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Il talento dimenticato di Ralph Sampson
25 giu 2020
Uno dei più grandi giocatori di sempre a non aver vinto praticamente nulla.
(articolo)
17 min
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C’è un curioso sottogenere della narrativa chiamato “ucronia” che si occupa di rivisitare un determinato avvenimento, immaginando poi le conseguenze di un sviluppo completamente diverso. Si tratta di un materia tradizionalmente scivolosa per ogni autore letterario che si rispetti, perché spesso questo filone si concentra su figure storiche molto complesse come Napoleone Bonaparte o sugli eventi immediatamente precedenti alle grandi battaglie. Nel cinema questo tipo di narrativa ha certamente conosciuto maggiore fortuna: l’irruzione di Quentin Tarantino nella Seconda Guerra Mondiale con Bastardi senza gloria, la rilettura integrale della triste vicenda di Sharon Tate con C’era una volta Hollywood e i numerosi tentativi di manipolazione del passato che abbiamo ammirato in Ritorno al Futuro sono parte della cultura popolare. Anche lo sport professionistico dell’era moderna ha sviluppato alcuni dei migliori esempi di ucronia, carburante fondamentale per memorabili chiacchiere da bar o da barbiere.

“Cosa sarebbe successo se...” è un abbrivio in grado di evocare in pochi istanti delle realtà alternative e di generare infiniti snodi narrativi. Infortuni, colpi di fortuna, scelte sbagliate: tutto contribuisce a formare nella nostra mente un ideale punto di ripristino da cui partire per affascinanti rivisitazioni. Pensate a un universo parallelo in cui Michael Jordan non va ai Chicago Bulls, ma agli Houston Rockets. I Portland Trail Blazers, infatti, avrebbero potuto chiamarlo con la seconda scelta assoluta del Draft del 1984 al posto di Sam Bowie, cedendolo poi agli Houston Rockets in una trade dai contorni clamorosi. L’offerta era pronta sul tavolo: Clyde Drexler e la seconda scelta assoluta (quella di MJ) in cambio di Ralph Sampson. Uno scambio che avrebbe dirottato ai Rockets il trio Jordan, Hakeem Olajuwon (anche in questo scenario prima scelta nel 1984) e Drexler nello stesso quintetto.

Sampson invece - che a 23 anni era già comparso sei volte sulla copertina di Sport Illustrated e conquistato con grande disinvoltura il titolo di matricola dell’anno - avrebbe fatto il percorso inverso diventando il giocatore di riferimento nell’Oregon, anche a costo di cedere due come Drexler e Jordan. Questo per far capire come un giocatore oggi quasi finito nell’oblio della memoria godesse di un valore di mercato stratosferico, in grado di sconvolgere la geografia della lega.

Ralph & Sam: l’epoca d’oro dei grandi centri?

La figura di Ralph Sampson oggi è poco valorizzata, ma il suo lascito ideale alla pallacanestro è forse uno dei migliori esempi di pagine incollate nella storia del gioco. Immaginate il contesto alla fine degli anni Settanta: Bill Walton aveva da poco dimostrato che anche i lunghi potevano giostrare da playmaker occulti vincendo un anello proprio a Portland, ma in molti bramavano un dominatore nei pressi del ferro in grado di rinverdire i fasti di Wilt Chamberlain e di Bill Russell. La ricerca dei nuovi “golia” si tradusse in una spasmodica attenzione verso i campionati liceali e soprattutto verso il torneo NCAA, che al principio degli anni Ottanta attirava più pubblico e copertura mediatica di qualche franchigia NBA. Sullo sfondo del provvidenziale dualismo Magic Johnson e Larry Bird che stava conquistando il paese e timonando lo sport in una nuova direzione, gli appassionati cominciarono a familiarizzare anche con le torreggianti figure di Ralph Sampson e Sam Bowie.

Nel caso di Sampson, il paragone più immediato era quello con Kareem Abdul-Jabbar per via della statura (oltre quota 220 centimetri) e della figura eterea ed elegante che si muoveva sul parquet con sorprendente dinamismo. Le oltre 180 offerte di borse di studio ricevute lo avevano già trasformato in un'icona e generato una tensione mediatica che indusse il suo ateneo a spedire un paio di giocatori della squadra di football a vigilare come guardie del corpo personali. Secondo diversi scout si era di fronte a un nuovo riferimento culturale, un profilo talmente avanzato da oscurare diversi fuoriclasse, una sorta di prodigio tecnico e fisico. I giornalisti al principio erano in evidente difficoltà nel descrivere nei particolari la sua pallacanestro e spesso si limitavano a sottolineare di non aver mai visto un simile connubio di fondamentali e di agilità in un corpo di quelle dimensioni. Ralph anticipava i tratti della morfologia di David Robinson (per dinamismo, parte alta del corpo e gioco sopra il ferro), con la plasticità e il rilascio morbido che ricordano il primo Kevin Garnett. Sfoggiava una mobilità laterale che appare sensazionale ancora oggi e doti di trattamento del pallone degne di un esterno molto rifinito. L’imbarazzo della stampa è quindi comprensibile per la mera mancanza di riferimenti validi con i contemporanei.

