I playoff della NBA sono cominciati da neanche una settimana, eppure ci sono già più cose di cui poter parlare di quante ce ne saremmo potute immaginare. Nelle quattro serie in cui si sono giocate tre partite c’è stata almeno una vittoria in trasferta, e in due delle altre quattro abbiamo già visto due fattori campo saltati prima ancora di gara-3. Ci sono stati buzzer beater e quasi buzzer beater, tattiche difensive eccellenti, attacchi soverchianti, serie che pensavamo fossero chiuse che si sono aperte (anche per via degli infortuni) e serie che pensavamo aperte che invece si sono già praticamente concluse. Proviamo allora a mettere in fila dieci considerazioni su quanto visto nelle prime 20 gare di post-season della stagione 2021-22.
Boston ha inventato le “Durant Rules”
Le due partite tra Boston e Brooklyn sono state le più combattute e le più interessanti fino a questo momento, considerando il livello di gioco espresso dai protagonisti in campo, il contorno del TD Garden e la drammaticità di diversi momenti sparsi lungo i primi 96 minuti di gioco. La storia di questa serie però fino a questo momento è il modo in cui la difesa dei Celtics è riuscita a difendere contro Kevin Durant, costringendolo forse alle due prestazioni consecutive peggiori della sua intera carriera.
Per la prima volta da quando è tornato KD è sembrato un quasi 34enne con oltre 40.000 minuti e una rottura del tendine d’Achille alle spalle, finendo per essere sfiancato dalla difesa dei Celtics che non gli ha lasciato un centimetro di spazio. Il piano partita che hanno preparato per lui sembra una rivisitazione delle “Jordan Rules” dei Detroit Pistons negli anni ’80 contro Michael Jordan, e si basano più o meno su questi principi:
Quando comincia a muoversi lontano dalla palla, tiragli una botta.
Se ha la palla ferma, inizia a pre-raddoppiare anche dall’uomo a un passaggio di distanza. Non deve avere mai la visuale libera per una linea di penetrazione. Se segna il rollante, chiunque sia, fallo concludere al ferro: qualcuno arriverà a contestarlo dal lato debole.
Quando mette palla per terra, subito un uomo addosso per rendergli difficile ogni palleggio.
Se mette piede in area, una mano deve andare a cercargli il pallone: buona parte delle sue 12 palle perse nelle prime due partite è arrivata così.
Se si alza per tirare dal mid-range, una mano deve essere in posizione sul fianco destro, il lato da cui fa salire il pallone per il tiro cercando di sporcargli il più possibile la meccanica.
Nel dubbio, picchialo e fallo stancare. A fine partita finirà per avere la lingua di fuori, anche perché negli ultimi due mesi ha giocato meno di 35 minuti solo in due occasioni.
Ovviamente è più facile a scriversi che a farsi, e ci vuole una squadra dal talento difensivo speciale come quello di questi Celtics per eseguire alla perfezione un piano partita del genere contro un attaccante del livello di KD, che nelle poche volte in cui l’esecuzione di Boston non è stata del livello richiesto li ha comunque fatti pagare. Il risultato però sono stati 83 minuti in cui Durant non solo ha tirato poco (appena 20.5 tiri tentati di media) ma soprattutto ha tirato male (13/41 di cui 2/7 da tre punti), in particolare nel secondo tempo di gara-2 in cui ha chiuso con uno 0/10 già passato alla storia. In compenso almeno nella seconda partita è riuscito a ottenere i viaggi in lunetta (18/20) che hanno raddrizzato un po’ le sue cifre, ma comunque i Celtics stanno avendo il meglio di entrambi i mondi: tenere Durant sotto i 30 punti e non fargli superare i 5 assist.
Continuerà sempre così? Improbabile: un po’ per il livello che Durant inevitabilmente alzerà nelle due partite in casa e un po’ perché è difficile essere sempre così concentrati e attivi, specie lontano dai propri tifosi che ti spingono ad andare anche oltre i limiti. Ma le prime due partite di Boston sono state un clinic a livello difensivo, in particolare da parte di Jayson Tatum chiamato a uno sforzo sovraumano per marcare Durant in difesa e farne 30 decisivi in attacco.
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Un bel breakdown del lavoro di Boston su KD. Una statua per Al Horford sarebbe cosa buona e giusta.
Il “Poole Party” dei Golden State Warriors
Prima dell’inizio dei playoff, anche Steve Kerr aveva ammesso che non sapeva cosa aspettarsi da Jordan Poole in post-season: «Ha dimostrato di essere un realizzatore letale, ma non ha ancora provato sulla sua pelle gli aggiustamenti dei playoff, gli avversari che lo vanno a stanare difensivamente. Sarà una grande esperienza per lui». Il sottotitolo era: non sorprendetevi se il suo rendimento calerà una volta cominciata la post-season e vedrà molti meno minuti. Ma almeno per le prime tre partite della serie contro Denver è andata esattamente al contrario: Poole ha giocato talmente bene da far nascere il pensiero assurdo che Steph Curry possa anche tranquillamente continuare a uscire dalla panchina per questa squadra, tanto a far girare l’attacco ci pensa lui.
