Un deja vu con tutti i crismi. Quando sei assolutamente convinto di aver già vissuto quel momento. Ma anche quando no, non può trattarsi davvero di quel momento. Per i tifosi dei Philadelphia 76ers, l’esordio stagionale al Wells Fargo Center si è concluso con una carrellata di immagini tremendamente simili a quelle che avevano segnato l’eliminazione dagli ultimi playoff. Una penetrazione-mozzarella di Tobias Harris. Joel Embiid che crolla al momento di concludere un appoggio. E gli avversari che arrivano ripetutamente al ferro, indisturbati - quasi stessero facendo la ruota del riscaldamento. Con una sola, gigantesca differenza: di Ben Simmons e delle sue peregrinazioni in giro per l’area per cercare disperatamente di liberarsi della palla non c’era traccia.
Mentre i Brooklyn Nets piazzavano il 16-1 di parziale che ribaltava una partita apparentemente conclusa, l’australiano era infatti lontano, irraggiungibile, più avulso che mai dalla squadra e dalla città. Un’assenza che era la conclusione naturale di una settimana, anzi di un’intera estate, all’insegna di incomprensioni e disfunzionalità. Ma che è ugualmente riuscita a segnare la serata del Wells Fargo Center più di qualsiasi persona presente. Il classico effetto da elefante nella stanza, che presumibilmente continuerà a scandire la quotidianità dei Sixers fino a che questa situazione non si risolverà.
L’attesa per chi non c’è
A giudicare dalla sempre frizzante bolla di Twitter, l’avvicinamento alla partita si era svolto in un clima di crescente guerriglia. Simmons che sbarca di soppiatto a Philadelphia lo scorso fine settimana, terrorizzato dalla prospettiva di accumulare multe milionarie. La fantozziana comparsata nell’allenamento del lunedì — con tanto di svogliati scivolamenti difensivi fatti con un non identificato oggetto in tasca. La cacciata da quello del martedì, sfociata nella sospensione per la trasferta di New Orleans. L’auto-esclusione da tutte le attività della squadra per non precisati motivi medici. Fino alla voce incontrollata che i Sixers avessero eretto una barriera di metallo per nascondere l’entrata dei giocatori alla vista degli spettatori, e dunque prevenire possibili attacchi dei tifosi nei confronti dell’australiano. Un’idea messa in circolazione da un tweet pazzesco di Kevin Pompey, beat writer dei Sixers per il Philadelphia Inquirer, che ha fatto sì che alcuni tifosi iniziassero subito a vedere in quelle lamiere una nuova frontiera del proprio dissenso. Come l’uomo in bandana che guarda il metallo appena eretto e grida con aria di sfida «I’ll still be able to say fuck Ben Simmons». Incurante che nel frattempo il tweet era già stato cancellato, e che Pompey che aveva spiegato che si trattava di una più generica misura anti-Covid decisa dalla NBA per la stagione appena iniziata, e dunque non legata al timore di intemperanze.
Nonostante le premesse di fuoco, l’atmosfera al Wells Fargo Center ha in realtà ben poco di bellicoso. Tra i corridoi dell’arena, con l’eccezione di sporadiche imprecazioni, a farla da padrone sin dall’apertura dei cancelli è una compatta indifferenza. Sfilano canotte di Embiid, Curry, Kormaz, Iverson, Doctor J, persino Aaron McKie. Le uniche due con il numero 25 sono indossate da due tifosi vestiti da pagliaccio: entrambi con una visibile parrucca rossa, e uno con un nastro adesivo a coprire il cognome dell’australiano con l’appellativo di “Clown”. Giusto per fugare ogni dubbio circa le reali intenzioni di quella scelta d’abbigliamento. E così, le uniche canotte con il nome dell’australiano sono quelle che rimangono mestamente appese nello store dei Sixers, e che tra quegli scaffali finiranno forse i propri giorni. «Non le hanno ancora scontate?» commenta un tifoso che pascola pigramente tra i corridoi. Evidentemente consapevole che all’aeroporto di Philadelphia, giusto una decina di chilometri a ovest del Wells Fargo Center, quegli stessi capi vengono svenduti col 50% di sconto. E che coloro che ne possiedono uno non riescono a disfarsene, nemmeno regalandolo.
