Negli ultimi anni è diventato quasi un pensiero comune che la NBA sia diventata un circo in cui il tiro al bersaglio sta banalizzando un gioco il cui fascino risiede nella complessità delle sue innumerevoli sfaccettature. Ad alcuni non va giù che il tiro da tre sia diventato così frequente ai giorni nostri, prendendo la luce dei riflettori a discapito di alcuni frangenti del gioco che lo avevano reso così “speciale” negli anni passati, come il gioco spalle a canestro e in avvicinamento per un palleggio-arresto-tiro. Alcuni vedono giocatori che preferiscono passare un tiro dai 5 metri per servire un compagno che tira qualche metro più lontano e non colgono a pieno l’essenza e i benefici del tiro dalla lunga distanza, puntando il dito contro il suo abuso indiscriminato per giustificare un calo di gradimento per quello che vedono.
In NBA questa stagione vengono tirate la bellezza di 31 triple a partita, quasi il triplo rispetto a due decadi fa, un numero decuplicato rispetto alla prima stagione in cui venne introdotta la linea dei tre punti. Klay Thompson ha stabilito il record di triple realizzate in una partita con 14, tirando ben 24 volte da oltre l’arco. Il suo Splash Brother Steph Curry recentemente è diventato il primo giocatore della storia a inanellare cinque partite in una stagione con almeno 10 triple segnate. Gli Houston Rockets tirano quasi 45 bombe a partita, capitanati da James Harden e dalle sue triple in step back. Da qualche anno alcune squadre NBA hanno introdotto nei propri campi di allenamento la linea da quattro punti posta un metro e mezzo oltre la linea dei tre punti per allenare l’istinto a tirare da quella distanza anche in partita.
Gregg Popovich, acerrimo nemico del tiro dalla lunga distanza, a fine novembre incalzato da Sam Smith del Chicago Tribune prima della partita dei suoi San Antonio Spurs contro i Chicago Bulls ha dichiarato: «C’è troppa enfasi sul tiro da tre punti perché è provato che sia il tiro analiticamente più corretto», aggiungendo che «finita la partita, prendi il tabellino e la prima cosa che uno guarda è quante triple sono state segnate. Se ne metti più del tuo avversario, vinci. Non si guarda più ai rimbalzi, alle palle perse, a quanto la difesa in transizione è stata coinvolta. Odio il tiro da tre, l’ho sempre odiato. Ci scherzo su e dico, se vogliamo cambiare il gioco, perché non mettiamo il tiro da quattro punti? Non c’è più basket, non c’è bellezza in questo gioco. È noioso. Ma è così e ci dobbiamo convivere».
Le sue parole, diffuse dai media a macchia d’olio e travisate da molti addetti ai lavori e tifosi, hanno fatto clamore e sono rimbombate nelle nostre orecchie per giorni. Negli ultimi 25 anni il gioco è cambiato in maniera radicale, ma la crescita del tiro da tre è la causa o la conseguenza di questo metamorfosi? Abbiamo deciso di approfondire la questione, cercando di analizzare in chiave tattica come potrebbe cambiare il gioco se di punto in bianco la NBA bandisse il tiro da tre punti.
40 anni di tiro da tre punti
Per capire l’impatto che ha avuto sul gioco il del tiro da tre punti è necessario ripercorrerne la storia, dal giorno della sua introduzione fino a oggi.
Nel 1979, ben 40 anni fa, Larry Bird e Magic Johnson erano rookie e le Finali NBA venivano ancora trasmesse in differita negli Stati Uniti, figuratevi all’estero. La NBA non versava di certo in buone acque e decise di adottare la linea dei tre punti per rendere più varie, equilibrate e incerte le partite oltre che vendere un prodotto più accattivante alle emittenti televisive. La NBA non fu la prima lega a varare il tiro da tre: negli anni ‘40 la NCAA lo testò salvo abbandonare il progetto nel giro di pochi anni, ma quell’idea ripresa dalla ABA nel 1967 ne diventò il tratto distintivo nella lunga rivalità con la NBA prima della fusione avvenuta nel 1976. Presentando il tiro da tre punti il Commissioner della ABA George Mikan addusse la motivazione di dare la possibilità ai giocatori più bassi di segnare, in un’epoca in cui il gioco era ad appannaggio solo dei giocatori più alti, oltre a rendere più divertente il gioco per i tifosi. Venne scelta la distanza di 7.25 metri dal canestro.
Il 12 ottobre del 1979, nella partita tra Boston Celtics e Houston Rockets fece il suo esordio in NBA la riga dei tre punti, ed il primo canestro da oltre arco lo firmò la guardia dei Celtics, Chris Ford.
Il primo canestro da tre punti nella storia della NBA firmato da Chris Ford fu una tripla dall’angolo.
Nei primi anni della sua introduzione i coach NBA snobbarono il tiro da tre, perché il gioco era comunque incentrato dai 3 ai 5 metri dal canestro e “la novità” era ritenuta un espediente buono per cambiare le carte in tavola alla fine dei quarti o come tentativo finale per rimontare prima di alzare bandiera bianca, una sorta di ultima spiaggia. Non c’era una strategia ben definita dietro: tirare da tre era frutto del caso o della situazione specifica.
Il primo anno le squadre tirarono in media poco meno di 3 tiri da oltre l’arco a partita e Brian Taylor, guardia dei San Diego Clippers, chiuse la stagione con 90 triple segnate, più di chiunque altro. Il primo vero specialista del tiro da tre punti fu Danny Ainge che nel 1988 ne mise a segno 148 in una stagione, poi il suo testimone fu raccolto da Michael Adams che tra fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ‘90 capeggiò la NBA in triple tentate per quattro stagioni a fila e in quelle segnate per due volte consecutive. Il primo giocatore a segnare più di 200 triple in una sola stagione fu John Starks dei New York Knicks nel 1995 con 217 centri. Dennis Scott degli Orlando Magic stabilì invece il record di 267 triple realizzate in una stagione che durò una decina di stagioni fino ad essere ritoccato da Ray Allen con 269 nel 2006. Nella stagione 2015-2016 Stephen Curry sfondò il muro delle 400 triple con 402 centri in stagione tirando con uno stratosferico 45% su 886 tentativi, record ancora oggi imbattuto ma che inevitabilmente prima o poi verrà a sua volta intaccato.
Tutti i 402 canestri da tre punti di Stephen Curry in quell’irripetibile stagione 2015-16.
Prima dell’arrivo di Dirk Nowitzki il tiro da tre era uno strumento ad uso quasi esclusivo delle guardie o dei giocatori perimetrali: i lunghi venivano squadrati malamente non appena uscivano oltre l’arco per scagliare un tiro dalla lunga distanza. Il primo giocatore di oltre 210 centimetri a chiudere la stagione con più di 100 triple tentate fu Arvydas Sabonis nel 1996, quando approdò in NBA a 31 anni con le ginocchia e caviglie molto malandate. Prima di lui a raggiungere quel traguardo ci provò nel 1988 il mitologico Manute Bol dall’alto dei suoi 231 centimetri, chiudendo la stagione a 91 tentativi. Dopo l’avvento del tedesco la “moda” del tiro da tre non ha fatto distinzioni tra lunghi e piccoli: ad oggi sono 23 i giocatori sopra i 208 centimetri a tirare almeno 3 triple a partita di media con Nikola Mirotic che mette in fila Blake Griffin e Brook Lopez con oltre 7 tiri a partita.
Per capire ancora meglio l’evoluzione del tiro da tre punti potremmo dividere gli ultimi 40 in 3 momenti distinti:
- Dal 1979 al 1994: incremento del tiro da tre punti da 3 tentativi a sera a quasi 10.
- Dal 1994 al 2004: sfondato il muro dei 10 tentativi a sera, mantenuto costante su 15 tiri a partita fino al 2004 tra alti e bassi.
- Dal 2004 ad oggi: un continuo crescendo da 16 a quasi 32 tentativi di media.
Questi tre “epoche” non sono casuali ma si riferiscono a precisi momenti storici caratterizzati dall’introduzione di nuove regole che hanno permesso al tiro da tre punti di proliferare.
Nel 1994, con i punteggi in picchiata ed il gioco estremamente fisico che precludevano lo spettacolo, la NBA decise di avvicinare la linea dei tre punti di mezzo metro, ai 6.75 che oggi è lo standard FIBA. Grazie a questo espediente il numero di tiri da tre punti crebbe del 33% nel giro di un anno assentandosi sui 15 tiri a partita in media. In quegli anni iniziarono ad emergere i primi lunghi capaci di uscire da oltre l’arco e piazzare un paio di triple a partita in modo continuativo tra cui Terry Mills, Sam Perkins e Cliff Robinson. Ma il gioco continuava a essere una lenta guerra di trincea giocata per accaparrarsi quel poco di spazio che c’era nei pressi del canestro e le linee di penetrazione per le volate spettacolari a canestro erano occupate come la tangenziale in orario di punta. Diminuire la distanza non cambiò le cose, quindi la NBA decise di fare dietrofront riportando la linea ai 7.25 ed il numero di tentativi diminuì. La lentezza con cui gli attacchi lavoravano rendeva facile per le difese speculare sulle percentuali del tiro da fuori per avere il controllo dei tabelloni in quella che Jeff Van Gundy chiamava una “Make-or-miss League”, un tormentone durato per oltre un decennio fino all’avvento dei Golden State Warriors degli Splash Brothers.
Negli anni ‘90 la priorità era ammassarsi vicino a canestro con logiche di spaziature completamente differenti rispetto ad oggi. Un tiro da più vicino, anche se contestato, era considerato un tiro migliore di quello da più lontano, smarcato.
Nel 2002 con una decisione epocale la NBA permise l’utilizzo della difesa a zona e per non limitare troppo gli spazi interni varò la regola dei tre secondi difensivi. Prima di quel momento si poteva solo difendere a uomo e con regole ben precise: ogni difensore doveva marcare direttamente un attaccante, non poteva lasciare il suo avversario diretto per preoccuparsi esclusivamente della palla. Fondamentalmente si doveva difendere in “single coverage” o raddoppiare forte, con gli attacchi che manipolavano gli spazi e i tempi entro cui la difesa doveva reagire. La tattica dell’isolamento prolungato e incessante, che stava al basket anni ‘90 come oggi il pick and roll sta al basket odierno, uccideva la velocità rendendo il gioco statico, noioso, ridondante.
Gli attacchi forzavano le situazioni di “single coverage” su un quarto di campo. Se la difesa prendeva iniziativa e comandava un raddoppio l’attacco aveva tutto il tempo necessario e leggere gli spazi in cui mandare la palla. I “furbetti” che camuffavano la difesa a zona - Pat Riley ai Knicks era l’incubo degli arbitri - venivano puniti con il fallo tecnico per difesa illegale.
Nel 2004 la NBA decise per un altro cambiamento significativo: la regola dell’hand checking. Semplificando all’estremo è vietato appoggiare le mani addosso all’attaccante, cosa che fino a quel momento era lecito fare e serviva a rallentare l’attaccante. Questo nel corso del tempo ha permesso agli attacchi più libertà di movimento e posto delle restrizioni alle difese piantando i primi semi che avrebbe portato il gioco a diventare molto più dinamico.
Dopo l’introduzione di queste due regole il tiro da tre iniziò a esplodere, salendo da 13 a 18 tentativi medi a partita nel giro di poche stagioni. La prima squadra a viaggiare in doppia cifra per triple mandate a segno durante una stagione furono i Phoenix Suns di Mike D’Antoni e Steve Nash - oggi sono 23 le squadre che segnano dieci bombe a partita, e le sette che non raggiungono la doppia cifra ci vanno molto vicino - mentre nel 2013 per la prima volta le squadre NBA hanno scollinato il muro delle 20 triple tentate a gara. Dal quel momento in poi non ci si è più guardati indietro fino alle 31.2 triple a squadra di oggi.
È molto più di una questione matematica
Prima dell’utilizzo in modo così massivo del tiro da tre punti la strategia offensiva di riferimento era buttare la palla dentro l’area e da lì far partire il gioco. A quell’epoca i ruoli e le posizioni erano ancora ben definite, salvo rare eccezioni, e cercare un canestro entro i 5 metri era ritenuto più “facile”.
Negli anni ‘90 il gioco in post per l’avvicinamento o per girare e tirare sopra la difesa prosperava, ma non era il tiro più facile del mondo.
