
La serie tra Oklahoma City Thunder e Memphis Grizzlies sarà ricordata solo nelle statistiche e nelle grafiche di fine stagione, una nota a piè di pagina in attesa delle partite che decideranno davvero in questi playoff. Dopo una Gara-1 storica ma nel senso sbagliato del termine, e che ha riscritto i record in negativo, anche il risultato più stretto di Gara-2 al Paycom Center è stato pura cosmetica.
Troppo più forti gli Oklahoma City Thunder dominatori della Regular Season e testa di serie numero 1 a Ovest per distacco, troppo confusionari e smarriti i Memphis Grizzlies che hanno cambiato anche guida tecnica a poche settimane dall’inizio di questi playoff che rischiano di finire molto presto. Parlare infatti della serie in sé, dei suoi temi tattici e di possibili aggiustamenti è piuttosto inutile, ci sono delle volte in cui semplicemente Davide non batte Golia. Ed è un peccato perché questa sfida metteva l’uno contro l’altro due dei giocatori che dovrebbero rappresentare il futuro della NBA prima o poi - Shai Gilgeous-Alexander da una parte e Ja Morant dall’altra - e la speranza sottintesa da tutti è che si potesse sviluppare una rivalità in grado accendere il prossimo decennio. Invece purtroppo i due stanno viaggiando su traiettorie troppo diverse per incontrarsi o, al minimo scontrarsi, lasciandoci orfani di una vera serie di playoff al primo turno e soprattutto di una nuova narrativa che possa incollare gli spettatori ai vari schermi.
Ja e SGA infatti sono due facce della stessa medaglia, differenziati anche da una minima variazione fonetica, e rappresentano la nuova generazione di point guard che è sbocciata all’inizio di questo decennio con la premessa di prendersi l’NBA di forza e di highlights. E in effetti inizialmente è andata proprio così, con SGA scelto nel Draft 2018 e Ja in quello 2019, e immediatamente protagonisti. Anzi, inizialmente è stato Morant il primo a prendersi la scena grazie ai razzi al posto delle scarpe e alla sua propensione a finire ogni singola giocata sopra il ferro. I suoi Memphis Grizzlies riportarono indietro le lancette di qualche stagione, quando con quella maglia prosperava il Grit’n’Grind e l’estetica livida da Midwest provava inutilmente a frenare quella fabbrica di arcobaleni che nel frattempo aveva aperto le porte nella Baia.
Poi gli infortuni, le squalifiche, le pistole postate su Instagram e quelle mimate durante le partite hanno reso ben presto Ja Morant un personaggio troppo scomodo per essere gestito dall’NBA di Adam Silver, dove il conflitto è sempre messo sotto il tappeto invece che affrontato a centro ring come invece faceva il suo mentore David Stern.
Ja Morant forse si sarebbe trovato meglio in quell’epoca, lui regen di un personaggio di NBA Streets, l’incrocio non programmato di Allen Iverson e Stephon Marbury ma con la mira di Gilbert Arenas e l’attitudine di Dennis Rodman. Nato per rendere meno crudele il passaggio dalla NBA di inizio millennio a quella attuale per lo spettatore medio, quello che odia le triple dal palleggio e sogna solo incontri poco educati al ferro e ama le esultanze al limite dell’antisportivo, Morant è fuori posto in un gioco molto più efficiente e per molti meno spettacolare. E la sua incapacità di evolversi ha finito per incartare gli stessi Memphis Grizzlies, una squadra operaia e macchinosa, generosa e facile da tifare, ma troppo lontana dagli standard odierni per essere davvero competitiva. E mentre la stella di Ja tramontava come una cometa, ecco che a non troppi chilometri di distanza (per essere negli States) nasceva una nuova star.
La crescita di Shai Gilgeous-Alexander è infatti un arco teso verso la vetta della lega. Da quando è arrivato in NBA la sua parabola ha assomigliato più ad una retta fissata verso il cielo, un costante miglioramento nel nome della perfezione matematica e della pulizia di ogni angolo. Nessuno fino a ora ha modellato il suo gioco aderendo con così poche bolle d’aria a quanto i sistemi statistici considerano l’efficienza su un campo di parquet: un artista dell’isolamento, fuoriclasse capace di concludere al ferro con entrambe le mani con egual naturalezza e creatività, scassinatore seriale di falli per guadagnarsi il consueto pellegrinaggio alla lunetta, e finalmente, anche tiratore più che affidabile dietro l’arco dei tre punti.
SGA è un monumento plastico eretto dai Nerd che creano le shooting map nell’oscurità delle loro camerette. Uno di questi ovviamente era Sam Presti, l’uomo che ha prima smontato e poi rimontato gli Oklahoma City Thunder come la migliore squadra della Lega grazie a una ossessionante ricerca del marginal gain conquistato a furia di trade, player development e a una mistica devozione agli algoritmi che muovono il cielo e l’altre stelle. Ed è proprio in questa cosmogonia meccanica che SGA è diventato il miglior giocatore della miglior squadra NBA in stagione, il candidato principe al ruolo di Most Valuable Player e volto designato della lega che entra nella fase più bruciante della sua annata e dove i Thunder vogliono essere assoluti protagonisti.
A meno di movimenti tellurici imprevisti Oklahoma scapperà dal Tennessee con le due vittorie che le mancano per completare il più classico degli sweep 1vs8, pronta a spostare la propria attenzione sul prossimo turno e nessuno si ricorderà più di questa sfida. Quello che doveva essere lo showdown tra le due point guard del futuro, i due volti da mettere ai lati dello schermo mentre si annunciano i quintetti, le due anime diverse ma necessarie l’una all’altra di una lega sportiva è stato una mezza delusione. Rimane l’amaro in bocca, per fortuna mitigato dalle altre partite della notte, per l’occasione sfumata di dare un nuovo motivo di interesse agli spettatori che hanno atteso per tutta una stagione regolare in sordina per qualche acuto.
L’NBA in questo momento ha sia bisogno di SGA e Ja presi singolarmente, due atleti e due persone estremamente diverse che vivono e giocano in modo opposto. Ha bisogno del bravo ragazzo canadese che si veste bene e gioca ancora meglio, che vuole riportare Converse ad essere un brand rilevante e che guida la migliore della squadra della lega senza prendersi troppo i meriti, e ha bisogno del gangsta fuori tempo massimo, della rosa del Sud degli States, su cui Jordan aveva puntato per rilanciare quella facciata da fuorilegge che ha fatto la fortuna del brand fino dal 1985, e che non si fa problemi di mettere sul parquet i suoi sentimenti e le sue gestualità. Ma soprattutto l’NBA ha bisogno di SGA e Ja uno contro l’altro, definire gli stereotipi per poi farli scontrare, creare attrito, mettere un punto nel continuo flusso imposto dai social media. Di impostare rivalità, di scrivere nuove narrazioni, di immaginare un futuro diverso da quello piatto che sta vivendo nelle ultime stagioni. Invece sembra sempre di più che l’NBA abbia scelto di spingere un solo modello di superstar, quelle positive, monodimensionali e un po’ troppo disneyane. Ma proprio le favole ci hanno insegnato che non esistono buoni senza cattivi di mezzo.