La notizia arriva nel tardo pomeriggio: Nikola Jokic è il nuovo MVP. Per Joel Embiid, nonostante una stagione straordinaria, c’è solo il secondo posto. Attorno al Wells Fargo Center, però, nessuno sembra preoccuparsene. All’apertura dei cancelli manca ancora un’ora. Fuori si scatena un temporale monsonico che fa calare il buio in anticipo, costringendo i tifosi a trovare riparo. È solo qualche ora più tardi, con gli spalti pieni e l’adrenalina dell’inno nazionale appena smaltita, che si capisce che no, la cosa non è per niente passata inosservata. Vengono introdotte le squadre. Boooo per gli Hawks; boooo un po’ più forti per Trae Young; applausi per i Sixers. E poi arriva il turno di Joel. Tecnicamente annunciato dallo speaker; in realtà portato in trionfo dalla folla. M-V-P, M-V-P cantano senza freno i 20.000 di Broad Street, mentre il camerunese scende in campo e ringrazia. Felice di avere finalmente un interlocutore, dopo mesi passati ad aizzare gli spalti vuoti.
Il grido dei tifosi continuerà a vibrare per tutta la serata, mentre il loro idolo, pur con una lesione al menisco, fa a pezzi gli Hawks ai due estremi del campo. Chiuderà con 40 punti, 13 rimbalzi, una mezza scaramuccia con Danilo Gallinari, i soliti effetti speciali. A fine partita Doc Rivers racconterà ai giornalisti di quella volta che lui e gli Spurs dovettero affrontare gli Houston Rockets di Hakeem Olajuwon nei playoff del 1996. David Robinson aveva appena vinto l’MVP; Hakeem Olajuwon, in tutta risposta, lo fece a pezzi, dominando l’intera serie. «Stasera avevi la sensazione che Embiid fosse proprio quel giocatore lì» dirà il coach. E a Philadelphia, tra uno scongiuro e l’altro, anche i ciottoli della città vecchia sperano che abbia ragione.
Too big, too strong, too skilled.
L’improvviso ritorno alla normalità
Gara-2 è stata una serata di playoff tremendamente normale — di quelle che mancavano da troppo tempo. Il caldo che in realtà è l’umido, l’arena piena, gli asciugamani che sventolano, i cori pro e contro. E una prestazione dei Sixers che, pur con qualche passaggio a vuoto, ha dato a tutti i presenti abbondanti ragioni per tornare a casa soddisfatti. Al netto delle imprese di Embiid, sono state le fasi più convulse della partita a scatenare i momenti più caldi. Quelle in cui le riserve dei Sixers, dopo un primo tempo francamente sconcertante, si sono scrollate di dosso la paura e hanno riversato sul campo l’energia che ha schiantato gli Hawks. Ci sono state le incursioni di Shake Milton, la difesa arrembante di Matisse Thybulle, l’esperienza di George Hill. E pure i colpi di coda di Dwight Howard, che nella fase cruciale della partita ha pescato dal serbatoio un paio di guizzi dei tempi andati, tra cui un un plastico appoggio al tabellone dopo un prepotente rimbalzo in attacco.
È stato quello il canestro che ha scatenato la reazione più veemente della serata, spianando la strada a un ultimo quarto inaspettatamente tranquillo. Che, tra un’ovazione e l’altra, ha dato modo ai tifosi di coccolarsi ancora un po’ Embiid, e pure di sfoderare l’incredibile coro Trae Young’s balding — Trae Young sta perdendo i capelli — già colonna sonora, invero non fortunatissima, dei tifosi Knicks al Madison Square Garden. Sicuri di essersi guadagnati almeno un’altra partita al Wells Fargo, i tifosi si sono pure concessi il lusso di stare al proprio posto fino alla sirena finale, resistendo alla tentazione di sfuggire al traffico. Evento non comune nelle arene NBA, nemmeno ai playoff.
L’impatto dei tifosi sulle partite
Gara-1 di domenica pomeriggio era stata tutta un’altra storia, e non solo per il risultato finale. La partita inaugurale della serie era anche stata la prima volta in cui il Wells Fargo Center veniva aperto al pubblico in tutta la sua capienza. Un momento atteso con trepidazione spasmodica dalla tifoseria, reso ancora più intenso dal contesto che si è sviluppato attorno alla partita. «C’era una tensione overwhelming, soverchiante» racconta Jordan Rivkin, tifosa dei Sixers che da quasi un decennio divide l’abbonamento con il padre. E che proprio in gara-1 è tornata a vedere una partita della sua squadra dopo oltre un anno di assenza. «Troppe cose in un colpo solo: le scorie della pandemia, l’infortunio di Embiid, la testa di serie nei playoff. E soprattutto la voglia di tornare a gridare». Sono stati gli ingredienti di un pomeriggio che ha lasciato tutti i presenti stremati, senza più forze. Al di là della sconfitta finale. «Mi porterò dentro il ricordo di un’energia mai vista prima. C’era una voglia di tornare a tifare, di vedere la fine del tunnel dopo le difficoltà di questi mesi. Ci siamo quasi dimenticati che c’era una partita. Almeno fino a che non ci siamo trovati sotto di 26».
Il principale motivo per cui gli Hawks hanno costruito un distacco incolmabile in gara-1.
Eppure, nelle settimane passate, un po’ di ruggine c’era stata. Tornare al palazzo per l’inizio dei playoff aveva infatti fatto scattare il tipico straniamento post-pandemia. Quello che inevitabilmente sorprende chi si trova in luoghi noti a seguire rituali mai immaginati. Come guardare la partita con la mascherina indossata, marcati a vista dagli addetti alla sicurezza. Oppure essere costretti, per legge, a consumare un pasto per ogni birra ordinata nei corridoi del Wells Fargo Center: una normativa cervellotica promulgata dal Pennsylvania Liquor Control Board nel mezzo della scorsa estate, finalizzata a impedire che gli avventori passassero interi pomeriggi al bar, limitando così le possibilità di contagio. E che durante il primo turno di playoff ha fatto schizzare alle stelle il consumo di pizza e nachos, generosamente equiparati a un pasto completo dalla macchina burocratica dello Stato.
Poi, con l’avvento di giugno e il secondo turno dei playoff, sono arrivati i passi decisivi verso il ritorno alla normalità —o almeno, a come erano le cose fino poco più di un anno fa: via alle restrizioni sulla capienza, improvviso lassismo sulle mascherine, alcolici finalmente disponibili senza vincoli. E così, superata la fase di incredulità, i tifosi dei Sixers sono potuti finalmente venire a patti con il delicato momento storico che la loro squadra si trova ad affrontare. Da una parte, i playoff con la testa di serie numero 1, la prima volta dai tempi in cui Allen Iverson camminò sopra Tyronn Lue — esattamente 20 anni fa. Dall’altro, il solito garbuglio di incertezze ormai diventate parte dell’immaginario collettivo della tifoseria. Dalla salute di Embiid al tiro di Simmons; dal contributo ondivago della panchina, ai limiti offensivi di una squadra che, nonostante una regular season di alto livello, continua a seminare inquietudine. Anche e soprattutto tra i propri tifosi.
Hoping for the best, but expecting the worst
«Siamo così: speriamo nel meglio, ma ci aspettiamo sempre il peggio» racconta Jordan. «È l’identità di questa tifoseria, e pure di questa città». Pochi minuti prima, contemporaneamente e separatamente, Jake Tapper, leggendario ambasciatore di Philadelphia nella redazione televisiva di CNN, aveva espresso lo stesso concetto. «Difficile aspettarsi ottimismo da un tifoso di Philadelphia. Non è nella nostra natura». Passato l’entusiasmo per la vittoria in gara-2, la tifoseria dei Sixers può dunque tornare a professare lo scetticismo di sempre. «C’è un complesso storico che attanaglia chi tifa per le squadre di Philly: quello di essere forti, ma mai abbastanza. Di arrivare vicini alla meta, ma di non raggiungerla mai» aggiunge Jordan. L’andamento degli eventi in casa Sixers, dai tempi di Iverson in poi, non ha certo aiutato a sentirsi fiduciosi. Prima il ritorno alla mediocrità; poi il tremendo purgatorio del Processo. Anni di sconfitte, infortuni, scommesse al buio. Sacrifici accettabili solo grazie all’idea che la ricompensa, prima o poi, sarebbe arrivata. «Quel momento è adesso. Abbiamo vinto la Eastern Conference. Dobbiamo assumercene la responsabilità. Ma il solo pensiero di poter arrivare fino in fondo ci fa paura. È come se sapessimo già che qualcosa andrà storto, anche questa volta» spiega Jordan.
L’atteggiamento disincantato, del resto, va ben oltre il tifo per i Sixers. È il marchio di fabbrica di una città allergica alle illusioni, meticolosamente cosciente dei propri limiti. E capace di prendersi tremendamente sul serio e al tempo stesso impietosamente in giro. Un approccio che ha consentito ai suoi abitanti di coltivare nel tempo una propria identità, orgogliosamente distinta da quella di New York e Washington: le due città più vicine, e quelle tradizionalmente più ingombranti e potenti, soprattutto a livello politico. Se si parla di sport, nulla rappresenta meglio questa tigna, forse, di Gritty, la mascotte della squadra di hockey dei Flyers: un’icona goffa, coriacea, fedelissima ai propri colori. In cui si identificano gli appassionati non solo di hockey, ma pure di tutti gli sport di Philadelphia. Il cui atteggiamento indomito, mai rassegnato, ben rappresenta la voglia di lottare dei tifosi dei Sixers, anche nei momenti peggiori.
«Siamo terrorizzati ogni volta che Embiid cade a terra. Eravamo divisi sull’idea di farlo giocare già da questa serie» racconta Jordan. «Ma quando hanno annunciato che avrebbe giocato, prima di gara-1, sembra avessimo vinto la partita. Era quello che sotto sotto tutti volevamo». E così non è probabilmente un caso che il grido di battaglia di tutta la tifoseria — uno dei cori più popolari durante le partite — continui a essere Trust the Process, una professione di fede per eccellenza. Quella predicata da Sam Hinkie mentre costruiva le fondamenta di questo progetto sportivo, accumulando sconfitte e scelte al Draft, e rendendo tutt’oggi impossibile stabilire se dietro al suo operato ci fosse del genio, della follia, o una micidiale combinazione delle due cose. «Mio padre volle abbonarsi anche l’anno in cui vincemmo 10 partite in tutta la stagione» chiude Jordan. «Sapeva che sarebbe arrivato il giorno in cui per un abbonamento ci si sarebbe dovuti mettere in lista d’attesa. Voleva farsi trovare pronto». Pessimismo, certo, ma sempre con fiducia. Almeno per un’altra settimana.