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Cosa pensare dello scambio Doncic-Davis che ha scosso l'NBA
03 feb 2025
Ma anche quella che ha portato Fox a San Antonio.
(articolo)
13 min
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Nah, hanno hackerato il profilo di Shams”. La reazione, tra gli altri, di Alex Caruso e Tyrese Haliburton era l’unica umanamente possibile, di fronte allo scioccante tweet comparso sabato in tarda serata americana (le prime ore del mattino italiano) sul profilo di Shams Charania. Al suo interno, una blockbuster trade completamente fuori dai radar e dalle previsioni, per non dire dal mondo: il passaggio di Luka Doncic ai Los Angeles Lakers, con Anthony Davis a fare il percorso inverso, diretto ai Dallas Mavericks (e gli Utah Jazz come “sponda” per oliare i meccanismi della trade). La bomba di mercato sembrava davvero troppo grossa, inattesa e mediaticamente sexy per essere vera, e così si è arrivati anche a dubitarne; poco più tardi però, alle 6.30 circa, ecco un altro aggiornamento dall’insider di ESPN, che iniziava con queste insolite parole: “Sì, è tutto vero”.

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Al confronto, lo scambio a tre squadre - Kings, Spurs e Bulls - che ha squarciato la nottata successiva, forzando il trasloco nelle ultime ore di altre due stelle come De’Aaron Fox (direzione San Antonio) e Zach LaVine (Sacramento), ci sembra rientrare nell’ordinario. O nel plausibile, almeno. Al di là del rumore per i nomi e i contratti finiti sul tavolo, l’affare ha coinvolto infatti una manciata di squadre e giocatori da cui ci si aspettava qualcosa nell’ultimo miglio di mercato, prima della trade deadline (giovedì 6 febbraio, ore 21 italiane). Con logiche più familiari e protagonisti più chiacchierati per uno scenario di questo tipo. Potrebbe trattarsi della proverbiale prima tessera del domino - pensavamo tutti sarebbe stato Jimmy Butler, e invece - che cadendo, sblocca una serie di altri incastri del mercato NBA.

Pochi giorni fa scrivevo qui su Ultimo Uomo che sarebbe stato “difficile immaginarsi una blockbuster trade”, e che probabilmente sarebbe stata “una settimana tranquilla”, almeno per noi osservatori esterni. Vi avevo anche avvisato, però: “le previsioni sono fatte per essere smentite - e se esiste una galassia dominata dall’imprevedibile, quella è la trade deadline”. Ed eccoci, una settimana più tardi, a commentare tutto e il contrario di tutto. Con l’obbligo di andare in ordine cronologico e partire dall’affare che ha portato Doncic in California, alla corte di LeBron James. Uno dei più clamorosi, sorprendenti e non convenzionali che si ricordino.

L’AFFARE DEL SECOLO, NELL’OMBRA
Nel giro di pochi minuti - per chi sabato sera e per chi domenica mattina - la news di Luka Doncic ai Lakers ha raggiunto milioni di schermi, in tutto il mondo. Abbiamo visto in diretta il momento in cui è finita sotto gli occhi di Kevin Durant e Bradley Beal, sulla panchina dei Suns, che l’hanno accolta con lo stesso stupore di tutti noi. Increduli, sconvolti. Luka ai Lakers, per AD, davvero?

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La trade è uscita dal nulla, letteralmente. Nessun indicatore lasciava intendere che le due squadre fossero sul punto di stravolgere i rispettivi roster e separarsi, a metà regular season, da Doncic e Davis; niente rumors, speculazioni o previsioni in tal senso, e neanche un po’ di quel drama che di solito anticipa le separazioni più drammatiche in NBA. È successo tutto all’improvviso, dopo una trattativa svolta evidentemente nell’ombra, e con una certa (misteriosa) fretta. Nessuno in giro per la Lega aveva fiutato qualcosa. I front office dei Mavericks (guidato da Nico Harrison) e dei Lakers (Rob Pelinka), con le rispettive proprietà ovviamente, hanno custodito il segreto a tal punto che perfino gli altri ventotto executive dell’NBA (o forse solo ventisette) non erano assolutamente preparati per uno scenario del genere. E questo, va detto, non depone esattamente a favore di chi avrebbe avuto tutto l’interesse a scatenare un’asta di mercato.

In ogni caso, il terreno su cui è stata edificata la trattativa - due squadre con un salary cap affollato e con ristretto margine di manovra - ha reso necessario l’inserimento, oltre a Lakers e Mavs, di una terza franchigia. Ovvero i Jazz, che hanno assorbito un salario (Jalen Hood-Schifino) per far funzionare l’affare, ottenendo due scelte al secondo round (entrambe al prossimo Draft) come ricompensa. Per completare la trade, Utah dovrà ora tagliare un giocatore (potrebbe essere PJ Tucker, ottenuto poche ore prima dai Clippers).

Venendo invece al piatto forte: Anthony Davis, Max Christie e la prima scelta dei Lakers nel Draft 2029. È questo il pacchetto confezionato da Rob Pelinka - senza neanche doverci pensare troppo a questo punto - e spedito in Texas in cambio di Luka Doncic. Oltre allo sloveno, a Los Angeles sono arrivati anche Maxi Kleber e Markieff Morris, scaricati da Dallas - che grazie a tutto ciò ha alleggerito i propri libri paga il giusto per scendere appena sotto la soglia della luxury tax.

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Una sforbiciata alle spese era nell’aria per Nico Harrison e soci, ma nessuno si sarebbe aspettato il modo con cui si è raggiunto il traguardo. Come hanno svelato i report delle ore successive, perfino i diretti interessati erano all’oscuro della trattativa - incluso (udite udite) LeBron James, che lo ha scoperto durante una cena a New York con la sua famiglia. Chissà quanti messaggi e chiamate saranno partite nei minuti successivi, da quel tavolo: di sicuro un paio saranno stati inviati all’amico e compagno di tante battaglie (e di un titolo), Anthony Davis; e magari anche un primo pensiero, due righe di benvenuto alla nuova spalla, Luka Doncic. Di sicuro, avrà fatto squillare qualche telefono all’interno di Klutch Sports e dei Lakers, chiedendo informazioni (e come sia possibile che non si sapesse nulla). Alla fine, LeBron si sarà dovuto rassegnare a qualcosa che probabilmente non gli era mai capitato: non avere voce in capitolo, e nemmeno conoscenza dei fatti, per un grosso movimento del proprio front office.


Anche per la point guard slovena “è stato uno shock”, secondo quanto riferito da Shams Charania. Lo ha confermato Doncic stesso in una lettera pubblicata sui social il giorno successivo: “Cara Dallas”, si legge, “sette anni fa sono arrivato qui da adolescente, per inseguire il mio sogno di giocare a basket al massimo livello. Pensavo che avrei trascorso tutta la mia carriera qui e desideravo con tutto me stesso portarvi un titolo”. Le sue previsioni e volontà coincidevano - a proposito di pareri non ascoltati dalla dirigenza di Dallas - con quelle di coach Jason Kidd, caduto anche lui dalle nuvole una volta emersa la breaking news, come tutti i membri del roster e dello staff tecnico della squadra.

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Neppure Anthony Davis, infine, aveva idea dell’imminente trasloco. Quando è arrivata la Shams bomb, AD aveva appena scritto sul gruppo WhatsApp con i suoi compagni, commentando la vittoria ottenuta (senza di lui) sul campo dei Knicks. Del tutto ignaro che di lì a poche ore si sarebbe aggregato a una squadra rivale nella Western Conference.

LA SOSPETTA URGENZA DEI MAVS (BINGO, LAKERS!)
Le difficoltà a comprendere i moventi e la fretta dei Mavericks nel cedere Doncic fanno pensare che qualche retroscena (o altro movimento di mercato?) verrà in superficie, prima o dopo. Che sia successo qualcosa e che il rapporto tra il giocatore e l’organizzazione si fosse irrimediabilmente incrinato. Anche in quest’ottica, però, rimangono vive le perplessità, di varia natura. Sui modi, innanzitutto: facendo la trattativa in gran segreto, senza rendere nota la disponibilità della propria superstar sul mercato e senza nemmeno vagliare il ventaglio di opzioni che in tal caso - ovviamente - si sarebbero presentate.

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In secondo luogo, si può storcere il naso per i tempi. Anche ammesso che Dallas non volesse impegnarsi a lungo termine con lo sloveno, e quindi farsi carico dell’estensione al “super-massimo” (350 milioni di dollari circa in cinque anni) che avrebbe richiesto la prossima estate, il controllo sul suo destino era saldo. Non c’era urgenza, se non - a quanto pare - nei piani di Nico Harrison. Doncic non aveva chiesto di essere ceduto, e il suo appeal sarebbe stato quantomeno intatto tra qualche mese, estensione o meno; e forse sarebbe anche accresciuto, dopo lo smaltimento del recente infortunio e un’altra playoff run. Perché tutta questa fretta, allora?

Le premesse, almeno quelle, le conosciamo: il suo stato di forma non sempre ottimale (diciamo), figlio di una scarsa propensione a prendersi cura del proprio corpo; il crescente numero di assenze nelle ultime stagioni per infortuni; il fit con Kyrie Irving e il possibile sospetto che il suo stile di gioco - includendo nel discorso anche il sovraccarico energetico e di responsabilità, che lo ha portato talvolta a chiudere male le partite nei playoff - non avrebbe portato la squadra attuale più in là di quanto già avvenuto (Conference Finals ed NBA Finals negli ultimi tre anni, comunque); i limiti difensivi, la gestione emotiva delle partite, le proteste con gli arbitri… Ci si può mettere un po’ di tutto, ma in ogni caso, difficilmente ci si allontana dal suo talento cristallino. Dai suoi cinque All-NBA First Team ad esempio, o dalla seconda media punti nei playoff (30.9) più alta di sempre; oppure dalle sue prime Finals, sette mesi fa, contro la miglior difesa della lega, chiuse mandando a referto circa 29 punti, 9 rimbalzi e 6 assist a gara.

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La scelta manageriale dei Mavs va controcorrente nell’NBA moderna. Non si vede spesso una rinuncia al privilegio che sostanzialmente ogni franchigia insegue: avere un top-5 della lega nel proprio roster, scelto al Draft, impegnato a lungo termine, intorno a cui costruire. In campo e fuori Dallas ha fatto e disfatto il giocattolo per anni, cercando il meglio possibile per circondare Doncic, assecondando le sue particolarissime tendenze offensive. Fino a scegliere improvvisamente, e unilateralmente, di staccare la spina (nota a margine, dolente: in NBA sono scelte irreversibili, queste, per la definizione della franchigia dall’esterno, ad esempio agli occhi di potenziali free agent.)


Non ultimo, il pacchetto ottenuto in cambio dai Lakers è inferiore a quanto sarebbe stato lecito aspettarsi per un talento generazionale, nel pieno del prime. La scelta al Draft 2029 dei gialloviola è possibile che si riveli di scarso valore - e in ogni caso, molto semplicemente, è una sola. Decisamente poco, pur riconoscendo il valore di Davis come contropartita, se pensiamo alle trade che hanno coinvolto recentemente degli All-Star (ad esempio Mikal Bridges, Kevin Durant, Kyrie Irving). Rob Pelinka avrebbe potuto includere un’altra first-round pick nel pacchetto, ma è riuscito a trattenerla (e ora potrà farne uso per acquisire un centro, che era l’urgenza numero uno già prima di cedere AD).

Jovan Buha e Christian Clark (The Athletic) l’hanno posta così: Superstar dell’età di Doncic non diventano mai disponibili via trade - ma okay, poniamo che lo volessero cedere ora. Se era davvero questa l’intenzione, non chiami neanche i Miami Heat per chiedere Bam Adebayo? Non chiami i Grizzlies per Jaren Jackson Jr. e Desmond Bane? Non chiami i Cavaliers per Evan Mobley? Non chiami i Milwaukee Bucks, e chiedi di Giannis? Ti concentri solo su Anthony Davis?”.

Può darsi che Davis rappresentasse la prima e l’unica scelta per Dallas in questa finestra di mercato, pur trattandosi di un giocatore con una ben documentata storia di infortuni (anche solo quelli recenti) e avviato al trentaduesimo compleanno. «Credo che la difesa vinca i titoli», ha spiegato Nico Harrison su ESPN. «Credo che ottenere un centro All-Defensive, un All-NBA con una mentalità difensiva, ci dia maggiori possibilità. Siamo costruiti per vincere ora e in futuro».

Come sempre, ci dirà il campo se la sua visione è vincente. Né i Mavs né i Lakers sembravano competitivi per il titolo prima di questa trade, e realisticamente nessuna delle due lo è diventata adesso, nell’immediato. Di sicuro, però, il futuro dei gialloviola è cambiato, e non poco. La superstar - ancora giovane - a cui LeBron James passerà la proverbiale torcia, stavolta davvero, è arrivata alla Crypto.com Arena. E l’emancipazione dallo stesso LeBron nel decision making (niente “LeGM” stavolta) è la fotografia di un’organizzazione proiettata al futuro. Che ora ha un nome e un cognome, e ha portato in California una serie di garanzie a medio-lungo termine che fino all'altro ieri Pelinka e soci non si sarebbero neanche sognati.

Il bello per i Lakers è che Doncic arriverà a un costo relativamente ridotto, non solo in termini di costo della trade. Cambiando maglia, infatti, lo sloveno ha perso l’eleggibilità per la designated veteran extension e dovrebbe quindi firmare nei prossimi mesi, secondo i ben informati (Bobby Marks ovviamente), un’estensione triennale al 30% del salary cap. Un bel risparmio per i Lakers, e la scelta più redditizia per il giocatore nell’ottica di massimizzare nell’estate 2028, quando avrà maturato dieci anni di anzianità nella lega.

Al contrario, in Texas il duo Irving-Davis (e aggiungiamo Klay Thompson) non rappresenta esattamente una sicurezza con l’avanzare degli anni, per ragioni anagrafiche e di integrità fisica. AD arriva a Dallas per cambiare il paesaggio difensivo, e sarà interessante osservare le mosse di Nico Harrison nelle prossime sessioni. Ne esce di sicuro più flessibile da tutto ciò, con un roster più malleabile. Ma anche con una finestra competitiva, a livello temporale almeno, significativamente ridotta.

UNA “SHAMS BOMB” TIRA L’ALTRA
Neanche il tempo di digerire tutto ciò, e il mercato NBA ha regalato subito un altro colpo di scena. Non uno shock come l’affare-Doncic, ma un complicato e “voluminoso” incastro salariale a tre squadre. Lo scambio ha portato alla risoluzione di due situazioni particolarmente “calde” di questa trade deadline, di due All-Star quotidianamente sommersi dai rumors. Ovvero, De’Aaron Fox, la cui possibile uscita da Sacramento era stata anticipata negli ultimi giorni, e che ora formerà con Victor Wembanyama la coppia del futuro di San Antonio; e Zach LaVine, un addio più che previsto per i Bulls, da cui ci si attendono altre manovre nelle prossime ore.

Oltre a Fox (la cui situazione salariale è simile a quella di Doncic, quindi con un bel risparmio triennale per gli Spurs), San Antonio nell’affare ha incassato dai Kings anche Jordan McLaughlin. E soprattutto, ha conservato tutti gli asset che non voleva sacrificare: Stephon Castle, Devin Vassell, Jermey Sochan, Keldon Johnson. Grazie al valore del contratto in uscita di Zach Collins (a dir poco massimizzato rispetto al suo ruolo marginale in squadra), gli Spurs sono riusciti così a comporre l’accoppiata Wembanyama-Fox. Un fit interessante, molto giovane e su cui i neroargento hanno investito per gli anni a venire - i primi in cui competere nell’era-Wemby.

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Ai Kings invece, oltre Zach LaVine, è stato spedito anche Sidy Cissoko (dagli Spurs), insieme a sei scelte al Draft, di cui tre al primo giro - che diventeranno presto due (quelle non protette nel 2027 e 2031). Anche in questo caso, il ritorno in termini di Draft capital è inferiore alle attese (da rimodulare, con le logiche introdotte dal nuovo CBA?), complice anche il disinteresse sbandierato dall’agenzia del giocatore a rinnovare il contratto tra diciotto mesi. In ogni caso, Sacramento porta a casa una nuova flessibilità, grazie alla cospicua trade exception incassata, e dà un netto taglio alle spese, scendendo di quasi 15 milioni di dollari sotto alla soglia della luxury tax.


I Bulls, infine, hanno ricevuto Zach Collins, Tre Jones e Kevin Huerter, a cui si aggiunge una prima scelta nel prossimo Draft (propria, ri-acquisita) e una trade exception da 25 milioni di dollari circa. Che LaVine non portasse in dote un contratto appetibile si sapeva da tempo, e il pacchetto ottenuto l’ha ribadito per l’ennesima volta. Ora che il principale nodo è stato sciolto, però, il dado è finalmente tratto. Restate sintonizzati, in attesa delle prossime mosse del front office, entrato ufficialmente in modalità di accumulo asset futuri. Con un chiaro indiziato a fare le valigie, Nikola Vucevic, e una batteria di altri possibili candidati: Torrey Craig, Lonzo Ball, Patrick Williams, Ayo Dosunmu, Coby White.

L’effetto-domino innescato a Chicago, come sempre in questi casi, potrebbe rivelarsi la spinta definitiva per rompere il ghiaccio, e per il comporsi del grande puzzle della trade deadline. I Bulls sono già al telefono probabilmente, e come loro i Miami Heat ad esempio, e tanti altri general manager. Jimmy Butler sta aspettando nuove, del resto, e i giorni teoricamente più frenetici sono ancora all’orizzonte. E dopo un inizio del genere, alzi la mano chi se la sente ancora di fare previsioni.

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