Al McDonald's All-American Game, il classico “showcase” dei migliori liceali del paese, scese in campo con gente del calibro di Isiah Thomas, Dominique Wilkins, James Worthy, Byron Scott, John Paxson e Antoine Carr. Le doti atletiche, la profondità e il talento della classe del 1979 erano di grande spessore, ma tutti i riflettori erano costantemente dedicati a lui e a Sam Bowie. Il rivale godeva di una stampa migliore e di maggiore popolarità grazie a un fisico più convenzionale ( di poco sopra i 210 centimetri) e un gioco più in linea con il basket di quel momento storico. I due incrociarono i guanti di sfida per la prima volta in una partita-esibizione ribattezzata “La battaglia dei giganti” che raccoglieva i migliori prospetti dell'area di Washington D.C. e che Ralph vinse di misura, una piccola rivincita dopo aver perso il titolo di miglior giocatore liceale del 1979. In assenza di social network e lontani dall’era di YouTube, questi appuntamenti erano fondamentali per saggiare la qualità dei prospetti e riunire di frequente gli scout.

Kentucky sognava di farli giocare assieme nella NCAA, un ennesimo “Cosa sarebbe successo se” di grande livello, con l'obiettivo deliberato di costruire una squadra con due lunghi dominanti e monopolizzare il torneo. Un progetto tecnico che da anni accendeva i dibattiti e le fantasie degli allenatori e che al principio del decennio sembrava tutto sommato realizzabile. Il ragazzone si dimostrava infatti genuinamente tentato da questa possibilità, ma quando il suo potenziale compagno firmò la lettera di intenti, scelse di percorrere un'altra strada. Anche North Carolina arrivò vicina a conquistare i suoi servigi (avrebbe giocato con con Michael Jordan, qui si rischia davvero di incrociare i flussi), ma contro ogni previsione Ralph annunciò in una rocambolesca conferenza stampa il desiderio di firmare per l’Università di Virginia. Una scelta che spiazzò tutti gli analisti e cominciò a nuocere alla sua reputazione, poiché questa decisione era figlia della volontà di giocare in un contesto a pochi chilometri dalla famiglia e con una pressione ridotta. Poco male: i giornali erano pronti a vendere tonnellate di copie con lo scontro Virginia-Kentucky a cui presto avrebbero finito per fare compagnia anche “l’outsider” Michael Jordan a UNC, Hakeem Olajuwon a Houston e il giamaicano Patrick Ewing a Georgetown. La NCAA dell’epoca ribolliva di talento, storie e grandi personaggi.

You'll always be our great Virginia?

Con il nuovo totem al centro del pitturato, Virginia salì rapidamente ai vertici e vi rimase per i quattro anni di carriera universitaria del suo leader. Sampson trasformò la squadra in un oggetto di culto, ricevendo inviti su inviti per partecipare a partite in varie parti del mondo e in un laboratorio di marketing collegiale che poco dopo avrebbe contribuito al fascino dei Runnin' Rebels di UNLV e dei leggendari Fab Five di Michigan. Il gruppo sotto la sua tutela vinse il 96% delle partite, numeri che gli permisero di vincere il premio Naismith per tre volte in quattro anni, eguagliando nientemeno che il record di Bill Walton. Il suo evidente dominio però non fu sempre sufficiente: e quando sembrava nella serata giusta per scrivere il suo nome tra gli annali , una cervellotica gestione delle regole finì per tarpare le sue ali.

La completezza del gioco di Ralph Sampson.

Nel 1983 Virginia stava prevalendo sulla North Carolina di Michael Jordan e torreggiando sotto le plance grazie al suo leader, in totale controllo dell’inerzia del gioco. Fino a 4 minuti dalla fine si giocava con il cronometro dei 30 secondi “sperimentali” in combinazione con il tiro da tre. Grazie a principi moderni Ralph stava prevalendo agevolmente su Sam Perkins e James Worthy pur avendo attorno un gruppo decisamente meno talentuoso. Arrivò a essere persino quadruplicato in marcatura, ma il suo impatto sulla gara non accennò a perdere di efficacia. Quando negli ultimi minuti di gara però vennero ripristinate le vecchie regole e spento il cronometro di tiro come previsto dalla NCAA, non ci fu più scampo dalla rimonta di Carolina. Gli esterni di Virginia andarono rapidamente in crisi contro la zona e le forzature tattiche estreme di Dean Smith: le azioni arrivarono a sfiorare il minuto di svolgimento, aprendo la strada ai minuti finali in cui Jordan si mise a fare il Jordan. UNC portò a casa la partita per 64-63, ma in conferenza stampa un elegante Smith non ebbe difficoltà ad ammettere ai microfoni che le cose avrebbero potuto prendere ben altra piega. Con delle regole uniformi per tutta la gara, Virginia avrebbe vinto? Ecco un altra affascinante quanto sottovalutata ucronia a vostra disposizione.

Sampson accumulava consensi, manteneva percentuali di vittoria quasi incredibili, ma cominciò a collezionare anche i primi scettici. Il suo atteggiamento freddo e i risultati che otteneva con apparente facilità cominciarono ad alimentare sospetti sulla bontà delle sue motivazioni. Le poche sconfitte che collezionava finirono per avere una eco devastante: una in particolare entrò nell’immaginario collettivo a stelle e strisce. Virginia era reduce da un torneo a Tokyo nel dicembre del 1982 e volò alle Hawaii per giocare contro gli sconosciuti Chaminade Silverswords, offrendo una prestazione mediocre e venendo sconfitta per 77-72. È quello che molti esperti hanno definito “il più grande upset” di tutti i tempi nel basket collegiale nonché un micro-evento della storia dello sport americano che ancora oggi è ricordato nei locali sportivi. Una partita oggetto di diversi libri, documentari e uno dei cavalli di battaglia dello scrittore pop Chuck Klosterman che ha dedicato molto spazio all’analisi di questa vicenda. La scarsa vena di Sampson, reduce da un piccolo infortunio, e la giornata di grazia del suo avversario diretto Tony Randolph contribuì all’entrata della squadra nella parte sbagliata della storia.

Nel corso della sua esperienza NCAA Sampson ha dovuto rinunciare alle Olimpiadi di Mosca nel 1980 a causa del boicottaggio americano come reazione all’invasione dell'Afghanistan organizzata dal Cremlino. Un episodio della Guerra Fredda che lo privato di una grande vetrina internazionale e di una sicura medaglia, con il destino che comunque gli ha riservato un’amichevole con la nazionale sovietica giocata con la maglia di Virginia contro un giovanissimo Arvydas Sabonis non ancora diciottenne. La NBA provò a trascinarlo nei professionisti già alla fine del suo primo anno di università, un corteggiamento serrato quanto infruttuoso. Pur consapevole di avere in tasca una chiamata alla prima scelta assoluta dal 1980, ha sempre deciso di rimandare il passaggio tra i professionisti, tanto che quando il lancio della monetina per decretare il vincitore della lotteria nel 1982 vide protagonisti Lakers e Clippers, preferì evitare del tutto il rischio di finire alla corte di Donald Sterling. La fortuna in realtà bussò alle porte dei gialloviola che scelsero James Worthy come premio di consolazione: sempre al posto sbagliato nel momento sbagliato e involontario architetto del piano di sopra.

La sua scelta alla 1 era talmente scontata da portare il commissioner ad annunciarla dicendo: “Ho una grande sorpresa per tutti voi” con tono estremamente ironico.

Rocket Man

Nel 1983 Sampson approdò agli Houston Rockets con una delle prime selezioni più scontate della storia del Draft, segnata da aggressive proposte di scambio per strapparlo dalla corte dei texani. Il suo rendimento nella lega fu in linea con le aspettative: il suo impatto sulle partite non fu molto diverso da quanto ammirato con la maglia di Virginia. Forte di un raffinato tiro in sospensione, quando necessario schiacciava sulla testa di chiunque e gli anni di spietati raddoppi gli avevano permesso di affinare un ottimo tempismo per i passaggi smarcanti. Sampson era solito stazionare in post alto con la schiena rivolta verso il ferro con delle movenze simili a Sabonis mentre sviluppava trame offensive a vantaggio dei compagni, e per la grande gioia del pubblico a volte si concedeva anche un gancio-cielo. Nel suo primo anno migliorò il record di 15 vittorie, un dato che avrebbe potuto ritoccare ancora più in alto se la franchigia non avesse scelto la strada del tanking selvaggio negli ultimi mesi di stagione. A dispetto di una classifica poco lusinghiera, la sua annata da matricola fu più che incoraggiante, portandolo all’immediata convocazione per l’All-Star Game e per la prima edizione assoluta della gara delle schiacciate, il primo quintetto dei rookie, il secondo quintetto assoluto e il premio di miglior esordiente. La continuità non sempre ha reso giustizia al suo talento, ma i lampi di classe hanno indiscutibilmente fatto saltare gli spettatori dalla sedia.

Spesso il confronto tra un stella NBA degli anni Ottanta e una di oggi risulta impietosa per la differenza di verticalità e dinamismo. Un punto di vista che Sampson ribalta completamente: oggi è difficile immaginare un atleta alto più di 220 centimetri con le stesse qualità fisiche e tecniche, a dimostrazione di un “telaio” praticamente unico. Nell’All-Star Game del 1985 conquistò il premio di miglior giocatore grazie al contributo di un ispirato Magic Johnson che sfruttò al meglio la sua velocità con una gestione della transizione offensiva capace di esaltare le sue caratteristiche e la natura avanguardista. Nel frattempo i Rockets avevano selezionato Hakeem Olajuwon, rifiutando ogni offerta per Sampson e scegliendo di mettere in campo due centri allo stesso tempo. Quella delle “Torri gemelle” fu una soluzione difficile da mettere a punto, generando tensioni tra coach Bill Fitch e la sua stella. Ruggini e reciproche perplessità che il suo allenatore nascose a fatica quando gli attribuì la “responsabilità tecnica” per la mancata selezione di Michael Jordan in un’intervista alla fine degli anni Ottanta, contestandone successivamente la mancanza di cattiveria agonistica in più occasioni a cavallo del decennio successivo. Al contrario, le rare dichiarazioni di Sampson restano sempre pacate e molto più orientate al ricordo degli anni universitari, un atteggiamento elegante e perennemente sotto traccia che non ha certamente premiato le sue quotazioni con i giornalisti sportivi.

La convivenza tecnica con Olajuwon decollò abbastanza presto a dispetto della pessima impressione generata dalle prime gare di esibizione, anche se il suo ruolo di leader venne ridimensionato e il range di tiro rivoluzionato. Il centro africano mostrò ben presto un appeal più convincente, conquistando in pochi mesi lo scettro della franchigia, mentre Ralph si adattò a giocare in posizione di ala grazie alla sua versatilità e contribuendo allo sviluppo tecnico del compagno. La buona chimica umana tra i due lunghi di riferimento contribuì a mitigare gli istinti di Fitch e grazie a delle felici intuizioni di mercato i Rockets passarono dalla lotteria alle Finali NBA nel giro di due stagioni. Nel 1985-86 arrivarono a contendere l’anello ai Boston Celtics di Larry Bird in una finale che non rende giustizia ai texani (4-2 per i biancoverdi) e che racchiude al suo interno gare e situazioni tecniche di grande interesse. Il risultato delle Finals (le prime nella storia della franchigia) non cancella comunque il modo in cui la squadra aveva spazzato via i Lakers dello Showtime per 4-1 in una contesa che fece apparire quasi del tutto superata la truppa di Magic, spingendo i gialloviola a sfiorare una clamorosa rivoluzione tecnica. Un miracoloso canestro sulla sirena in una delle gare più difficili della serie restituisce un minimo di centralità anche a Sampson, che senza saperlo alla soglia dei 26 anni stava giocando le ultime partite di grande livello della sua carriera. Ai nastri di partenza del 1986-87 infatti cominciò a consumarsi la clamorosa auto-distruzione della squadra, che a causa degli infortuni, delle squalifiche per droga e un pessimo approccio affondò per anni in una condizione di mediocrità cestistica, facendo sparire dai radar anche il talento di Sampson.

Il meglio della sua carriera non poteva che partire dal canestro miracoloso contro i Lakers.

