Per quanto sarebbe pretestuoso attribuire a meno di 70 partite di regular season un valore definitivo, è innegabile come lo scorcio di stagione che si è giocata tra ottobre e marzo avesse già emesso i primi verdetti. Le due squadre di Los Angeles, insieme ai Milwaukee Bucks, apparivano sempre più padrone del proprio destino, con quella specie di triangolare giocato qualche giorno prima della sosta (con LeBron James e i Lakers a piegare sia Bucks che Clippers una dietro l’altra) che aveva mostrato un livello di pallacanestro difficilmente raggiungibile dalle altre pretendenti. Poi una farfalla ha sbattuto le ali, il vento è cambiato, Rudy Gobert ha toccato qualche microfono e tutto quello che davamo per scontato e prevedibile è diventato soltanto un’illusione.
Come altri ambiti della nostra vita, anche la NBA è stata costretta a fermarsi, mettere in attesa le proprie aspettative, ripensare il futuro. Mi rendo conto che sia pretestuoso anche pretendere che quelle prime quasi-settanta partite non esistano più – le posizioni e il record in classifica rimangono, così come il valore degli interpreti: sono passati tre mesi, non tre anni – ma è altrettanto innegabile come la NBA che tornerà avrà qualcosa di diverso, di anomalo e inesplorato.
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Tutte e 22 le squadre giocheranno sullo stesso campo, allo stesso fuso orario, senza spostamenti aerei e senza poter contare sul fattore-campo o sulla comodità della routine; per la prima volta nelle rispettive carriere, i giocatori riprenderanno a giocare dopo una sosta di oltre 100 giorni e torneranno in campo dopo un nuovo training camp.
In un clima così incerto e imprevedibile, dunque, viene spontaneo chiedersi se gli equilibri visti in precedenza non debbano essere ridiscussi. Lo star power delle due squadre di L.A. e l’organizzazione Giannis-centrica dei Bucks saranno ancora la forza dominante, oppure andranno incontro a nuove difficoltà? E se così fosse, chi potrebbe approfittare della situazione per piazzare il colpo grosso? Abbiamo provato a immaginarci quali possano essere le “mine vaganti” della bolla di Orlando, quelle squadre che non partono con i favori del pronostico ma che potrebbero ritrovarsi a fare più rumore di quanto preventivato.
I Denver Nuggets hanno scolpito gli addominali
Parafrasando le parole del Presidente della franchigia Tim Connelly, i Nuggets potrebbero aver messo su il fisico adatto per sopravvivere in circostanze particolari. Durante la sospensione Nikola Jokic ha vissuto una sorta di propria educazione siberiana e l’interesse per vederlo all’opera basterebbe di per sé a giustificare l’attesa. Jokic era, è, e resta il centro focale di ogni speranza della franchigia, ma Denver potrebbe avere anche altri jolly da pescare dal mazzo per scombinare le carte.
Il roster profondo e omogeneo potrebbe essere un vantaggio in una competizione più corta, dando a coach Michael Malone un’intercambiabilità preziosa soprattutto qualora il rischio contagio dovesse togliere qualche pezzo della rotazione. Se il fattore campo era una delle armi migliori a favore dei Nuggets, l’idea di non dover affrontare una serie in trasferta a Los Angeles o Houston potrebbe essere perfino una notizia migliore – visti i recenti trascorsi lontano dal Pepsi Center – così come il non dipendere da un pattern tattico predefinito, ad esempio il tiro da tre punti, per essere pericolosa.
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La curiosità di sapere se è davvero Jokic o Christian Bale che interpreta Jokic è tra i principali motivi d’interesse della ripresa.
Denver soprattutto potrà lavorare di nuovo sui problemi che erano emersi durante la stagione: nelle prime 19 partite della stagione i Nuggets avevano la miglior difesa della lega e avevano dimostrato di saper difendere organicamente con tutti gli effettivi del roster sani e in buona condizione. Un discorso simile può essere fatto per un’altra arma che i Nuggets sembravano saper usare molto bene nella prima parte di stagione e che era andata poi scemando dopo la pausa per l’All-Star Game, ovverosia i rimbalzi offensivi: un fattore sempre cruciale nelle gare decisive della stagione.
Infine, la stessa condizione atletica potrebbe rappresentare una sliding door favorevole: dove potrebbero arrivare i Nuggets se due giocatori importanti per questo sistema come Will Barton e Paul Millsap trovassero confortevole la bolla di Orlando? E se il campione ridotto rendesse Michael Porter Jr. ancora più pronto? E se Jerami Grant – che si è detto disposto a scommettere su se stesso e rifiutare i 9.3 milioni della sua opzione per il prossimo anno – riuscisse finalmente ad aggiungere un'ulteriore dimensione? Insomma, occhio ai Nuggets.