Oggi siamo nell’era del tiro da tre punti, dove ogni giocatore che si rispetti deve poter espandere il proprio raggio di tiro per portare beneficio a se stesso e ai propri compagni (o quantomeno non arrecare danno), secondo l’assunto che lo spazio in cui puoi permetterti di giocare determina il tuo potenziale offensivo. Con i cambiamenti portati dalle regole e dalla rivoluzione delle analytics, si gioca per aprire il campo quanto più possibile ed avere più libertà nei pressi del canestro. Spaziarsi correttamente sul perimetro è diventato più importante del ruolo nominale di un giocatore.
Il pallino del gioco si è spostato sul perimetro, il post basso non è più il centro di gravità attorno al quale gira l’attacco: se prima l’imperativo era partire da vicino e poi allontanarsi, oggi l’obiettivo è partire da lontano per avvicinarsi.
L’ultimo grande realizzatore che non ha avuto bisogno del tiro da tre punti per vincere la classifica dei marcatori è stato Shaquille O’Neal nel 2000: sono passati quasi 20 anni. Oggi i primi realizzatori che non tirano regolarmente da tre sono la coppia di San Antonio DeRozan/Aldridge, rispettivamente 21° e 22° in graduatoria. Curioso il caso di Brook Lopez che nel 2013 era il centro classico con la media punti più alta della lega a 19.4, titolare di appena 32 triple tentate nei primi 7 anni di carriera ed un solo centro mandato a referto. Oggi, dopo essere quasi finito ai margini della lega per il suo gioco vecchio stampo che occludeva l’area, si è trasformato in cecchino da oltre l’arco con quasi 6 triple tentate a partita che realizza con un ottimo 38%.
Ecco perché coach Budenholzer ha piacere che Brook Lopez si prenda una marea di tiri da tre punti: oltre a punire i raddoppi e le rotazioni difensive per limitare Antetokounmpo, il solo fatto che sia una minaccia dai tre punti apre al greco spazi giganteschi nei pressi del ferro.
Contrariamente a quanto crede la maggior parte dei tifosi, la “dieta” di tiro moderna non ha corrotto il gioco ma ne ha corretto le abitudini. Una di queste era preferire il cosiddetto “long two” - ovvero un tiro preso appena dentro la linea dei tre punti - al tiro da tre punti che ha lo stesso coefficiente di difficoltà, ma con una ricompensa minore in termini di punti e spacing. In passato il long two serviva ad “aprire la scatola” ed allargare le difese lontano dal post basso; oggi, con il gioco che parte da molto lontano, lo stesso tiro sigilla quella scatola.
Basta prendere una qualsiasi partita dal 1990 al 2000 e contare il numero di tiri presi tra i 6 ed i 7 metri di distanza dal canestro. In quegli anni c’era diffidenza verso il tiro da tre punti, ma il long two andava fortissimo. Non fate vedere queste clip a Daryl Morey: potrebbe avere un infarto.
È questo il frangente in cui il tiro da tre punti è semplice matematica: nel giro di pochi centimetri la posta in palio è di un punto in più.
Il grafico evidenzia come dal 2000 a oggi il tiro da tre punti abbia soppiantato il long two nella percentuale complessiva dei tiri dal campo. Nel 2003 i long two corrispondevano al 23% della “dieta” di tiro delle squadre NBA mentre nel 2019 il dato è sceso sotto il 10%. Nel 2001 il tiro da tre era il 14% netto del fabbisogno medio di tiri, oggi è quasi il 36%. La frequenza dei tiri al ferro, quelli in prossimità del ferro (fuori dalle restricted area) e il tiro dal midrange, a parte un leggero calo nei primi anni 2000, si sono mantenuti costanti. (Fonte Basketball-Reference)
Il valore di un tiro da tre punti esula dal semplice calcolo aritmetico, ma è qualcosa di più grande: il solo fatto di tirare tanto da tre punti, e non necessariamente in modo accurato, mette la difesa sotto pressione e permette di creare maggiori spazi vicino a canestro.
Aprendo l’area con il tiro da tre punti la % di realizzazione nei pressi del ferro è cresciuta dal 60% del 2001 al 66% di oggi e non c’è da stupirsi che anche la percentuale del tiro dalla media ne abbia beneficiato di qualche punto percentuale. Dal grafico si può notare invece come la percentuale da tre punti sia rimasta costante negli anni ma la eFG% - la % effettiva che tiene in considerazione il valore di un tiro da due e di un tiro da tre - sia esplosa oltre il 50% dal 2016 ad oggi.
L’extra punto derivante da un tiro da tre punti rispetto ad un long two è importante, ma è la quantità di spazio che si guadagna tirando da dietro la linea che ha un valore inestimabile.
Gli Houston Rockets sono l’esempio più estremo, e pertanto malvisti, di questa concezione orientata ad aprire il campo per accedere più facilmente al pitturato. Mike D’Antoni, secondo i dettami del suo General Manager Daryl Morey, ha strutturato l’attacco sul tiro da tre punti a supporto del gioco uno-contro-uno di Harden e Paul. Jonathan Tjarks su The Ringer ha pubblicato un articolo che spiega come Harden sta spingendo il gioco oltre i suoi limiti: il Barba tiene in ostaggio le difese con la sua capacità di creare separazione con estrema disinvoltura in step back da 8 metri e ha la struttura fisica, il trattamento di palla, il talento nel procacciarsi tiri (e falli) in penetrazione oltre a visione di gioco e skills elitarie per passare la palla al compagno libero.
Il gioco dei Rockets è estremamente semplice: palla a Harden e tutti larghi. Non è il massimo dell’estetica o della varietà, anzi possiamo dire che è ridondante ai limite del sopportabile ma funziona, e tanto basta.
È per questo motivo in sintesi Popovich odia il tiro da tre punti: perché è difficile da difendere in NBA a causa dell’alto volume di tiri e delle regole che impongono la quasi totale assenza di contatto in penetrazione. L’attacco è molto più avvantaggiato mentre le difese, anche le migliori, non possono coprire tutto quel campo e la coperta diventa irrimediabilmente corta da qualche parte.
Negli anni ‘90, con la difesa asseragliata in area, gli spazi in cui prendere tiri ad alta percentuale erano ridotti. Oggi, con l’attacco aperto sul perimetro, la difesa deve percorrere più distanza e se lo spazio viene sfruttato a dovere i tiri ad alta percentuale fioccano con più facilità, siano essi da tre o da due punti.
Al momento delle dichiarazioni di Popovich gli Spurs erano in una fase critica della loro stagione perché il loro efficacissimo gioco incentrato sul midrange si scontrava con la loro pessima difesa sul tiro da tre punti. Inoltre l’ex agente della CIA è sì uno strenuo contestatore del tiro da tre punti, ma ne sfrutta ampiamente lo potenzialità nel suo sistema di gioco: gli Spurs sono la penultima squadra NBA per triple tentate ma sono davanti a tutti in quanto a precisione. Lo spauracchio di una bomba consente agli Spurs di aprire quegli spazi che poi permettono ai vari Rudy Gay, DeMar DeRozan e LaMarcus Aldridge di proliferare dalle loro comfort zone a 5-6 metri dal canestro. Il solito vecchio volpone.
Contrariamente a quanto si crede, il tiro dal midrange non è demonizzato, ma è ancora un tiro ad alta efficienza se preso con i tempi giusti e negli spazi giusti. Il palleggio-arresto-tiro non morirà mai, specialmente nei finali di partita dove conta il talento più che l’efficienza, anche grazie agli spazi concessi dal tiro da tre punti.
La NBA senza il tiro da tre punti
Proviamo ora a immaginarci una NBA in cui il tiro da tre non esiste più e ogni tiro dal campo vale due punti. Nei primi tempi le cose non cambieranno più di tanto perché chi ha tirato dalla lunga distanza fino a ieri continuerà a farlo anche domani, mentre il gioco entrerà in una fase di assestamento per alterare abitudini ormai ben radicate e predisporre nuove strategie adatte al nuovo corso. La conseguenza immediata della revoca della linea a 7.25 metri di distanza sarà che i punteggi caleranno di circa 10 punti a partita secondo un semplice calcolo aritmetico (oggi si segnano in media 110 punti a partita con 11 triple circa mandate a bersaglio), ma le percentuali dal campo rimarranno pressappoco invariate.
Nel breve/medio periodo gli attacchi cercheranno modi di avvicinarsi a canestro in modo intelligente ed efficace, magari mettendo a roster meno tiratori e più giocatori di uno contro uno, ma inizieranno a scontrarsi contro difese fisicamente e atleticamente più performanti rispetto al passato. Bisogna sempre considerare che negli ultimi 15 anni i metodi di allenamento sono progrediti enormemente: i giocatori non hanno mai avuto cura del loro corpo come oggi, nessun dettaglio del loro benessere psico-fisico è lasciato al caso. Con il gioco che si è velocizzato e giocatori sottoposti a stimoli ben maggiori rispetto a prima, i tempi di reazione e di decisione si sono ridotti. Ogni atleta NBA ha la capacità di coprire più distanza e in minor tempo di un collega del 1990.
Ecco perché il long two oggi è un tiro sconsigliato: l’attacco regala a difensori più grossi, più veloci, più flessibili, più lunghi un ulteriore metro di vantaggio.
Inoltre, senza il tiro da tre da usare come grimaldello per scassinare il centro area, le difese possono permettersi di stringere ulteriormente gli spazi lasciando agevolmente un tiro che avrebbe la valenza di un long two anche se preso da 9 metri. Per gli Steph Curry, Damian Lillard, Kemba Walker, Kyrie Irving del caso sarebbe estremamente complicato andare a canestro contro difese che li aspettano in area senza il terrore del loro tiro da fuori che vale tanto quanto un canestro da sotto.
Anche in spazi larghi non è facile tirare in testa a giocatori più alti e grossi che ti rincorrono per il campo. Immaginatevi la difficoltà a segnare in traffico se possono aspettare comodamente in area.
Allargare il campo sarebbe pressoché impossibile e l’area diventerebbe inaccessibile a chiunque, anche ai giocatori di post basso o bravi in avvicinamento perché rispetto a 25 anni fa le difese NBA sono sì limitate dai regolamenti, ma sono tatticamente più preparate. Il cambio sistematico è diventato un mantra e lontano dalla palla sono frequenti principi di difesa a zona per stritolare in una morsa coloro che provano a farsi largo vicino a canestro. Non avrebbero vita facile nemmeno coloro che padroneggiano l’arte del midrange come Kevin Durant, Klay Thompson, Kawhi Leonard o DeMar DeRozan, perché gli spazi ed in tempi in cui operare si ridurrebbero sensibilmente.
Senza il tiro da tre, una difesa NBA potrebbe utilizzare ancora più risorse per ostacolare i tiratori in uscita dai blocchi o quelli che cercano di costruirsi un tiro dal midrange. Più la difesa può contenere, più si riducono gli spazi in cui l’attacco può operare.
Nel medio/lungo periodo il crollo dei punteggi e delle percentuali dal campo sarebbe inevitabile, con un impatto ben superiore al punto in meno per ogni canestro da fuori: si tornerebbe a un basket di posizione, statico, di pochi possessi perché per costruire un gioco vicino a canestro occorre più tempo e pazienza, specialmente senza possibilità di attirare i difensori in aiuto fuori dall’area. Il ritorno in pompa magna dei fondamentali ritenuti scomparsi (non lo sono, fidatevi) come il gancio cielo, il piede perno per svitarsi in mezzo al traffico, il palleggio-arresto-tiro sarebbe smorzato dall’incapacità di proporli in modo efficace e in spazi molto più stretti rispetto al passato. Il rischio di tornare in un regime di hero-ball continuo - in cui i volumi di tiro entro i 5 metri dal canestro torneranno ad essere alti, ma l’efficienza ai minimi storici - farebbe precipitare il basket NBA nel medioevo cestistico.
Tra qualche anno, senza la linea dei tre punti, questo è lo scenario più apocalittico tra quelli plausibili: cinque difensori che restano ai margini dell’area dei tre secondi, il cui unico scopo è non concedere alla palla di avvicinarsi al canestro, speculando sulla capacità degli avversari di segnare con costanza da fuori. Chi è bravo a tirare continuerà a farlo, ma non verrà ricompensato a dovere e sarà meno utile per i propri compagni, nonché all’evoluzione del gioco.
Davanti a tutto questo, provate a chiedervi: vale veramente la pena togliere la linea dei tre punti?