La lunga mezzanotte

Nel febbraio del 1987 il ginocchio sinistro del lungo cominciò a fare i capricci sul campo dei Denver Nuggets, un problema che si aggiunse ai dolori alla schiena che avevano cominciato a tormentarlo già dalla stagione precedente. Houston stava attraversando una brutta annata ed era sotto pressione per recuperare il terreno perduto, un fattore che lo spinse ad affrettare la riabilitazione. Dopo un’operazione in artroscopia, Sampson rientrò dopo 27 gare nonostante il parere contrario di diversi medici che avevano suggerito tempi di guarigione molto più lunghi per salvaguardare la sua salute a lungo termine. Lui comunque recuperò in tempo per il finale di stagione dove contribuì con quasi 20 punti a partita nei playoff nonostante una condizione di forma precaria e dolori ricorrenti. Il rapporto con Fitch, però, peggiorò ulteriormente nonostante la sua abnegazione e a fine 1987 Sampson venne praticamente messo sul mercato.

I test successivi evidenziarono un ridotto spessore della cartilagine, ma questa diagnosi non lo mise al riparo da una altra serie di cattive scelte che hanno finito per distruggere il resto della sua carriera. Mentre le sue cartelle cliniche cominciavano a prendere il sopravvento sul basket giocato, coach Fitch non si lasciò sfuggire le lusinghe dei Golden State Warriors e spinse per uno scambio per Eric "Sleepy" Floyd e Joe Barry Carroll. La squadra della baia era in pessime condizioni e sperava di recuperare fisicamente Sampson per invertire il corso negativo degli eventi. Un carico di responsabilità che gravò ulteriormente sulle fragili articolazioni di un atleta rientrato in campo sempre troppo presto per guarire completamente. Difficile stabilire se questi recuperi veloci e dai risultati disastrosi siano diretta conseguenza della fretta della sue squadre o legati esclusivamente al suo unico giudizio: fatto sta che la sua carriera evapora.

Il prodotto di Virginia era ansioso di dimostrare le sue qualità in un sistema di gioco più dinamico, disegnato da veloci transizioni per sfruttare fino in fondo le sue caratteristiche. Dell’esperienza agli Warriors restano tante illusioni, poche partite e qualche riflesso filmato dove come al solito regala qualche lampo di classe purissima e si prende il lusso di avviare contropiedi con sorprendenti passaggi dietro la schiena. Golden State lo scaricò dopo due stagioni in cui il suo status passò da quello di uomo-franchigia a quello di componente della rotazione di secondo piano. Giocò ancora a Sacramento e Washington senza troppo successo, cercando poi di rivitalizzare la sua carriera con esperienze nel campionato spagnolo e nelle leghe minori dopo tre anni di sostanziale inattività. Gettò definitivamente la spugna nel 1995 quando Houston e la sua stella Olajuwon stavano celebrando il secondo titolo consecutivo e il suo nome era ormai solo un vago ricordo. Dopo anni di polemiche per il mancato inserimento, la Hall Of Fame si ricordò di lui celebrandolo nel 2012 in bella compagnia di Reggie Miller. Un riconoscimento doveroso preceduto un anno prima da un bel gesto dei Rockets che, evidentemente desiderosi di ricucire i rapporti, gli avevano dedicato delle serate d’onore per celebrare la nomina nel miglior quintetto degli anni ‘80 della franchigia.

La retrospettiva a lui dedicata nel 2012 per l’introduzione nella Hall of Fame.

Recentemente la sua vecchia linea di sneaker personalizzate lanciate nel lontano 1983 è tornata in produzione incontrando il favore del grande pubblico e di qualche giocatore in attività che le ha indossate e messe in mostra con un certo orgoglio. Difficile capire cosa sarebbe successo se Ralph Sampson non fosse rimasto per un anno di troppo al college in una squadra che ormai non riusciva nemmeno a servirlo sotto canestro per approdare ai Lakers al posto di James Worthy. Ancora più complesso stabilire se un titolo NCAA o un carriera più lunga con i Rockets avrebbe contribuito a elevare il suo status in modo decisivo o le dirette conseguenze di uno scambio con Michael Jordan al suo interno. Quello che è certo è che senza problemi particolari alle ginocchia il suo nome avrebbe probabilmente fatto capolino nella stessa categoria di stelle del calibro di David Robinson, Patrick Ewing e forse lo stesso Hakeem Olajuwon. La sua carriera collegiale va poi inserita vicino ai grandi monumenti del gioco e probabilmente costeggia le prime dieci posizioni di ogni epoca a dispetto di una sola Final Four conquistata.

Una bacheca pressoché vuota a livello di vittorie di squadra e qualche riconoscimento individuale non restituiscono neanche minimamente la completezza di un giocatore che sapeva fare tutto a un’altezza proibitiva per tanti altri pari-ruolo, ma anche una fragilità mentale ancora prima che fisica che ha finito per farlo dimenticare dagli appassionati del gioco.

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