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Come la NBA ha deciso di tornare a giocare
05 giu 2020
La lega ha annunciato il suo piano per portare a termine la stagione 2019-20.
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11 min
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Sono passati 85 giorni da quando la NBA ha dovuto alzare bandiera bianca e bloccare la stagione 2019-20 per via del coronavirus. Dopo l’annuncio di ieri che la lega riprenderà il prossimo 31 luglio ne passeranno altri 56. In questi lunghissimi 141 giorni senza pallacanestro NBA in un momento in cui la stagione sarebbe dovuta arrivare al suo picco, la lega ha dovuto fare i conti con un improvviso senso di mortalità: dopo anni a pensare che la crescita sarebbe stata continua e inarrestabile — tanto da puntare, neanche troppo sommessamente, al primato economico e sociale del football come sport di riferimento negli Stati Uniti, superando gli 8 miliardi di ricavi previsti —, il commissioner Adam Silver si è ritrovato improvvisamente davanti alla concreta possibilità che il gioco si rompesse irreparabilmente.

Per esplorare le motivazioni e i ragionamenti che hanno portato la NBA a decidere di tornare in campo bisogna ricondurre ogni scelta a tre fattori fondamentali, in rigoroso ordine di importanza: il fattore economico, il fattore sanitario e il fattore sportivo. Siamo ormai tutti abbastanza grandi per capire che, al netto delle dichiarazioni di facciata, la sicurezza dei giocatori e degli addetti ai lavori non viene al primo posto nelle teste della NBA. Se davvero fosse la priorità assoluta e inderogabile, nessuna lega professionistica sportiva potrebbe ragionevolmente tornare in campo fino a quando non ci sarà un vaccino per il COVID-19 per non esporre i propri membri al rischio di contrarre la malattia. Il che significa oltre un anno di stop, saltando non solo il resto della stagione 2019-20 ma probabilmente anche tutta la 2020-21. E neanche una lega ricca come la NBA può permettersi di saltare un anno e mezzo di introiti senza finire gambe all’aria, o quantomeno ripresentarsi alla possibile ripartenza in condizioni totalmente diverse rispetto a come si era interrotta — tanto da uscirne trasfigurata.

Quindi, senza girarci tanto attorno, la NBA torna in campo per garantirsi una sopravvivenza innanzitutto economica, cercando di perdere il minor numero di soldi rispetto a quanto aveva messo in preventivo di incassare. Il resto delle decisioni che sono state prese fino ad arrivare al formato proposto da Adam Silver e accettato dai 30 proprietari della lega è un lavoro politico, sanitario e sportivo per cercare il giusto compromesso tra tutte le parti in causa.

https://twitter.com/NBA/status/1268619531880038401

Il tweet con l’annuncio del voto dei proprietari, approvando la proposta di Silver con 29 voti favorevoli: gli unici a dire no sono stati i Portland Trail Blazers, che avrebbero preferito un formato più innovativo e che tenesse conto delle partite di Orlando per la Lottery del Draft (di fatto, sperando di guadagnare posizioni nel caso in cui le cose andassero male).

In cosa consiste il piano di Adam Silver

Come era stato ormai paventato da settimane, la NBA giocherà tutte le sue partite rimanenti al Disney World Resort di Orlando, eliminando così i rischi di infezione dovuti ai continui spostamenti in aereo dei giocatori da una parte all’altra degli Stati Uniti che fanno parte della NBA stessa sin dalla sua nascita. La scelta è ricaduta su Disney World per una serie di motivi legati ai rapporti commerciali stretti con Disney (proprietaria di ABC e ESPN, che detengono i diritti delle partite) e la possibilità di chiudere e isolare gli spazi per le partite trattandosi di una proprietà privata (al contrario di quanto sarebbe successo a Las Vegas, l’altra location presa in considerazione), oltre alle infrastrutture già presenti in termini di campi televisivi cablati (almeno tre), alberghi e strutture di allenamento.

Trovata la location, Silver ha dovuto affrontare la questione di quante squadre fossero necessarie per portare a termine la stagione. Le proposte sul tavolo erano quattro: invitare solo le 16 squadre qualificate per i playoff al momento della sospensione della stagione e cominciare direttamente dalla post-season; allargare a 20 squadre creando una fase a gruppi stile Olimpiadi/Mondiali in cui solo otto sarebbero poi avanzate al secondo turno di playoff; richiamare 22 squadre per una fase con partite di regular season (definite come “seeding games”), un mini-sfida play-in e playoff completi da sette partite; e infine riprendere con tutte le 30 squadre cercando di portare a termine la stagione nella maniera più simile alla normalità che abbiamo conosciuto fino a marzo.

La proposta che è riuscita maggiormente a centrare il giusto numero di compromessi tra le parti è quella delle 22 squadre: la prima da 16 non ha incontrato il favore né economico (quantificabile in svariate centinaia di milioni di dollari persi, soprattutto in diritti televisivi locali) né sportivo (specialmente da parte dei giocatori, che hanno richiesto un minimo di partite di rodaggio per poter affrontare i playoff in forma accettabile dopo il più lungo periodo di inattività delle loro vite). Quella con la fase a gruppi, per quanto avesse alcuni aspetti interessanti dal punto di vista economico con 80 gare “vere” da disputare, è stata ritenuta fin troppo rivoluzionaria e soprattutto avrebbe stravolto l’aspetto sportivo della vicenda, di fatto quasi annullando quanto fatto in oltre 60 partite di regular season. Quella con tutte le 30 squadre, per quanto economicamente più remunerativa in termini di diritti tv, è stata quasi subito accantonata per motivi sia sanitari (meno squadre = meno persone presenti = meno rischio di contagio) che sportivi (con che spirito e quali giocatori si sarebbero presentati i Golden State Warriors già eliminati dai playoff?).

Ventidue squadre — le prime otto di ogni conference e quelle entro sei gare di distanza dall’ottavo posto, vale a dire Portland, New Orleans, Sacramento, San Antonio e Phoenix a Ovest e Washington a Est — giocheranno quindi otto partite ciascuna per un totale complessivo di 88 partite da spalmare su un calendario ancora da annunciare, ma che dovrebbe ricalcare quello rimasto in sospeso (tolte ovviamente le otto squadre rimaste fuori dalla bolla) fino alla definizione delle sedici partecipanti ai playoff.

La NBA ha dovuto trovare un compromesso soprattutto per quanto riguarda il cosiddetto torneo play-in, una serie di partite da disputare per guadagnarsi l’ottavo posto utile per i playoff di cui si discute da tempo (specie dopo l’ottimo successo della sfida diretta tra Denver e Minnesota nell’ultimo giorno di regular season di qualche anno fa) e che sarebbe potuto entrare nel calendario della prossima stagione, se non fosse arrivato il coronavirus a sconvolgere i piani del pianeta Terra. Trovandosi nella necessità di incentivare la competizione per le sei squadre attualmente fuori dalla zona playoff e, allo stesso tempo, difendere quanto fatto nel corso della regular season dalle squadre ora come ora qualificate per la post-season, la NBA ha trovato un compromesso più o meno a metà strada.

Se l’ottava squadra in classifica avrà un vantaggio sulla nona superiore alle quattro partite (ora Orlando a Est ne ha 5.5 su Washington, mentre Memphis ne ha 3.5 su Portland), allora avanzerà direttamente ai playoff. Se invece questo distacco sarà inferiore, ottava e nona si affronteranno in uno scontro diretto: se vince l’ottava, passa ai playoff; se vince la nona, la sfida si ripete e chi vince va ai playoff. Di fatto la possibilità che a Est non ci sia una sfida play-in è più che concreta, mentre a Ovest — essendoci cinque squadre coinvolte a caccia di Memphis, per quanto le chance di Phoenix siano scarsissime — dovrebbero esserci maggiori chance di vedere questo potenziale doppio scontro.

Tra le molte domande che non hanno trovato una risposta precisa, Zach Lowe da giorni ormai ne fa una: perché Phoenix e Washington (quindi 70 persone complessive) sono state inserite nella bolla, se le loro chance di agganciare i playoff sono prossime allo zero?

Una volta risolta la regular season, la NBA ha scelto la strada più conservativa e remunerativa mantenendo il classico formato con divisione tra Eastern e Western Conference con quattro turni di playoff e serie da sette partite, condensandole nel minor tempo possibile (anche con possibilità di partite in back-to-back) in modo da arrivare a un’eventuale gara-7 delle Finals non oltre il prossimo 12 ottobre. La lega aveva inizialmente accarezzato l’idea che le sedici squadre non venissero divise per conference (essendo di fatto azzerate le limitazioni dovute alle distanze dei viaggi) bensì per record dalla 1 alla 16, ma la visione conservativa ha prevalso per non alterare ulteriormente una stagione che non potrà essere considerata come le altre per via dei 141 giorni di stop che l’hanno spezzata in due.

Una (doppia) stagione con l’asterisco?

In una lega ossessionata dalle etichette si parla già della 2019-20 come una stagione “con l’asterisco”, di fatto sottintendendo che chiunque vincerà il titolo non sarà un degno campione. A stretto rigor di logica, il titolo 2019-20 non può in nessun caso essere considerato normale, visto che — se tutto andrà secondo i piani — durerà quasi 12 mesi interi. Però chiunque vincerà l’anello lo avrà fatto superando quattro serie di playoff da sette partite, vincendo quindi le fatidiche 16 partite che anche negli anni passati incoronavano la squadra vincitrice. Non è che le regole del gioco sono state cambiate in maniera tale che basta vincere una sola partita secca per portarsi a casa il Larry O’Brien Trophy: anche negli anni dei lockout, pur con un numero ridotto di partite di regular season, i formati dei playoff erano rimasti in linea con quelli precedenti. Perciò la stagione 2019-20, per quanto unica come tutto quello che è accaduto in questi ultimi mesi nel mondo, può essere equiparata alle stagioni 1999 e 2012. Poi sta alla sensibilità di ognuno considerarla con l’asterisco oppure no.

Quello che la riunione dei proprietari di ieri ha cominciato a programmare è anche la prossima stagione NBA, che ha una serie di date quantomeno ipotizzate: il 25 agosto per la Lottery del Draft; il 15 ottobre per le scelte delle squadre; il 18 ottobre per l’inizio del mercato dei free agent e il 10 novembre per i training camp delle squadre, con la data — ancora non ufficiale e ancora da discutere con l’associazione giocatori, che pare non l’abbia presa benissimo — dell’1 dicembre per l’inizio della stagione 2020-21. Una data anticipata rispetto a quella prevista per Natale ma sulla quale mancano ancora moltissimi dettagli cruciali, probabilmente impossibili da immaginare per la NBA stessa in questo momento: si giocherà di nuovo ciascuno nella propria arena viaggiando di città in città? Ci saranno i tifosi sugli spalti, o almeno una parte di essi? Si disputeranno comunque 82 partite o si ridurrà il numero di gare? I playoff termineranno in tempo per permettere ai giocatori di prendere parte alle Olimpiadi di Tokyo? E con un periodo di off-season decisamente diverso tra le squadre (otto sono già in vacanza di fatto da 3 mesi e lo rimarranno per altri 5, le finaliste avranno potenzialmente meno di 30 giorni tra la fine della serie decisiva e il training campo della prossima stagione), l’equilibrio competitivo può essere ragionevolmente garantito oppure anche quella 2020-21 andrà considerata come una stagione con l’asterisco?

Queste e tantissime altre domande rimangono ancora senza risposta, specialmente sui protocolli medici che la lega intende adottare per la bolla di Orlando. Henry Abbott, ex capo dei blog di TrueHoop sul sito di ESPN, ha scritto un pezzo decisamente aggressivo nei confronti della lega e della gestione comunicativa durante gli ultimi mesi, in cui specialmente Adam Silver si è fatto vedere molto poco in pubblico e sul fatto che, sebbene sia stato annunciato che qualsiasi decisione sarebbe stata guidata dai dati e non dalla data, abbiamo avuto prima la data rispetto ai dati. E se alcune delle 20 domande che ha sottoposto alla NBA — senza ottenere ancora risposta, seppur siano attese in una conferenza stampa prevista per la prossima settimana — sono fin troppo provocatorie, come quella che chiede “Cosa succede se un giocatore tossisce in campo?”, è comunque giusto che si apra un dibattito su come la lega intende affrontare la situazione e gestire ciò che potrebbe accadere.

Perché anche se la NBA ha annunciato il suo piano per tornare in campo, è pur sempre il coronavirus a decidere cosa succederà in futuro. E se un caso isolato di COVID-19, preso per tempo con tamponi su base quotidiana, può essere contenuto, cosa succederebbe se — ipotizziamo — otto membri dei Los Angeles Lakers tra cui LeBron James ed Anthony Davis dovessero ammalarsi all’improvviso durante i playoff, impedendo loro di avere un numero legale per scendere in campo? La squadra verrebbe eliminata dai playoff con effetto immediato? O i giocatori rimasti in piedi dovrebbero comunque giocare partite dal contenuto cestistico pari a zero, con effetti economici e di reputazione disastrosi?

Ancora non lo sappiamo. Il primo passo per tornare in campo — quello più importante e maggiormente atteso da tutti gli appassionati — è stato fatto, il resto però è un territorio inesplorato.

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