Tra le tante cose ai limiti dell’assurdo che abbiamo dovuto subire nel 2020 ci sono stati anche i primi playoff NBA senza i San Antonio Spurs dal 1998, cioè da quando hanno scelto Tim Duncan al Draft aprendo una delle dinastie più longeve dello sport professionistico. Una delle poche certezze alla quale sapevamo di poterci aggrappare anche nei momenti più difficili ci è stata brutalmente sfilata sotto i piedi.
Per questo motivo la corsa verso i playoff degli Spurs di questa stagione non rappresenta più la consuetudine alla quale eravamo abituati, ma è bensì enigmatica, quasi impensabile e allo stesso tempo estremamente coerente con l’identità neroargento. Gli Spurs hanno vinto 18 delle prime 33 partite giocate nel 2020-21, hanno uno dei migliori record in trasferta di tutta la lega (9-5) e sono più vicini al quarto posto (cioè al fattore campo) che a finire fuori dalla griglia del torneo play-in. Gli Spurs sono una squadra solida, poco spettacolare come vuole la tradizione, un gruppo metodico che segue uno spartito anche inusuale, come sempre leggermente in controtendenza con il resto della lega (per dire: anche per quest’anno sono tra gli ultimi per triple prese a partita), ma sono anche una squadra molto più “normale”.
Certo, il controsenso logico degli Spurs è sempre stato questo: la normalità. Ma mentre fino a qualche anno fa normalizzare significava far sembrare semplice vincere 50 partite ogni stagione (per vent’anni) magari raggiungendo spesso la finale di conference, quest’anno con un roster composto per metà da veterani in scadenza di contratto (LaMarcus Aldridge, DeMar DeRozan, Patty Mills) e giovani da sviluppare i texani sembravano destinati a ripetere la ricetta insipida proposta la scorsa stagione, nella avevano faticato sia a perdere un numero di partite sufficiente per entrare definitivamente in modalità rebuilding sia a vincerne abbastanza per arrivare ai playoff.
Invece ancora una volta gli Spurs hanno saputo normalizzarsi, fare in modo che il loro purgatorio (lo stesso che, va ricordato, da quattro anni li pone in una zona grigia del tabellone: San Antonio è settima così come era arrivata settima quattro anni fa) appaia diverso da quello degli altri, riuscendo a eludere limiti e difetti che per molte altre franchigie sarebbero mortali.
Tutto parte dalla difesa
Gli Spurs hanno un record abbondantemente positivo nonostante siano una delle squadre che tira peggio dal campo, nonostante il declino vertiginoso di Aldridge (che è stato ufficialmente messo sul mercato e non giocherà più a San Antonio), nonostante le assenze per il COVID-19 o per infortunio. Gli Spurs sono settimi nonostante il loro quintetto più utilizzato venga sovrastato di quasi 13 punti su cento possessi (!). Davanti a questi dati impietosi, le risposte - come spesso accade con gli Spurs - vanno cercate nella metà campo difensiva.
Dopo due anni di appannamento Gregg Popovich è tornato a mettere in piedi una difesa degna del suo nome, che con 109 punti concessi su cento possessi è la nona per efficienza della lega. Anche in questo caso, però, le cose non sono così semplici come appaiono in superficie. Prendiamo la protezione del ferro, vistosamente migliorata rispetto alla scorsa stagione grazie alla presenza di Jacob Poeltl: se da una parte soltanto tre squadre concedono meno del 60.4% dei texani, dall’altro gli Spurs sono anche tra quelle squadre che più concedono tiri del genere.
Oltre a essere settimo per stoppate a partita, l’austriaco è diventato anche uno dei migliori rim-protector della lega, costringendo gli avversari a tirare con oltre 10 punti percentuali peggio rispetto alle medie in stagione quando c’è lui nei pressi del ferro. Poeltl ha saputo ritagliarsi un ruolo anche nella metà campo offensiva, bravo nel gestire i tempi dei consegnati quando il pallone transita dalle sue mani.
Soltanto i Milwaukee Bucks contestano più tiri da due punti di San Antonio, ma a differenza di altre difese di vertice il numero di deviazioni o palle rubate è molto inferiore. Anche la difesa interna al di fuori del pitturato è piuttosto mediocre, mentre quella perimetrale da inizio stagione fatica vistosamente. Gli Spurs sono tra le peggiori squadre della lega nel tenere il proprio riferimento su cambio da pick and roll e questo li costringe a dover compiere delle scelte difficili in rotazione, spesso perdendo contatto con i tiratori oltre l’arco nel tentativo di impedire l’accesso dentro l’area – un mantra, questo, sempre più attuale nella NBA odierna. Il risultato è piuttosto impietoso: 25esimi per percentuali concesse dalla zona centrale del campo, 24esimi dagli angoli (42.3%) e addirittura 27esimi in situazione di triple completamente aperte.
Ancora una volta è la parola “normale” a venire in aiuto, stavolta declinata sotto forma di applicazione ed esecuzione. Come da tradizione gli Spurs sono una squadra che regala pochissimo, che riesce a fare bene le piccole cose, massimizzando l’impatto dei giocatori in ogni possesso indistintamente dal loro talento. In questo ha giocato un ruolo fondamentale il ritorno ad alti livelli di Dejounte Murray, la cui natura flessibile e atletica ha ridato alla squadra un leader difensivo al cui battito affiancare quello di tutti gli altri.
La fisionomia tecnica di Murray è quella che definisce l’anima degli Spurs. Così come Murray è uno dei clienti più scomodi in difesa uno-contro-uno, gli Spurs sono la miglior squadra in isolamento difensivo; così come Murray è una delle migliori guardie a rimbalzo di tutta la NBA, così San Antonio è tornata a dominare il proprio tabellone con maggior sicurezza. Migliorare a rimbalzo ha permesso agli Spurs di tornare a controllare meglio il ritmo delle partite, un dato che produce due eccellenze: la miglior difesa in transizione della lega e la squadra che perde meno palloni. “Nothing is given, everything is earned” direbbe LeBron James: con gli Spurs è così da quasi trent’anni.
Per la quarta stagione consecutiva Murray ha saputo ridurre il numero delle palle perse per cento possessi (appena 7.5) e il tiro sta diventando più fluido e pulito.
Anche nella metà campo offensiva Murray sta vivendo la sua miglior stagione in carriera, con 18.3 punti e 6.2 assist per 36 minuti, ma rispetto all’altra metà campo dove tutto sembra venirgli facile in attacco c’è ancora molto lavoro da fare. Il limite più evidente è la riluttanza nell’andare al ferro, prerogativa imprescindibile per un creatore di gioco di alto livello. Magari Murray ha ancora bisogno di tempo per sbloccarsi mentalmente, avendo ancora negli occhi il ricordo del tremendo infortunio di due anni fa, ma l’incapacità di mettere maggiormente sotto pressione le difese avversarie limita il potenziale offensivo di una squadra (20esima per efficienza) che spesso ha nel solo DeRozan un giocatore capace di costruire qualcosa a giochi rotti.
Il peculiare talento di DeMar DeRozan
Da quando è arrivato tre anni fa in Texas, DeRozan sta vivendo sicuramente la sua miglior stagione. Con i suoi 21.2 punti e 7.7 assist (massimo in carriera) per 36 minuti, DeRozan è l’unico giocatore nel roster degli Spurs in grado di battere il proprio avversario dal palleggio con regolarità, una qualità imprescindibile per una squadra spesso farraginosa nel dispiegare il proprio attacco a metà campo.
Come è sempre stato nel corso della sua carriera, DeRozan è un giocatore estremamente difficile da accettare per la propria squadra. L’esperimento di affiancarlo a LaMarcus Aldridge è definitivamente fallito: ma se di Aldridge si possono ricordare due stagioni (2017-18 e 2018-19) nelle quali non solo il suo impatto su due metà campo era imprescindibile ai fini del risultato di squadra, ma dove ci si muoveva al suo ritmo (è indicativo come in due anni gli Spurs siano passati dal giocare 13.8 situazioni di post-up a partita ad appena 4.1), per DeRozan le cose sembrano sempre leggermente fuori sincro. I suoi spaccati dub-step in isolamento sono sublimi da vedere, oltre che difficilissimi da eseguire, ma da soli non sono sufficienti a elevare il valore di una squadra; così come, al tempo stesso, non è mai facile trovare degli altri giocatori da mettergli attorno che siano in grado di massimizzarne i pregi cercando di coprirne i difetti.
La miglior prestazione stagionale di DeRozan, uno degli attaccanti old school più belli da veder giocare al giorno d’oggi.
Approfittando dei problemi fisici di Aldridge, per il quale si cercherà uno scambio prima di pensare a un possibile buyout, Popovich già nella bolla di Orlando aveva dato una netta sistemata allo scacchiere tattico. Prima della sosta per la pandemia gli Spurs avevano giocato quasi 1.000 minuti con Aldridge e uno tra Trey Lyles e Poeltl insieme in campo, un numero sceso a meno di 60 minuti di utilizzo nelle ultime 40 partite. La promozione nel quintetto base di Keldon Johnson e Lonnie Walker IV ha poi permesso al coaching staff di dare a DeRozan le chiavi dell’attacco, affidando a loro i compiti difensivi principali.
Malgrado la presenza di Murray, a Walker IV toccano i ball handler più pericolosi (i Donovan Mitchell, Damian Lillard e Ja Morant della lega), mentre a Johnson toccano gli esterni più forti, da LeBron James a Kawhi Leonard fino a Zion Williamson e Christian Wood. L’energia e l’atletismo proposto da entrambi hanno ridato dinamismo e fisicità a un reparto (fino allo scorso anno) troppo guard oriented, e se mentre Walker IV è forse il tiratore perimetrale con più potenziale del lotto, Johnson è poderoso nello spingersi fisicamente verso il canestro rimbalzando contro i diretti avversari. Inoltre va ricordato come gli Spurs siano nel bel mezzo di una ricostruzione e come tale hanno bisogno di permettere ai propri giovani di fare esperienza.
Nonostante dei numeri impietosi (da -5.6 di Net Rating con Johnson in campo a +6.3 con lui fuori; da -7.5 a +8.2 con Walker IV) entrambi possiedono un potenziale intrigante. La velocità con cui Johnson riesce ad andare da una parte all’altra del campo, abbinata alla faccia tosta di andare a chiudere al ferro davanti a Anthony Davis sono un toccasana per quelli che seguono San Antonio durante le lunghi notti di regular season.
Il ritorno della Bench Mob
Per quanto il nuovo disegno tattico abbia portato dei benefici è altrettanto indubitabile che molti dei problemi della scorsa stagione siano rimasti. Il quintetto titolare, disastroso nei 220 minuti con Aldridge, non ha prodotto risultati incoraggianti neanche con la presenza di Poeltl (-3.9 in 75 minuti). La chiave di tutto potrebbe essere Derrick White, il cui impatto nelle appena otto partite disputate prima della pausa è stato esaltante – soprattutto tenendo conto dei problemi al dito del piede che continuano a tormentarlo da mesi, costringendolo anche ad un’operazione estiva.
White è l’uomo in grado di portare ordine a un sistema che lo ricerca come l’ossigeno, la pedina che permette a tutte le altre di trovare il proprio posto. Nei 53 minuti in cui gli Spurs hanno potuto schierarlo al fianco di Murray, DeRozan, Johnson e un lungo i numeri parlano chiaro (+19 di Net Rating e un’efficienza difensiva inferiore ai 100 punti subiti), così come è lampante la sua capacità di generare tiri ad alta percentuale per i compagni.
I numeri per 36 minuti sono molto simili a quelli di Murray (18 punti e 5.5 assist), e mentre il primo è l’anima difensiva, White potrebbe ambire a diventarlo per quella offensiva. Nei 189 minuti in cui è stato in campo i texani viaggiano a quasi 118 punti segnati su cento possessi (rispetto ai 109 su base stagionale) grazie anche alla sua capacità di creare e rifinire.
Un altro giocatore che potrebbe permettere agli Spurs di trovare maggiore equilibrio potrebbe essere il rookie Devin Vassell, le cui qualità difensive gli hanno permesso di avere da subito un impatto positivo, ma considerando quanto poco Popovich tende a fidarsi delle matricole è più probabile che per questa stagione il suo ruolo resti limitato all’interno di una delle migliori panchine della NBA. All’interno della strabiliante categoria di numeri e record che da due decadi accompagnano il mito dei San Antonio Spurs ce n’è una davvero assurda: i texani possono vantare uno dei dieci migliori quintetti in uscita dalla panchina ininterrottamente dalla stagione 1998-99!
Che Popovich sia un trasformista ormai è cosa nota: da anni ormai le sue second unit non solo sono estremamente efficaci ma possiedono anche un’anima propria, una diversità nella normalità spursiana, che le fa risuonare come un grande staccato di jazz all’interno di un concerto per violino. Lo spirito guida è ovviamente quello di Patty Mills, le cui zingarate restano un toccasana per una franchigia che sembra acquisire maggiore forza nel fondere la propria identità in un melting pot di culture diverse. Il duo Murray-Mills affiancato da Poeltl, Vassell e un redivivo Rudy Gay sovrasta gli avversari di 28.9 punti su cento possessi, concedendo nel mentre appena 80 punti (!) su cento possessi e costruendo quei parziali senza i quali le vittorie sarebbero molte meno.
Lo spartito è il solito: la palla viaggia con maggiore fluidità, velocità, il ritmo della partita si alza, Mills spara da tre punti con una precisione misteriosa (40.2% in questa stagione, solo una volta sotto il 37% da quando è a San Antonio).
Pregi e difetti della normalità
Nonostante una buonissima prima parte di stagione, il futuro degli Spurs resta piuttosto complicato da interpretare. Difficilmente San Antonio può pensare di impensierire le migliori della conference quest’anno; al tempo stesso, il leitmotiv di domande aperte che continuano a non trovare risposta è affiancato dalla certezza di un nucleo più forte (o forse solo più pronto) di quanto era lecito attendersi.
Con gli Spurs non si sa mai quale parte del bicchiere guardare, se quella dell’organizzazione che riesce sempre a rimodellarsi in modo proattivo o quella di una franchigia che, dopo decenni di successi, da quattro anni continua a vivere in un limbo molto rischioso. Se doveste fare una previsione, oggi, considerando il talento a disposizione e la capacità di franchigie relativamente importanti come lo sono gli Spurs di attrarre free agent da fuori, dove li vedreste tra cinque anni? Riusciranno Murray e White a comporre quel tandem di guardie necessario a fare il salto di qualità? E quanto ancora il sistema di Popovich potrà coprire le magagne e lo scarso talento del roster? Quanto peserà l’impossibilità di attrarre uno dei migliori 20 giocatori della lega? E l’incapacità congenita degli Spurs di immettere nel proprio sistema anche giocatori provenienti da altri contesti, già formati da altri? Quanto hype dobbiamo avere sull’esplosione di Luka Samanic?
E per quale motivo questo passaggio di Vassell mi ricorda tremendamente il primo playmaking di Colui Che Non Deve Essere Nominato che ora sta ai Clippers?
Una cosa è certa: San Antonio è una franchigia che sta cambiando pelle. Quella di quest’anno potrebbe essere l’ultima squadra allenata da Popovich ed è anche appena la seconda squadra della sua leggendaria carriera da allenatore a non aver fatto i playoff nella stagione precedente. Non solo: è la più giovane squadra mai allenata da Popovich (26.8 anni di media) nonché la prima dal 2003 nella quale due giocatori di neanche 23 anni, Johnson e Walker, giocano almeno 27 minuti a sera – allora furono Stephen Jackson e Tony Parker.
Essere la franchigia più normale della NBA ha i suoi vantaggi e i suoi svantaggi. Nessuna organizzazione ha mai dimostrato di saper curare così bene quello che serve per cambiare pelle senza restare indietro, e allo stesso tempo nessun’altra organizzazione è mai sembrata così restia ad andare contro i propri comandamenti. Ma cosa succederà quando Popovich, l’uomo che - per metterla con le parole di Guardiola - ha costruito la cattedrale, non ci sarà più? I suoi discepoli la preserveranno come una reliquia o invece, se occorresse una rivoluzione per tornare grandi, avranno il coraggio di abbatterla?
Perché la cosa più assurda della normalità, ancora più dell’irritazione che provoca nei confronti di chi, anno dopo anno, è costretto a fare i conti con una franchigia che sembra non morire mai, è l’assuefazione che questa comporta. Sebbene apparisse impensabile prima dell’inizio della stagione gli Spurs cavalcassero verso i playoff anche quest’anno, a loro sembra una cosa normale. Ma se questo sia anche un bene o un male resta ancora da capire.