Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
La NBA ha un problema di storie, non di ascolti
20 dic 2024
I dati di ascolto in calo negli USA non centrano il punto della questione.
(articolo)
12 min
(copertina)
IMAGO / ZUMA Press Wire
(copertina) IMAGO / ZUMA Press Wire
Dark mode
(ON)

Complice un inizio di regular season non traboccante di avvenimenti, nelle ultime settimane la discussione attorno alla NBA si è concentrata su un singolo dato: il calo, negli Stati Uniti, degli ascolti. Un report di Nielsen ha reso noto che gli ascolti della NBA Cup sono scesi del 10% rispetto alla passata stagione e del 28% per quanto riguarda le partite trasmesse su ESPN. In generale anche il commissioner Adam Silver ha ammesso che un calo c’è, pur riferendosi solo alle prime settimane di regular season e citando sia le World Series che le elezioni presidenziali come due elementi che hanno influito.

A fare da contraltare alla diminuzione di ascolti riguardanti la NBA — riferendosi però specificatamente alle sole partite in tv nazionale su ESPN e TNT — c’è il fatto che le altre principali leghe americane invece non hanno avuto lo stesso calo, anzi sono in crescita rispetto al passato. La stessa WNBA, “sorella minore” della lega maschile, è ai suoi massimi storici. Questi dati messi assieme hanno dato il via a una serie di opinioni assolutamente non richieste in giro per Internet: più o meno chiunque sui social ci ha tenuto a esprimere la sua sentenza, spesso basata su gusti personali più che su fatti concreti. Ma cosa significano quei dati? E la NBA ha effettivamente dei problemi da risolvere? Facciamo un po’ di ordine.

Per Natale perché non regalare un abbonamento a Ultimo Uomo? Scartato troverete articoli, podcast e newsletter esclusive che faranno felici i vostri amici impallinati di sport.

CHE SENSO HANNO I RATING NEL 2024?
Il sito Outkick — da prendere un po’ con le pinze, dato che è controllato da Fox Corporation, network notoriamente filo-Trumpiano e in quanto tale con il dente avvelenato nei confronti della NBA — ha riportato un calo del 48% rispetto agli ascolti del 2012, senza contestualizzare però quanto sia cambiato il mondo nell’ultimo decennio nella fruizione dei contenuti online e, soprattutto, di quanta concorrenza ci sia di prodotti che bramano il nostro tempo e la nostra attenzione, la vera valuta di scambio della nostra epoca social.

Probabilmente la canzone definitiva di questi anni ‘20.

La NBA, da questo punto di vista, è stata sia apripista che vittima. Sin dall’inizio ha dato grande accesso ai suoi highlights e ai suoi giocatori sui social, e il frutto di questa grande apertura è un vantaggio straordinariamente grande rispetto alle leghe concorrenti, vantando più followers della NFL e più seguito della MLB e della NHL messe assieme. Il suo vantaggio è anche quello di avere una risonanza mondiale, complice la diffusione decisamente più capillare della pallacanestro come sport nei quattro angoli della Terra rispetto al football, all’hockey o al baseball. Come ha detto lo stesso Silver qualche anno fa, non senza un po’ di arroganza: «I nostri metri di paragone sono i più grandi brand del mondo, è limitante paragonarci alle altre leghe sportive». Un dato che rende abbastanza l’idea: Bronny James ha più followers su Instagram di Pat Mahomes.

In uno scenario del genere, ha ancora senso giudicare la salute di uno sport o di una lega sulla base solo dei suoi ascolti televisivi nazionali? È solo quella la cartina di tornasole per determinare se un prodotto funziona o no? Peraltro il discorso sui rating non tiene in considerazione aspetti del mondo statunitense che a noi un po’ sfuggono, come ad esempio il fatto che servono multipli abbonamenti per seguire tutte le partite della propria squadra e che, in alcuni mercati, è proprio difficile vedere le gare (per anni le prestazioni di Nikola Jokić sono state precluse agli abitanti di Denver per questioni di diritti).

Se ci si basasse solamente sui contratti televisivi, peraltro, bisognerebbe sottolineare come non più tardi di pochi mesi fa la NBA abbia firmato un nuovo accordo da 77 miliardi di dollari in undici anni con Disney (ESPN/ABC), NBC Universal e Amazon, suddividendo in tre pacchetti la propria offerta. Una cifra mostruosa che renderà la NBA sempre più ricca, ma che soprattutto ci dice che i player sul mercato lo ritengono un prodotto sul quale vale la pena investire, anche perché gli sport dal vivo sono l’ultimo baluardo che convince le persone a mettersi davanti a un televisore tutte assieme a una data ora — una rarità in un’epoca in cui l’on demand è diventata la nuova normalità.

LA (NON) QUESTIONE DEL TIRO DA TRE PUNTI
Non appena sono usciti i dati, in molti hanno immediatamente colto la palla al balzo per puntare il dito contro quello che viene percepito come il più grande problema del basket di oggi: il tiro da tre punti. Da un certo punto di vista è comprensibile: se uno non segue la pallacanestro da un decennio, la quantità di tiri da tre che si prendono le squadre in campo balza immediatamente all’occhio rispetto a ciò che eravamo abituati a vedere fino a dieci o vent’anni fa, ed è quindi facile identificarlo immediatamente come “Il Problema Del Basket Di Oggi”.

Del tiro da tre hanno parlato anche Dario Costa e Daniele V. Morrone in una puntata di 1vs1, il nostro podcast per abbonati in cui due autori si scontrano su un argomento aizzati da Emanuele Atturo col forcone della discordia.

Come per i rating, la risposta è un po’ più complessa di così. Dell’importanza sempre maggiore delle triple da un punto di vista tattico e analitico parliamo ormai da tantissimo tempo (questo articolo è di quasi 5 anni fa ed è ancora attualissimo), perciò se la NBA vi piaceva fino a dieci o cinque anni fa, è improbabile che quella di oggi sia diventata improvvisamente inguardabile solo perché si tentano in media 3.4 triple in più rispetto al 2019-20. È più probabile, piuttosto, che non la seguiste già da qualche tempo — il che è perfettamente normale e legittimo, vista l’offerta di intrattenimento che c’è in ogni momento — e che venga utilizzata la scusa delle triple per giustificarla a se stessi e agli altri. Anche perché, da qualunque parte la si guardi, non c’è un motivo per preferire da un punto di vista estetico un brutto tiro da due punti rispetto a un brutto tiro da tre: se un tiro è brutto resta brutto a prescindere da dove viene preso, così come un bel gesto resta bello da vedere sia che valga due o che valga tre.

Bisogna poi ricordare che il tiro da due punti, che sia preso in post basso o dal mid range, non è morto né da un punto di vista estetico né da un punto di vista tattico. Semplicemente quel tiro che era la base della stragrande maggioranza dei giocatori negli anni ’90 e 2000 (da cui la sua impronta indelebile nelle nostre memorie) è diventato ora esclusivo per pochi eletti, cioè solamente per i giocatori veramente bravi a prenderseli. A dirla tutta, i migliori giocatori della lega sono proprio quelli che tirano meglio da due punti: i vari Nikola Jokić, Giannis Antetokounmpo e Joel Embiid, giusto per limitarci agli ultimi sei vincitori dell’MVP, sono tutti giocatori che non fanno del tiro da tre punti la loro arma principale. Lo stesso vale per stelle come Shai Gilgeous-Alexander, Anthony Davis, Kevin Durant, Luka Dončić o Devin Booker — tutti giocatori che danno il loro meglio in avvicinamento a canestro e non allontanandosene, e che soprattutto sono in grado di prendersi quelle conclusioni e di segnarle con alte percentuali.

Perché, a dispetto della retorica secondo la quale in NBA non si difende (perché allora l’MVP dell’Eurolega non può stare in campo?), tirare da due punti contro gli atleti NBA è difficile — e basta vedere qualche minuto della semifinale di NBA Cup tra OKC e Houston per capirlo, osservando due difese che hanno come principale obiettivo quello di togliere l’aria agli avversari sottoponendoli a una pressione asfissiante in ogni momento. Quello che è un po’ difficile da far capire è quanto la questione del tiro da tre sia strettamente legata a quello del tiro da due: in uno sport di flusso come la pallacanestro, ogni decisione ha conseguenze dirette su un’altra. Nel caso specifico, si tira tanto da tre (anche) per aprire spazi nelle difese e tirare meglio da due punti, procurandosi percorsi meno trafficati verso il canestro avversario o falli che procurano tiri liberi. Perché è sempre bene ricordare che le tanto odiate “statistiche avanzate” sono le prime a dire che i tiri al ferro e i tiri liberi sono i più remunerativi in assoluto; il problema nel basket di oggi è come riuscire a procurarseli.

I VERI PROBLEMI DELLA NBA DI OGGI
Questo significa che in NBA non ci sia nessun problema? Assolutamente no, anzi. Ma è un problema diverso rispetto a quello che viene fatto passare sui social, ed è la mancanza di storie e di personaggi. La stagione è cominciata da quasi due mesi e al momento siamo fermi al debutto di Bronny James insieme a suo padre come unico momento in cui il basket è riuscito a trascendere i suoi limiti e a entrare nel circuito mainstream dando un argomento sul quale poter dibattere o quantomeno assistere. Un po’ poco per una lega che — questo sì — vuole assolutamente rimanere rilevante nel discorso sportivo, e in questo momento ci riesce a malapena, e solo quando succede qualcosa sul mercato che coinvolge le sue squadre più importanti, o ancor di più i suoi giocatori.

Le Olimpiadi di Parigi da questo punto di vista sono state piuttosto emblematiche. Anche sul palcoscenico sportivo più importante del mondo, l’ultimo ballo di LeBron James, Steph Curry e Kevin Durant insieme a caccia dell’oro olimpico è riuscito a catturare l’attenzione dell’uomo della strada — un po’ perché era la prima volta che li abbiamo visti tutti assieme, un po’ perché sono i tre giocatori che hanno segnato gli ultimi 15 anni di questo sport e un po’ perché le ultime due partite contro Serbia e Francia sono state memorabili ed emozionanti per qualsiasi spettatore le abbia viste.

Sarebbe stato lo stesso senza di loro? Assolutamente no, e questo è un vero problema per la NBA che non è ancora riuscita a trovare i volti giusti per il ricambio generazionale. Con la carriera di quei tre che si avvia al termine (fa male scriverlo e leggerlo ma è la verità), non c’è all’orizzonte un gruppo di giovani o anche solo un personaggio con un carisma abbastanza grande per attirare e poi farsi carico di tutta quella mole di attenzioni. I vari Tatum, Booker ed Edwards, presenti a loro volta a Parigi, sono finiti fagocitati dall’aura dei tre veterani e non sono riusciti a emergere davvero. E nonostante giochino per squadre a caccia del titolo (nel caso di Tatum anche i campioni in carica, peraltro coi Boston Celtics che hanno più storia e tradizione di qualsiasi altra franchigia) non hanno lo stesso tipo di rilevanza perché, banalmente, non sono i giocatori più forti del mondo.

Quello scettro infatti se lo contendono giocatori nati fuori dagli Stati Uniti, e se da una parte questo aiuta l’eco mondiale della lega (che infatti non è mai stata così popolare worldwide), dall’altra parte diventa un problema per il pubblico USA affezionarsi agli Jokić, Giannis, Dončić, SGA e Victor Wembanyama di turno. Aggiungete il fatto che nessuno di questi sia passato dal college — che, al netto di tutte le sue storture e ipocrisie, rimane una vetrina importantissima per farsi conoscere dal grande pubblico, come dimostra il successo delle giocatrici femminili negli ultimi anni da Sabrina Ionescu a Caitlin Clark — ed è comprensibile perché non ci sia una spinta forte per sintonizzarsi a seguire le loro partite nonostante siano giocatori straordinari dal punto di vista cestistico.

Per di più nessuno dei giocatori citati sembra avere le spalle abbastanza larghe per diventare la “faccia della NBA”, ma soprattutto a nessuno (tolto forse Wemby, per il quale è ancora troppo presto esprimere giudizi) interessa davvero esserlo. Nessuno di questi sembra avere quella volontà di potenza nietzschiana che attira l’interesse e coinvolge le persone nel proprio percorso: non c’è all’orizzonte un Kobe Bryant diciottenne che sfida il trono di Michael Jordan con arroganza e sfacciataggine, un LeBron James che fin dall’inizio dà l’impressione di poter diventare il più grande di sempre, o la storia da underdog di Steph Curry che diventa il più grande tiratore che si sia mai visto rivoluzionando il gioco stesso.

So che è ingiusto fissare l’asticella a tre dei più grandi giocatori che si siano visti negli ultimi 25 anni di pallacanestro, ma è quello che attira l’interesse del grande pubblico: assistere alla Storia che si compie, essere testimoni diretti di qualcosa davvero meritevole e che verrà raccontato negli anni a venire. Perché il tennis sta andando così bene in Italia? Perché abbiamo per la prima volta il miglior tennista del mondo, Jannik Sinner, e vogliamo assistere alle sue vittorie, diventandone partecipi a prescindere che siano belle partite o meno. Perché le World Series di baseball sono andate bene? Perché Shohei Ohtani sta facendo la storia. Perché Mike Tyson e Jake Paul hanno fatto 108 milioni di spettatori? Perché era un evento one-shot che è riuscito a catturare l’attenzione del pubblico generalista. Perché la NFL funziona? Perché c’è una dinastia in corso come quella dei Kansas City Chiefs (e per di più uno dei suoi membri più in vista è fidanzato con Taylor Swift, che non guasta).

Da questo punto di vista, il nuovo contratto collettivo della NBA estremamente punitivo nei confronti delle squadre col monte salari più alto per tanti anni consecutivi rischia di avere un effetto boomerang disastroso: quello di eliminare le dinastie. Negli ultimi sei anni ci sono state sei squadre campioni diverse, che è un dato sensazionale per l’equilibrio competitivo della lega, ma che non è assolutamente di aiuto se l’obiettivo è quello di fidelizzare il proprio pubblico e convincerlo a rimanere sintonizzato. La NBA più di ogni altra lega avrebbe dovuto saperlo bene, visto che la sua stessa storia è basata sulle dinastie — da quella dei Celtics di Russell fino agli Warriors di Curry, Green e Thompson passando ovviamente per i Bulls di Jordan e tutte le altre — e i suoi anni peggiori sono stati invece quelli tra gli anni ’70 e ’80 in cui nessuna squadra è riuscita a confermarsi come campione fino al back-to-back dei Lakers nel 1987-1988. Perché alle persone piace vedere un grande giocatore alla guida di una grande squadra emergere fino ad arrivare a vincere, e subito dopo vuole vedere chi riesce a buttarli giù dal trono.

È una storia vecchia come il mondo, ma è una storia che funziona — e in questo momento ciò che manca alla NBA è proprio una storia che dia alla gente un motivo per sintonizzarsi e seguire, invece che aspettare che qualcosa di meritevole appaia sui propri feed di Instagram mentre nel frattempo sta facendo altro. Il passato ci dice che la lega è sempre riuscita a rinnovarsi e a rimanere rilevante anche dopo l’addio del suo giocatore più importante in Michael Jordan, ma la concorrenza con cui si ritrova a combattere ora è decisamente più spietata rispetto a 25 anni fa.


Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura