelle attorno alle condizioni fisiche di Zion Williamson. Eppure in questa stagione e soprattutto in questa post-season (play-in e playoff assieme) i Pelicans hanno scoperto più su loro stessi di quanto avessero fatto negli anni precedenti. Brandon Ingram è salito ulteriormente di livello ed è uno di quegli esterni su cui poter costruire il proprio attacco; CJ McCollum, pur non giocando una serie scintillante contro Phoenix (sotto il 40% dal campo), si è comunque calato con successo nel ruolo di veterano saggio; Jonas Valanciunas ha dato comunque il suo contributo specialmente a rimbalzo d’attacco, viaggiando a 5.5 di media nella serie coi Suns.

Chris Paul ha dovuto tirare fuori una prestazione mai vista prima nella storia della NBA per eliminarli.

Ma è soprattutto dai tre rookie Herb Jones, Trey Murphy e Jose Alvarado che New Orleans ha ricevuto le indicazioni più incoraggianti in vista del futuro, trovando tre comprimari giovani e a costo controllato che possono tornare decisamente comodi attorno a Ingram, McCollum e (si spera) Zion Williamson. Tutti e tre hanno dimostrato di poter tenere il campo anche contro una candidata al titolo come Phoenix (sempre al netto dell’infortunio di Devin Booker) e, se confermeranno le loro crescite anche nella prossima stagione, i Pelicans si candidano a uno dei primi sei posti nella Western Conference senza passare dal play-in.

L’estate porterà con sé una decisione definitiva su Zion Williamson: non sembra in dubbio che i Pelicans gli offriranno un massimo salariale, ma bisognerà vedere che tipo di garanzie vorranno dal punto di vista fisico (con un contratto simil-Embiid per proteggersi in caso di ripetuti infortuni) e soprattutto quali sono le reali intenzioni di Williamson, in primis sull’atteggiamento che vorrà tenere nei confronti di città, franchigia e compagni di squadra. I Pelicans hanno dimostrato di poter andare bene anche senza Zion; ora sta a Zion dimostrare che con lui in campo possano andare molto più su di così.


Toronto non ha niente da imputarsi

Forse solamente Toronto esce da questo primo turno con la testa più alta di New Orleans. I Raptors hanno rimesso in piedi una serie in cui non avevano diritto di cittadinanza dopo le tre sconfitte iniziali, hanno dovuto fare a meno a inizio serie del rookie dell’anno Scottie Barnes, hanno messo in campo un Gary Trent Jr. in condizioni precarie nelle prime due partite della serie e Fred VanVleet ha dovuto alzare bandiera bianca con un ginocchio che non ne voleva sapere di collaborare. Ciò nonostante sono riusciti a far sudare freddo una squadra decisamente più talentuosa come Philadelphia giocando una pallacanestro unica nel suo genere, un esperimento tattico come non se ne vedono poi tanti in giro per la NBA.

Certo, alla fine si sono schiantati contro i loro evidenti limiti di talento – specialmente nel tiro perimetrale: 7/35 da tre punti in gara-6 permettendo ai Sixers di schierarsi anche a zona – e contro un accoppiamento come quello di Joel Embiid decisamente difficile da digerire per come sono strutturati, data la mancanza di un lungo che potesse pareggiarne anche solo i chili. Ma dopo il titolo vinto nel 2019 e l’addio di un caposaldo della franchigia come Kyle Lowry i Raptors possono guardare di nuovo con ottimismo verso il futuro, avendo ritrovato una versione molto vicina al miglior Pascal Siakam e con un Barnes che può solo migliorare rispetto a quanto fatto vedere nella sua prima stagione in NBA.

Rimane una stagione ampiamente positiva avendo vinto 48 partite di regular season, forse la squadra più rappresentativa di una Eastern Conference decisamente più forte rispetto a quello che pensavamo. Delle sette squadre eliminate finora, è quella che ha meno da imputarsi per come si è conclusa la stagione.




Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura