22) Charlotte Hornets
Ranking medio: 21.8
di Lorenzo Neri (@TheBro84)
Giù la maschera: chi nella scorsa pre-stagione non ha pensato che l’innesto di Lance Stephenson a Charlotte fosse tremendamente affascinante? L’aggiunta del giocatore di rottura per antonomasia in una squadra dallo spiccato senso tattico—talmente educata e precisa nelle proprie esecuzioni offensive e difensive da renderla a tratti soporifera—avrà sicuramente scaldato qualche cuore in previsione di quello che poteva uscire da questo mix.
Ecco, solo in previsione. L’impatto di Born Ready è stato devastante, ma sicuramente non nel senso che si aspettava la dirigenza dei calabroni, alle prese con un giocatore impossibile da inserire nei giochi, nella mentalità o semplicemente nelle rotazioni della squadra.
Una scommessa, uno scatto d’audacia che non è mai sembrato nelle corde della squadra del North Carolina, che infatti alla prima occasione buona ha impacchettato il buon Born Ready in California, riprendendo dal cestino il progetto accantonato la scorsa estate.
Sono andati a prendersi Nicolas Batum a Portland cedendo Noah Vonleh e Gerald Henderson e al Draft hanno scelto la concretezza di Frank Kaminsky—che già veleggia nei nostri cuori—preferendolo al potenziale a disposizione di Justise Winslow (e alla vagonata di scelte offerte dai Celtics per prenderlo), come ferma dimostrazione di una squadra che vuole pensare al presente, mettendo coach Steve Clifford nelle migliori condizioni per esprimere i suoi concetti nella stagione in cui si giocherà la permanenza sulla panchina.
La ricerca del salto di qualità verrà quindi perseguita affidandosi a delle safe bets e a un sistema di gioco ben definito basato su pochi protagonismi, dove però Al Jefferson ricoprirà un ruolo chiave per la sua indiscutibile capacità di attaccare le difese in post basso, aiutato da ottimi passatori in ogni posizione e dalle soluzioni dal palleggio del duo formato da Kemba Walker e Jeremy Lin, che si divideranno i minuti in regia. Un mix a cui va aggiunta la versatilità offensiva di Batum, voglioso di riscatto dopo una stagione ben al di sotto delle aspettative, che dovrà fungere da collante e leader con la palla in mano quando si decide la partita.
Le problematiche arrivano quando si parla del tiro da fuori—pochi specialisti, lo scorso anno 24.esimi nelle conclusioni dalla distanza, anche se in questa pre-season ne hanno tentate molte di più—e dalla difesa, soprattutto dopo l’infortunio che molto probabilmente farà saltare l’intera stagione a Michael Kidd-Gilchrist, uno dei migliori difensori NBA sulla palla, difficilissimo da rimpiazzare. Problematiche che rischiano di essere fatali anche nella modesta Eastern Conference per una franchigia che invece dovrebbe fare il massimo per togliersi di dosso un’aura di mediocrità che la avvolge sin dal primo giorno di vita.
21) Sacramento Kings
Ranking medio: 20.8
di Nicolò Ciuppani (@NickRamone)
Sono passati otto anni dall’ultima stagione con almeno 30 vittorie per i Kings, e un frenetico ottimismo è iniziato a trapelare dalla tifoseria californiana per la stagione a venire. Al di là della gestione al limite del dilettantistico dei contratti e degli scambi in off-season, la squadra dei Kings ha delle serie possibilità di tornare sopra le 30 vittorie stagionali e di provare a giocarsi un record attorno al 50%.
Ma sebbene l’ottimismo derivato da una buona dose di talento, la presenza di uno dei migliori giocatori NBA in assoluto in DeMarcus Cousins e un coach che ha saputo ottenere risultati ben più che dignitosi da situazioni tutt’altro che ottimali, la presenza di numerosi fattori dovrebbero quantomeno minare l’ottimismo in casa Sacramento.
Il quintetto base rappresenta un tentativo di efferato omicidio nei confronti delle spaziature offensive: l’ala grande titolare potrebbe essere Rudy Gay, il loro miglior difensore in assoluto è Darren Collison, le possibilità di allargare il campo sono offerte da Ben McLemore e Belinelli, ovvero due giocatori in grado di regalare serate di semi-infallibilità dall’arco dei 3 punti così come lunghi periodi di vacche magre e temperature polari.
Beli in pre-season ha alternato gare con almeno il 40% ad altre con meno del 15%. Qui, contro Portland, era in versione on fire.
Non solo: Rondo-Gay-Cousins sono tre figure dominanti sul pallone ed è difficile immaginare ciascuno di loro in un attacco tipico di Karl, che mira al movimento palla più veloce possibile, figurarsi tutti e tre insieme. Gli altri giocatori hanno dei permessi in attacco molto maggiori di quelli che hanno avuto in precedenza, ma nulla fin qui dimostra che queste libertà siano loro dovute. Inoltre, dopo i dissidi tra Karl e Cousins in estate, pare stiano nascendo dissidi tra Karl e Rondo, con minacce di cambiare più volte i quintetti base e la conseguenza di danneggiare altri giocatori nel roster che avrebbero bisogno di continuità (Casspi, McLemore, Belinelli, Collison).
Ma nonostante tutto, o forse proprio a causa di tutto ciò, i Kings rischiano di essere un appuntamento peccaminoso ogni volta che passano sul League Pass. Karl e Cousins potrebbero farci vedere cose che finora potevamo solo ipotizzare da entrambi, ma il mix di irrazionalità nell’amalgama dei giocatori e le aspettative assolutamente irreali della dirigenza possono creare una miscela altamente instabile e pronta a deflagrare in qualsiasi momento. Non una squadra da mezze misure, e divertentissima proprio per quello.
20) Dallas Mavericks
Ranking medio: 19.4
di Fabrizio Gilardi (@Fazzettino)
Un milione e mezzo di dollari. È una stima (probabilmente per difetto) di quanto Mark Cuban ha gentilmente devoluto alla NBA in multe dal 2000 a oggi. Gli ultimi 25.000$ sono volati via per aver parlato apertamente durante la moratoria di luglio (il periodo di transizione tra le due stagioni) degli accordi raggiunti con due dei free agent più ambiti sul mercato, Wes Matthews e… DeAndre Jordan. “Se lo non avessimo preso avremmo tankato”, in pratica. Che Jordan abbia poi deciso di restare a Los Angeles non serve ricordarlo, resta il concetto espresso in questo impeto di sincerità.
Magari no.
La prima scelta del Draft 2016 sarà di proprietà dei Mavs solo se dovesse restare entro le prime sette posizioni, dato che è stata ceduta ai Celtics nell’ormai famigerata e sciagurata trade Rondo. Il che, per farla breve, significa che se dopo i primi due mesi di stagione ci si dovesse rendere conto che i playoff sono ormai irraggiungibili, l’obiettivo diventerebbe quello di (sigh) restare sotto quota 30 vittorie. E i presupposti sono abbastanza chiari.
Deron Williams ha saltato tutta la pre-season e potrebbe non essere pronto per la prima palla a due; Wes Matthews sta recuperando dalla rottura del tendine d’Achille e dovrebbe rientrare a breve, ma con grandi incognite sul rendimento a breve termine; Chandler Parsons è reduce da un intervento al ginocchio circondato dal mistero; il resto del roster è composto da veterani, scommesse a costo zero e pretoriani di coach Carlisle.
L’unico motivo di interesse è quindi Dirk Nowitzki, cui mancano 478 punti per superare Shaquille O’Neal e issarsi al sesto (SESTO!) posto nella classifica dei migliori realizzatori NBA di tutti i tempi, alle spalle solo di Kareem Abdul-Jabbar, Karl Malone, Kobe Bryant, Michael Jordan e Wilt Chamberlain, traguardo che con il passo della scorsa stagione (17 punti a partita) potrebbe essere raggiunto entro l’anno solare (gara 30-31-32 in casa contro Chicago, Milwaukee e Golden State tra il 26 e 30 dicembre). E poi, probabilmente, tanking.
19) Detroit Pistons
Ranking medio: 19.1
di Dario Vismara (@Canigggia)
Due anni fa di questi tempi, parlando dei Detroit Pistons, ci dicevamo “Ok, mettere insieme Josh Smith, Greg Monroe e Andre Drummond non sembra una grande idea sulla carta, però magari funziona. Sai, con tutto quel talento”. Un anno fa, sempre di questi tempi e dopo un’intera annata in cui il trio aveva fatto registrare un bel -8.0 di Net Rating, ci dicevamo “Ok, hanno fatto pietà, ma adesso c’è Stan Van Gundy! Lui sì che riuscirà a farli coesistere!”. Invece no. Decisamente no. Tanto è vero che dopo un inizio da 5-23, SVG ha deciso—con una mossa senza precedenti—di tagliare Josh Smith e il suo contratto da 54 milioni di dollari, dandogliene subito 13 sull’unghia e accollandosene altri 5.4 per i prossimi cinque anni.
Quello che è successo da lì in poi è un manifesto del pensiero “Addition by subtraction”, ovvero che si ottengano risultati migliori togliendo qualcosa piuttosto che aggiungendolo—specialmente quando quel qualcosa tira col 29% da tre su oltre 3 tentativi a partita. La squadra nelle successive 16 partite ne ha vinte 12, rilanciandosi nella corsa ai playoff sulle ali di un irreale Brandon Jennings da 20+7 di media. Alla sedicesima partita, però, Jennings si è rotto il tendine d’Achille perché la felicità dura solo qualche attimo, e la squadra è ripiombata nella mediocrità perdendone 7 su 11. Quindi, alla trade deadline, è arrivato Reggie Jackson, e pur senza aver dominato (10-17 il record finale) la squadra ha mostrato almeno un minimo dei dettami di Van Gundy che vedremo in questa stagione.
In particolare, la combinazione Reggie Jackson + Andre Drummond + tiratore nel ruolo di 4 (in questo caso, il decente, ma non entusiasmante Anthony Tolliver) ha prodotto un Net Rating di +13.5 nei 300 minuti giocati assieme nel finale di stagione. Un dato su cui Van Gundy ha scommesso molto, sia prendendo Ersan Ilyasova sul mercato per quello spot di 4, sia rinnovando Jackson per 80 milioni in 5 anni nonostante non avesse concorrenza per offrirgli quelle cifre. Un “atto di fede” che ha molte ragioni—spiegate in maniera eccellente nella miglior puntata dell’anno nel podcast di Zach Lowe—e che non gli concede più alibi: ora questa è la sua squadra, costruita da lui secondo il suo credo cestistico. E sono tremendamente interessanti già solo per questo.
18) Boston Celtics
Ranking medio: 18.3
di Daniele V. Morrone (@DanVMor)
Prima di parlare dei Celtics bisogna mettere un bel avviso: “Attenzione! Quanto state per leggere sul roster dei Celtics potrebbe risultare obsoleto se il GM Danny Ainge dovesse trovare lo scambio giusto per portare finalmente una stella a Boston”. Questo perché i Celtics sono alla disperata ricerca di un giocatore che possa far fare il salto di qualità a un gruppo in crescita, che rischia però di rimanere impantanato nel luogo peggiore per un progetto nella NBA: troppo forti per tankare, troppo deboli per fare strada ai playoff.
Detto questo, i Celtics molto verosimilmente anche rimanendo questi vinceranno più partite delle 40 della scorsa stagione, e questo grazie a tanti fattori. Uno di questi è il fatto che Stevens avrà un anno in più di NBA alle spalle (e già adesso è tra i migliori 10 allenatori della Lega). Un altro è che chi è arrivato a stagione in corso lo scorso anno inizierà da subito in squadra (Isaiah Thomas e Jae Crowder su tutti). Un altro ancora è che sono una formazione profondissima, con l’aggiunta estiva di Amir Johnson e David Lee che aiutano a colmare qualche lacuna (rispettivamente difensiva e offensiva) nel reparto lunghi. La squadra è ottima dal punto di vista difensivo sia per sistema che per uomini, perché avere in campo contemporaneamente Smart-Bradley-Crowder è una sicurezza da questo punto di vista, e sarà superiore a quella dello scorso anno dal punto di vista offensivo.
Occhio al rookie R.J. Hunter, che porta tiro da tre a un attacco che ne aveva un bisogno disperato.
Il miglior giocatore della squadra resta il sesto uomo Thomas, che verrà limitato sotto i 30 minuti a partita per averlo sempre al massimo, ma la speranza per Boston è che i miglioramenti di Marcus Smart lo portino già da questa stagione ad affiancarlo per importanza nel roster. Per capire le aspettative sul ragazzo si può fare l’esempio dell’algoritmo creato dal sito FiveThirtyEight.com chiamato CARMELO e che aiuta a predire la carriera di un giocatore: Smart è l’unico che viene considerato come un futuro All-Star in tutta la squadra. Il resto dei giocatori vengono considerati al massimo come role players o titolari nella media (Thomas è l’unico considerato un buon titolare). Con il problema che il mediocre Evan Turner e il declinante Lee che rischiano di avere fin troppi minuti e responsabilità.
In meno di 140 caratteri: l’allenatore c’è, la squadra è solida, ma senza l’intervento di Ainge sarà difficile uscire dal guado.
17) Indiana Pacers
Ranking medio: 17.3
di Francesco Andrianopoli
I Pacers rappresentano la storia più interessante e stimolante dal punto di vista tattico di questo inizio di stagione. Negli ultimi quattro anni avevano assunto una inconfondibile identità di squadra: solida, difensiva, predicata sul giocare a ritmo basso e dominare il pitturato con i propri lunghi, David West e Roy Hibbert. Da quest’anno, invece, hanno optato per una radicale inversione di tendenza, una vera rivoluzione: via all’era dello small ball, ritmo alto, centri mobili e versatili e un esterno puro (preferibilmente Paul George) per tanti minuti nel ruolo di 4.
È in quest’ottica che si spiegano gli addii a Hibbert, West e Scola (i primi tre della rotazione nel reparto lunghi 2014/15) e gli innesti di Monta Ellis, del rookie Myles Turner, dei dinamici veterani in cerca di riscatto Chase Budinger e Jordan Hill.
L’idea è affascinante e il “coraggio” di Vogel e Larry Bird apprezzabile e da rispettare: non è da tutti abbandonare una filosofia coltivata e predicata per anni e decidere di abbracciarne l’esatto opposto—anche se va detto che nel primo assaggio di Vogel come capo allenatore (quando subentrò a O’Brien sul finire della stagione 2010/2011) i Pacers giocavano ad alto ritmo ed erano molto diversi dalla corazzata difensiva costruita a partire dalla stagione successiva.
Come direbbe Gene Wilder, allora, “Si può fare”: le capacità tattiche del coach ci sono, le gambe fresche per correre per 48 minuti a partita anche, il talento offensivo per battere il proprio uomo dal palleggio e punire i mismatch pure. I dubbi derivano essenzialmente dal fatto che il giocatore-franchigia Paul George si è pubblicamente dichiaratotutt’altro che entusiasta del doversi guadagnare i mismatch offensivi facendo a botte sotto le plance con i lunghi nella sua metà campo. Non va inoltre dimenticato che lo small ball, per funzionare bene, necessita di tiratori in grado di allargare il campo e rendere proficuo il penetra-e-scarica. Ma in questo roster, di gente dotata di un affidabile piazzato dalla lunga distanza se ne vede ben poca.
16) Phoenix Suns
Ranking medio: 16
di Nicolò Ciuppani (@NickRamone)
Phoenix sta vivendo un periodo di forti contrasti interni, siano essi di tipo ideologico, tecnico o puramente esistenziale. Da una parte c’è una dirigenza lungimirante che, insediatasi solo due anni fa in una squadra senza quasi nessun asset o giovane di talento, sta ancora progredendo in un piano di ricostruzione che si concluderà solo con l’arrivo della stella in grado di guidare la strada (obiettivo mancato di poco con LaMarcus Aldridge in estate).
Dall’altra c’è una proprietà frettolosa che ha in mano la quarta squadra NBA di sempre per percentuale di vittorie e che adesso vive nel periodo di lontananza dai playoff più lungo dalla fondazione della franchigia stessa. I Suns hanno un livello di talento tale da poter arrivare in zona playoff anche in questo Ovest: l’anno scorso prima della deadline erano stabilmente in quelle posizioni, salvo poi veder rimescolare il roster e subire numerosi infortuni.
Brandon & Eric want to rule the world.
Quest’anno possono contare su un binomio di guardie talentuoso e possibilmente ben amalgamato come Brandon Knight e Eric Bledsoe, una panchina decisamente più interessante e una varietà di opzioni offensive e tattiche che pochissime squadre possono permettersi. Alex Len già oggi è il miglior centro di riserva della NBA (considerato che molte squadre un centro di riserva non ce l'hanno proprio), T.J. Warren e P.J. Tucker possono alternarsi per portare qualità opposte o coesistere all’interno di un quintetto piccolo, i problemi al tiro da 3 punti della scorsa stagione possono essere risolti con le aggiunte di Leuer, Booker, Weems, Teletovic; e la creazione di una difesa solida anche in vista della post-season è un obiettivo realisticamente ottenibile, considerato il talento e il materiale umano a disposizione.
Ma la stagione dei Suns ha due grosse bombe a orologeria che potrebbero esplodere improvvisamente e mandare tutto a rotoli. Numero 1: Markieff Morris ha davanti a sé un processo penale e alle sue spalle un’estate passata a lamentarsi pubblicamente e a richiedere la cessione vista la sorte del suo gemello. Anche il reset emotivo mostrato al media day è tanto piacevole quanto sospetto. Numero 2: Jeff Hornacek non ha ancora visto una proroga del contratto che dopo il primo anno sembrava quantomeno doverosa, e iniziano a circolare rumors che stia allenando “con sufficienza” per ripicca della cosa.
In ogni caso a fine stagione sapremo se i Suns sono una squadra in fase crescente della parabola o se il progetto del GM McDonough debba ripartire nei pressi del punto zero.
15) Toronto Raptors
Ranking medio: 14.7
di Fabrizio Gilardi (@Fazzettino)
In questo momento storico i Toronto Raptors condividono con i Boston Celtics un enorme vantaggio competitivo: giocare nella Atlantic Division (evitate confronti con i coltelli che volano all’interno alla Southwest, per la vostra salute mentale): i più raffinati modelli statistici predittivi (come quelli di FiveThirtyEight e ESPN Insider) assegnano a 76ers, Nets e Knicks un totale di vittorie simile a quello della scorsa stagione (73) e solo i bookmaker di Las Vegas azzardano toccare quota 80.
In parole povere, giocare 12 partite contro quelle squadre può trasformarsi per i Raptors in un vantaggio di almeno un paio di vittorie “gratis” rispetto alla diretta concorrenza della Eastern Conference, che può fare la differenza per la qualificazione ai playoff o per l’assegnazione del fattore campo al primo turno—come accaduto la scorsa primavera, anche se con esito non esattamente positivo.
L’altro lato di questa medaglia è che "Squadra (abbastanza) vincente non si cambia" e che il creativo GM Ujiri è stato in pratica prigioniero della situazione e della competitività (relativa) della propria squadra… fino a oggi.
In estate si è dato l’addio (sofferto) all’anima dello spogliatoio e àncora difensiva Amir Johnson, e anche quelli (meno sofferti) a Greivis Vásquez e al Sesto Uomo dell’Anno Louis Williams—che, al contrario, nella propria metà campo molto spesso si immedesimavano nelle tre scimmiette non vedo-non sento-non parlo (e ancora di più non faccio, la quarta, che a quanto pare esiste sul serio).
In compenso, in free agency non s’è badato a spese, cercando pedigree vincente, attitudine difensiva e versatilità in DeMarre Carroll (ex-Hawks, uno dei migliori 3 & D in circolazione) e Cory Joseph (ex-Spurs, secondo canadese a vestirsi da dinosauro e 8° tra le point guards per Defensive Plus-Minus), per cercare di dare equilibrio alla squadra, che con il 3° miglior attacco e la 23.esima difesa, è stata senza dubbio la meno bilanciata nella scorsa stagione.
Per tutto il resto ci si affiderà a DeRozan, al neo-ricco (estensione di contratto da 64 milioni di dollari) Valanciunas e soprattutto al dimagritissimo e incredibile Kyle Lowry ammirato in pre-season, sperando che la nuova struttura fisica gli consenta di essere competitivo per 82 partite e non solo per una trentina, come invece è avvenuto nella scorsa stagione.
14) Utah Jazz
Ranking medio: 14
di Andrea Beltrama (@andreabeltrama)
Vuoi la buona notizia o quella cattiva? Difficile valutare la posizione dei Jazz senza uscire del grande dilemma. Da una parte, l’infortunio rimediato in nazionale da Dante Exum, l’investimento più corposo in chiave Draft degli ultimi anni, lo costringerà a osservare tutta la stagione da bordocampo. Dall’altra l’esplosione post All-Star Game della scorsa stagione, con il 19-10 finale che, pur senza rimetterli in corsa per i playoff, ha comunque lanciato un messaggio forte alla Lega. E così, senza un playmaker, ma con uno dei reparti lunghi più in crescita della NBA, i dubbi sono pari alle speranze.
The Stifle Tower.
L’ottavo posto è ambizioso, ma possibile. A patto che Gobert continui a essere il giocatore dominante visto alla fine della scorsa stagione, e che Gordon Hayward faccia un ulteriore salto di qualità. Il resto è difficile da prevedere, ma se Trey Burke non sempre garantisce massima affidabilità, è anche vero che il rientro di Alec Burks aggiunge profondità al reparto guardie, mentre Rodney Hood è più in fase crescente di quanto in molti si siano resi conto.
In sostanza: gruppo giovane, nucleo consolidato, grandi margini di miglioramento. Varrà la pena guardarli per ammirare le infinite leve di Gobert, la classe di Hayward, i balzi di Favors. E per tenersi aggiornati su uno dei gruppi più futuribili della NBA. Anche se ora, per la prima volta, ci si aspetta anche che arrivi qualche frutto. Motivazione extra: Raul Neto, che in pre-season ha già sfondato la porta di vari highlights. Non è detto che non continui a farlo.