La nuova dimensione dei Boston Celtics
Chi sembra aver già raggiunto un nuovo status e non vede l’ora di dimostrare il proprio valore sono i Celtics. Boston è l’esempio perfetto di squadra che era entrata in stagione con una faccia e si presenterà ad Orlando con un’altra. Dopo gli addii di Kyrie Irving e Al Horford e con Jaylen Brown e Jayson Tatum che venivano da un’estate deludente con la nazionale statunitense, i Celtics erano considerati una squadra valida ma non così tanto da potersi veramente inserire per la lotta al titolo.
Ai nastri di partenza tutti li mettevano almeno un gradino sotto Milwaukee e Philadelphia, e anche quando i Sixers hanno iniziato a perdere terreno durante la regular season (e nonostante i Celtics si fossero dimostrati squadra solida e organizzata) in molti continuavano a preferire una squadra come i Raptors – il che è anche legittimo, data la classifica. Poi però è esploso Tatum.
“And the answer is… Yes!”
Ancora più interessante di paragonare le cifre di Tatum delle ultime 15 partite – quelle del leap – alla sua stagione in generale, è paragonare quelle stesse cifre con la classifica dei migliori giocatori in stagione. Con 29.6 punti di media Tatum sarebbe il terzo miglior realizzatore della NBA dietro solo a James Harden e Bradley Beal, gli unici insieme a Russell Westbrook anche a prendersi più tiri dei suoi 21.2 a partita. Tatum tenta nove triple di media (nono assoluto) e le converte col 48%, un numero talmente irreale da porlo così al di sopra di qualsiasi altro giocatore con un volume di gioco comparabile al suo che è impensabile possa essere sostenibile in un lasso di tempo più lungo. Il giocatore dei Celtics è diventato una stella, il terminale offensivo di riferimento, quello a cui si mette la palla in mano negli ultimi due minuti di una partita punto-a-punto. Kemba Walker e Gordon Hayward – che in questi tre mesi hanno potuto guarire dai rispettivi problemi fisici – restano giocatori molto importanti per l’ecosistema di Stevens, ma l’esplosione di Tatum ha permesso ai Celtics di definire la propria gerarchia, e questo è un vantaggio considerevole.
I Celtics che si presenteranno a Disney World sono una squadra che vanta un’organizzazione impeccabile, un roster finalmente sano e uno dei primi 10-15 giocatori della lega. Tanto basta per considerarla una delle più serie pretendenti alla vittoria finale.
Daryl Morey, ora o mai più
Nessun General Manager ama rischiare più di Daryl Morey. Sempre alla ricerca del colpo, della visione, del giocatore che aggiusta e/o cambia la situazione, le idee di Morey sono il motivo per cui i Rockets possono considerarsi una contender da così tanto tempo e, allo stesso tempo, il limite che impedisce loro di trovare stabilità. Cambiare così tanto e così drasticamente necessita di periodi di stabilizzazione, dove imparare a conoscersi, trovare rimedi alle fluttuazioni (statistiche e stilistiche) che caratterizzano un determinato nucleo di esseri umani ancora prima che di giocatori. E cosa c’è quindi meglio di tre mesi dove tirare il freno, respirare, pensare a come migliorarsi, e ricominciare quasi da capo – ovvero da un nuovo training camp?
Chi ha bisogno di un rim protector?
Prima della sosta coach Mike D’Antoni sembrava aver trovato la collocazione ottimale per Russell Westbrook, con l’ex Thunder che nelle ultime 15 partite viaggiava a 31.7 punti di media con il 55% dal campo (!) e il 38.5% da tre. I numeri di Russ sono diretta conseguenza delle nuove geometrie garantite dallo scambio Clint Capela-Robert Covington, con Morey e D’Antoni che hanno finito di traccheggiare prendendo la situazione di petto, ribaltando la scacchiera tattica quel tanto che bastava per ritrovarsi con PJ Tucker e Covington a giocare da falsi lunghi in difesa e Westbrook a giocare da vero centro in attacco.
Nei 164 minuti in cui il quintetto Westbrook-Harden-House-Covington-Tucker è stato in campo, Houston ha sovrastato i propri avversari di 10.7 punti su cento possessi, lo stesso identico differenziale dei Milwaukee Bucks. D’Antoni ha detto che l’obiettivo per la ripresa è giocare ad un ritmo più alto, il che, se fosse vero (c’è sempre da convivere con lo stile di Harden) garantirebbe alla squadra quegli extra-possessi che nel corso di una serie possono fare la differenza, specie per una squadra abituata a prendersi 44 triple e passa a partita. Un mese storto al tiro e i Rockets potrebbero finire la stagione anticipatamente (si fa per dire) e vedersi destinati a una rivoluzione dirigenziale e non solo; eppure, c’è di che sperare. Eric Gordon è finalmente guarito dai problemi al ginocchio che lo hanno tormentato per tutta la stagione e in questa quarantena ha perso oltre 5 chili. Inoltre Elon Musk ha recentemente dimostrato che non è illegale per un rocket raggiungere qualcosa di straordinario anche d’estate: che possa essere d’ispirazione per James Harden e compagni?
Quanto pesa Zion Williamson?
Zion Williamson ha giocato 565 minuti in NBA. In 565 minuti Zion Williamson ha segnato 448 punti, preso 129 rimbalzi, tentato 152 tiri liberi, perso 51 palloni. Il campione è molto piccolo – 565 minuti distribuiti su 19 partite – talmente piccolo che probabilmente lo terrà fuori dalla conversazione sul miglior rookie della stagione (quantomeno per il primo posto). Eppure è bastato per permettergli impugnare il Guanto dell’Infinito e trasformare i New Orleans Pelicans da una squadra da lotteria a una delle migliori squadre della NBA. Non è un’esagerazione: nei 565 minuti in cui Williamson è stato in campo i Pelicans hanno tenuto un efficienza offensiva di 113.5 punti su cento possessi (solo Dallas ha fatto meglio), concedendo appena 103.1 punti (meglio di loro solo i Bucks, gli unici anche con un differenziale superiore) e migliorando in ogni parametro statistico. Zion è il migliore tra i suoi per assist su cento possessi, rimbalzi disponibili catturati, rimbalzi offensivi disponibili catturati, percentuale reale dal campo. Il quartetto Jrue Holiday-Lonzo Ball-Brandon Ingram-Derrick Favors, già estremamente positivo di suo (+15.6), diventa letteralmente il miglior quintetto della lega nel momento in cui Zion schiocca le dita e si materializza in campo.
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565 minuti sono bastati anche per metterlo sul primo trailer di NBA 2K per PS5, un evento visto da milioni di persone in giro per il mondo.
In questo momento i Pelicans sono distanti tre partite e mezzo dall’ottavo posto e avranno otto partite per agganciare il treno playoff. Il calendario sembrerebbe dalla loro parte – Sacramento (due volte), Utah, Clippers, Memphis (due volte), San Antonio e Orlando – e qualora dovessero riuscire a rientrare nelle migliori otto della Western Conference la faccenda diventerebbe interessante. La disparità di star power ed esperienza con i Lakers (probabili antagonisti in un primo turno che farebbe strofinare le mani alla lega) è abissale, ma l’atletismo, la volontà/capacità di correre per il campo, la freschezza mentale dei tanti giovani che non hanno niente da perdere e il Fattore Topolino (Campo Neutro per Novità fratto Incertezza Complessiva) potrebbero regalare grandi sorprese.
Una nuova stagione
Ovviamente tutto questo ha senso nel momento in cui la sosta e le condizioni uniche nelle quali verranno giocate le partite finiranno con l’avere davvero un peso specifico. Nessuno mette in discussione che LeBron James, Kawhi Leonard o Giannis Antetokounmpo restino gli uomini da battere, ma se c’è una cosa che dovrebbe averci insegnato questo 2020 è che non esistono più certezze. I Philadelphia 76ers avranno la possibilità di dare un colpo di spugna a una stagione oltremodo traballante, una cosa che non capita praticamente mai; anche gli Utah Jazz potevano premere il tasto reset e diventare interessanti, ma l’intervento al polso destro che ha chiuso la stagione di Bojan Bogdanovic rischia di aver definitivamente spento ogni speranza di avanzare nel cuore dell’estate.
E poi quante speranze posso avere gli Indiana Pacers con Victor Oladipo che ancora deve decidere se giocare o no? E i Blazers dei rientranti Jusuf Nurkic e Zach Collins? Quanto è realmente ingrassato Luka Doncic? Saranno bastati tre mesi ad Andre Iguodala per rimettersi in forma e rendere gli Heat una seria pretendente ad Est? Oltre a una pandemia globale e il riacutizzarsi della questione razziale, questo 2020 diventerà anche l’anno nel quale gli Spurs non parteciperanno ai playoff dopo ventidue stagioni consecutive? E se incredibilmente vincessero ancora i Toronto Raptors?
La NBA rimetterà in piedi la propria stagione all’interno di un involucro sottilissimo. La bolla, come ormai siamo abituati a definirla, nella quale verrà eletto il nuovo padrone della lega sarà la casa di uno spettacolo unico, inimmaginabile, del quale ancora oggi non siamo in grado di distinguere ogni confine e nel quale si spera che quantomeno la salvaguardia della salute dei partecipanti possa essere garantita. Anche qua, però, non c’è certezza. Chiunque vincerà il titolo diventerà un simbolo della frattura temporale-emotiva che ha caratterizzato noi stessi e la nostra quotidianità per molto, molto tempo. Avremo un campione NBA a ottobre. Avremo la NBA d’estate e dei playoff in concomitanza con la stagione di football.
Spero che a qualcuno venga in mente di costruire una statua per ricordarci di tutto questo periodo quando sarà finito, così che qualcuno prima o poi la tirerà giù o la imbratterà di vernice. Possiamo immaginarci i più distorti e distopici scenari per la fine del mondo ma non riusciamo proprio a capire chi possa vincere questo benedetto titolo NBA. Avete qualche suggerimento?