Il modo in cui gli Warriors hanno maltrattato i Nuggets nelle prime due gare della serie è stato al limite dell’accanimento cestistico, un trattamento che Golden State era abituata a riservare agli avversari quando in campo c’era Kevin Durant. Ora invece è nata una nuova versione del Death Lineup, quella che al fianco dei tre padri fondatori Curry-Thompson-Green vede Poole e Andrew Wiggins: nei 23 minuti che hanno giocato insieme il differenziale su 100 possessi è stato di +36.8, con un rating offensivo astronomico di 142.6 e uno difensivo eccellente di 105.8.
Se c’è una squadra di stare in campo difensivamente con quel quintetto e capace di punire le mancanze difensive perimetrali di quei 5 giocatori insieme, di sicuro non sono questi Nuggets. Tre tiratori dal palleggio del livello di Curry, Thompson e Poole sono indigesti per chiunque, ma in particolare per una squadra che comunque ha poco talento difensivo perimetrale, poca abitudine a inseguire un movimento così incessante degli avversari (ma non ce l’ha nessuno, perché nessuno nella NBA gioca come Golden State) e un centro che non è a suo agio a uscire a 8 metri dal canestro come Jokic (ma anche qui, quanti ce ne sono in giro per la lega?). In ogni caso, le tre vittorie con cui gli Warriors hanno aperto questi playoff fanno giustamente spavento a tutti.
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Ah giusto, dimenticavo: Peak Draymond Green is back.
Le finaliste dello scorso anno sono nei guai
Interessati come eravamo dagli altri accoppiamenti del primo turno, probabilmente avevamo un po’ tutti sottovalutato le possibilità di New Orleans e di Chicago di mettere in difficoltà le due finaliste dello scorso anno, Phoenix e Milwaukee. Ma entrambe le serie hanno avuto un andamento simile: dopo un primo tempo di gara-1 che le due favorite al rematch delle Finals hanno sostanzialmente controllato, dal secondo tempo in poi l’inerzia della serie è andata molto più dalla parte delle squadre in trasferta, capaci di vincere abbastanza nettamente i successivi 72 minuti e, soprattutto, di portarsi sull’1-1.
Perdere una gara-2 in casa per disattenzione non è la fine del mondo, ma a rendere decisamente più complicato il percorso presente e futuro di Suns e Bucks ci si sono messi gli infortuni di Devin Booker e Khris Middleton, potenzialmente due macigni per le loro speranze ai playoff. Il miglior giocatore di Phoenix rimarrà fuori dalle due alle tre settimane, ma si è procurato un infortunio al bicipite femorale che ha un’alta possibilità di recidiva e con cui si trova ciclicamente a fare i conti, come capitato già un paio di volte tra la fine della passata stagione (anche alle Finals, per quanto non ci sia stato detto) e questa regular season. L’esterno dei Bucks invece ha rimediato un problema al legamento collaterale del ginocchio e rischia di rimanere fuori ancora più a lungo, saltando come minimo il resto della serie contro i Chicago Bulls e — ancor più importante — l’eventuale inizio di quella di secondo turno contro i Boston Celtics o i Brooklyn Nets.
Anche senza due cardini del genere sia Suns che Bucks rimangono favorite per passare il turno, ma il loro attacco a metà campo risentirà molto delle assenze, come si è già visto nelle prime due partite del primo turno, nelle quali nessuna delle due è stata particolarmente brillante — specialmente nella metà campo difensiva, con una prestazione dei Suns in transizione semplicemente incommentabile. E ora entrambe dovranno andare a riprendersi il fattore campo in trasferta per raddrizzare delle serie che forse si immaginavano più semplici.
Joel Embiid se ne frega dei vostri pronostici
In tanti (compreso il sottoscritto) pensavano che tra Philadelphia e Toronto ci fosse come minimo un’alta possibilità di una serie lunga, se non proprio di un upset da parte dei canadesi ai danni dei Sixers. Invece nelle prime due gare la serie non è neanche cominciata, e anche in gara-3 la squadra di Doc Rivers è riuscita a vincere nonostante una brutta prestazione (è stata in vantaggio per la prima volta dopo 50 minuti di partita!), facendo girare a proprio favore tutti gli episodi più importanti, a partire dal canestro della vittoria di Joel Embiid a meno di un secondo dalla fine dell’overtime.
Se non ci fosse stato il canestro di Tatum contro Boston, sarebbe già di diritto il tiro più importante della prima settimana di playoff. Resta comunque assurdo che un essere umano di quelle dimensioni abbia anche quella coordinazione da guardia per ricevere, girarsi e tirare.
Embiid ha preso tutti i pronostici che vedevano i Sixers perdenti e ne ha fatto carta straccia nel giro di tre partite. Forse avevamo sottovalutato il fatto che una serie contro Philadelphia cominci e finisca innanzitutto da chi marca Embiid, e i Raptors — per quanto piegati dagli infortuni di Scottie Barnes e altri problemi fisici qua e là — non hanno nessuno da mettergli addosso. Peraltro Embiid è tornato a spegnere Pascal Siakam come nei playoff del 2019, dominando sui due lati del campo come ci si aspetta da un candidato MVP del suo calibro.
Trae Young non ha mai visto una squadra come gli Heat
Arrivato alle partite numero 19 e 20 della sua carriera in post-season (aggiungendo le due del torneo play-in di quest’anno alle 16 della cavalcata playoff della passata stagione), forse è arrivato il momento in cui una squadra è riuscita a esporre tutte le mancanze di Trae Young in termini di chili e centimetri. Il modo in cui la difesa di Miami ha maltrattato la stella di Atlanta nelle prime due partite è stato pari o anche superiore a quello che ha fatto Boston con Durant, tenendolo a meno di 17 punti di media con il 34% dal campo il 12% da tre punti (2/17!) e soprattutto 16 palle perse nelle prime due gare (nessuno male quanto lui nei playoff), mandandolo un lunetta appena 11 volte in due partite.
Considerando il modo in cui Young aveva smantellato le difese di Charlotte e Cleveland nel play-in, si capisce il livello a cui sta giocando Miami nella metà campo difensiva, facendolo sembrare un bambino in mezzo agli adulti e frustrandolo a tal punto da portarlo a sparacchiare da 9 metri pur di non dover mettere palla per terra contro i cagnacci degli Heat. Quando Young faceva uscire il pallone dai raddoppi, gli Hawks si trovavano praterie da poter attaccare; ora la difesa di Miami chiude ogni spazio in poche frazioni di secondo e li spegne completamente.
Il lavoro non finisce quando si toglie la palla dalle mani dell’attaccante; il lavoro comincia quando si toglie la palla dalle mani dell’attaccante.
Con Young in campo il rating offensivo di Atlanta, che in regular season era di 117.2, è precipitato a 93.7 nelle prime due gare a South Beach. E anche nella metà campo difensiva Young si è trovato a fare i conti con un predatore alfa del calibro di Jimmy Butler, che in gara-2 è andato a cercarlo in ogni zona del campo attaccandolo a ripetizione. New York, Philadelphia, Milwaukee, Charlotte e Cleveland — le cinque squadre affrontate in carriera da Young in post-season — non erano così attrezzate sui due lati del campo per fargli male.
Utah sembra sull’orlo dell’implosione
Mettiamola così: una squadra del livello degli Utah Jazz non dovrebbe aver perso neanche una partita contro dei Dallas Mavericks privi di Luka Doncic, invece in qualche modo si ritrova sotto 1-2 nella serie facendosi prendere a schiaffi in faccia da Jalen Brunson. Ma ancor più degli aspetti tecnico-tattici dei Jazz, è il linguaggio del corpo di tutti i membri del roster che sembra aver fatto suo il leggendario slogan di Magic Johnson:
Utah si comporta come una squadra che non ha poi davvero così tanta voglia di passare questo turno e di rimanere assieme per altre due settimane oltre questa serie, al contrario dei Mavericks che invece hanno trovato ancora più forza mentale e convinzione nei propri mezzi dall’assenza di Doncic. Sin dal primo tempo di gara-1 Donovan Mitchell sembra andare per conto proprio, interessato più a mantenere la sua media da 30 punti a partita ai playoff — e ci sta riuscendo: è a 32.7 di media, ma con appena il 41% dal campo e il 25% da tre punti — che non a giocare con i compagni, in particolare Gobert a cui ha servito la bellezza di due assist in tre partite nonostante viaggi a più di 22 penetrazioni a partita. Soprattutto i Jazz sembrano aver perso la loro identità dopo l’addio di Joe Ingles: una squadra che faceva della creazione di vantaggi e della condivisione del pallone il proprio credo è ora nei bassifondi per assist (solo 19.6 su 100 possessi, meglio solo di Brooklyn e Atlanta) e tutto sembra legato a iniziative individuali delle proprie guardie, un cambio di paradigma che si era intravisto già in regular season.
Potrebbero essere le ultime partite assieme per questo gruppo, che lo scorso anno si sarebbe mangiato i Mavericks senza Doncic e che invece quest’anno sembra avere voglia solamente di andare in vacanza. Ma c’è modo e modo di implodere: i Jazz stanno scegliendo il peggiore.