Una partita dai due volti
Tutta l’ora e mezza che precede la palla a due scorre via in una tregua surreale, risultato della tensione tra due forze opposte. Da una parte la disperata voglia di vedere l’australiano spuntare dal tunnel e fare il riscaldamento, e potergli dunque rivelare addosso tutto il proprio disappunto; dall’altra la certosina opera di rimozione, anche e soprattutto da parte della franchigia, di qualsiasi indizio che possa evocare il giocatore. Oltre a non essere al palazzo, Simmons è sparito dagli stendardi nei corridoi; dalle gigantografie dei volti che salutano i tifosi che entrano nel proprio settore; dal video con cui la squadra ha lanciato la nuova stagione. La sua immagine appare giusto per una frazione di secondo sul tabellone luminoso, nella clip che fa da antipasto alla presentazione delle squadre. Un rimasuglio degli scorsi playoff, evidentemente sfuggito alla purga istituzionale, e che comunque suscita a malapena una sparuta pioggia di fischi distratti. Quasi a voler ricordare che, pur con la sana voglia di sfogare il proprio disprezzo, i tifosi Sixers hanno già ampiamente assimilato la separazione e portato a termine il processo di cancellazione del proprio (ex) beniamino. A parte ovviamente il povero abitante di South Philadelphia che si tatuò la faccia dell’australiano sull’intero braccio destro in tempi non sospetti, agli albori del Process, e si trova ora a fare i conti con l’irreversibilità delle proprie scelte.
Ci vuole la forza d’urto del campo a spazzare via gli imbarazzi e riconnettere i tifosi dei Sixers con la realtà. Che non sarà idillica, ma potrebbe comunque essere ben peggiore. Osannato sin da quando sbuca dal tunnel degli spogliatoi, Joel Embiid viene celebrato dall’ormai consueto canto “M-V-P” al momento della presentazione ufficiale, prima di prendere in mano il microfono e salutare la folla.
«È successo molto in questi mesi. Grazie per il vostro grande supporto» dice ai 20mila di Broad Street. Chiedendo poi di continuare a sostenere anche Ben Simmons, «still our brother», pur sempre uno di noi.
Un gesto distensivo che fa da contraltare al più teso «non sono la babysitter di nessuno» pronunciato in settimana dopo la cacciata dell’australiano dall’allenamento. Seguono applausi per tutto il resto del quintetto: molto timidi per Danny Green e Tobias Harris, ben più convinti per Seth Curry. Unico giocatore della squadra, assieme al camerunense, a essere uscito con la reputazione indenne dalla bruciante eliminazione degli ultimi playoff.
Da quel momento, l’attenzione è finalmente sul gioco. L’inizio arrembante dei Sixers, alimentato dalle triple di Green e dall’intimidazione perentoria di Embiid a centro area, strappa dal proprio seggiolino il pubblico del Wells Fargo Center, regalando una poderosa ovazione al primo time-out. Sono manifestazioni di energia che raramente si vedono in un’arena NBA nell’ultima settimana di ottobre e che rendono bene l’idea della disperata voglia di pallacanestro che anima i tifosi di Philadelphia. Pur trovando il canestro solo a fiammate, i Sixers producono uno sforzo costante, guadagnandosi con merito la spinta del proprio pubblico per tutta la durata dell’incontro. E così, quando Andre Drummond arpiona una palla vagante che Harris trasforma in uno spettacolare alley-oop per Matisse Thybulle, il Wells Fargo Center esplode come se fossimo in una partita di playoff e gli eventi degli ultimi mesi non fossero mai accaduti. È la giocata che vale il 108-98 a 5 minuti dalla fine e che fa pensare a tutti che, finalmente, sia arrivato il momento di tirare il tanto agognato sospiro di sollievo. Se non fosse che siamo a Philadelphia, dove il confine tra fiducia e illusione è molto sottile, e forse non esiste neanche. Sarà quello infatti l’ultimo canestro dal campo per la squadra dei Doc Rivers, e l’antifona al 16-1 di parziale che ribalterà la partita.
Dall’altra parte della barricata, eclissate dal melodramma travolgente in casa Sixers, le vicissitudini dei Nets riescono incredibilmente a passare in sordina. Con Kyrie Irving fuori squadra fino a che non deciderà di vaccinarsi o fino a quando non cambieranno le leggi a New York City, Brooklyn gioca con il cinismo che ci si aspetterebbe da una squadra esperta, con individualità del calibro di Harden e Durant. Partendo piano, tenendosi silenziosamente a galla, e assestandosi per lunghi tratti a cavallo della sottile linea che divide l’indisponenza dal certosino risparmio energetico. Una scommessa comunque vincente, visto che negli ultimi minuti di partita i Nets riescono a piazzare la zampata decisiva contro un avversario arrivato al traguardo in totale riserva fisica ed emotiva. «Non è certo una di quelle partite che vuoi conservare e mettere in un museo, ma per ora va bene così» dirà a fine partita Steve Nash. Per schiantare i Sixers, oltre al solito Kevin Durant dai connotati extra-terrestri, è bastato un James Harden appena appena decente e un LaMarcus Aldridge precisissimo, senza sbagliare neanche un colpo nel finale. «Con quel tiro non saranno certo i nostri matematici a dirgli di smettere di tirare dalla media, qualunque cosa dicano le statistiche analitiche» ha scherzato Nash. La stessa frase che i tifosi di Philadelphia avrebbero sognato di poter dire a proposito di Simmons. E che, a questo punto, non riusciranno probabilmente a dire mai.