I Timberwolves fanno e disfano la tela come Penelope
Giuro che volevo intitolare questo spazio su Minnesota scrivendo “I Timberwolves sembrano pronti per questo momento”. La vittoria al play-in contro i Clippers rimontando senza poter contare su Karl-Anthony Towns e i 130 punti che hanno rifilato in relativa scioltezza in gara-1 a Memphis sembravano rappresentare il punto di svolta per una squadra giovane ma decisamente intrigante. E anche la sconfitta in gara-2 era tutto sommato da mettere in conto contro un avversario come i Grizzlies assetato di sangue e di vittorie. Ma il modo in cui questa notte si sono fatti rimontare due volte in casa è una di quelle sconfitte che rischia di definire una stagione: Towns ha giocato un’altra partita incomprensibile davanti ai propri tifosi, andando in confusione contro i prevedibili raddoppi della difesa di Memphis, chiudendo con appena 4 tiri tentati e i soliti problemi di falli da cui proprio non riesce a stare lontano.
Eppure i T’Wolves pur senza prestazioni fenomenali da parte di Anthony Edwards e D’Angelo Russell erano riusciti ad andare avanti di 26. Avevano in pugno i Grizzlies, anche senza Towns. Invece si sono fatti travolgere dalle triple di Desmond Bane e dall’intensità di Memphis, una squadra che sembra arrivata a questo punto della propria evoluzione con uno o due anni di anticipo sulla tabella di marcia, ma che ora che è qui non ha alcuna intenzione di andarsene senza combattere.
DeMar DeRozan, contro le etichette
Nessuna squadra aveva bisogno di una vittoria nelle prime due partite quanto i Chicago Bulls contro i Milwaukee Bucks. Dopo una regular season in cui hanno perso ogni volta che hanno incrociato una “grande squadra” (2-20 il record contro le 8 migliori squadre della lega) e, soprattutto, contro un giocatore — Giannis Antetokounmpo — contro cui non vincevano dal 26 dicembre 2017 (14 sconfitte consecutive!), i Bulls hanno approfittato di una serata mediocre dei campioni in carica per togliersi questa enorme scimmia dalla spalla, e ora con l’infortunio di Khris Middleton hanno davanti un’occasione d’oro per ribaltare una serie che sembrava segnata.
Al centro di tutto c’è DeMar DeRozan, che dopo una brutta gara-1 da 6/25 al tiro aveva promesso che non si sarebbe ripetuta una prestazione del genere e ha mantenuto la promessa firmando il suo massimo in carriera ai playoff da 41 punti con 8 canestri in faccia ad Antetokounmpo. Dopo una regular season in cui con le sue prestazioni ha ricordato a tutti che razza di attaccante sia, DeRozan si è anche cominciato a togliere un po’ l’etichetta del giocatore forte solo in regular season e che invece ai playoff sparisce: magari i Bulls finiranno per perdere questa serie e DeRozan avrà brutte prestazioni, ma è bello che questa stagione che lo ha rimesso “sulla mappa” abbia avuto almeno una prestazione del genere ai playoff.
Nella carriera di Antetokounmpo non era mai successo che un avversario gli segnasse così ripetutamente in faccia, ed erano tutti tiri ben contestati. Semplicemente in certe serate non si può fare niente contro DeRozan.
I cambi difensivi ce li si deve guadagnare
I playoff, si sa, sono terreno di caccia per predatori: se c’è un cattivo difensore in campo, la squadra avversaria farà di tutto per andare a cercarlo ovunque sia ed esporlo il più possibile, piegando la difesa fino a farla spezzare. Le migliori difese sono quelle che riescono a costruire attorno ai loro peggiori difensori — che poi sono quelli che fanno girare gli attacchi, altrimenti non avrebbe senso tenerli in campo — un sistema difensivo capace di proteggerli e di togliere i vantaggio agli avversari, ma soprattutto sono quelle che fanno guadagnare agli attacchi il cambio difensivo ricercato.
Non so voi, ma troppo spesso mi capita di vedere difese che concedono il cambio difensivo senza neanche fare finta di voler passare sopra o sotto il blocco, accettando il proprio destino senza provare a combattere. Il senso è chiaro: pur di non concedere vantaggi, preferiscono “dare” a un attaccante avversario il suo accoppiamento preferito e farlo giocare in uno contro uno, bloccando la circolazione di palla e scommettendo sul fatto che un attacco predicato sugli isolamenti sia meno efficiente rispetto a uno che manda in rotazione la difesa con uno-due-tre passaggi consecutivi. Tattica rispettabilissima (anche perché riduce la quantità di decisioni che un difensore deve prendere in difesa, cambiando a prescindere su tutti i blocchi), ma che ogni tanto mi sembra un po’ pigra per gli allenatori e rende le gare di playoff una lunga caccia all’uomo più che una partita di pallacanestro.