Anche se ci piace dipingerli come dei supereroi, gli atleti professionisti rimangono dei 20-30enni che passano un sacco di tempo a leggere le opinioni degli altri sui social. E tra le superstar della NBA, Steph Curry è uno di quelli che notoriamente passa molto tempo a leggere quello che si dice in giro, a maggior ragione se lo riguarda da vicino. La partenza stentata dei Golden State Warriors, travolti nelle prime due partite stagionali contro i Brooklyn Nets e i Milwaukee Bucks, hanno immediatamente fatto scattare le overreaction non solo sulla squadra ma soprattutto su Curry, le cui brutte percentuali nelle prime cinque partite — 42% dal campo e 32% da tre punti — avevano acceso il dibattito: ma non è che non è poi così forte come si dice in giro? Non è che Curry ha approfittato della presenza di giocatori fortissimi attorno a lui per spiccare, ma che da solo non è in grado di trascinare una squadra come le altre superstar?
D’altronde Curry non ha mai avuto le fattezze di un supereroe. «Se pensate alla maggior parte dei giocatori considerati al top della lega, sono tutti dei freak atletici» ha detto Steve Kerr parlando del chiacchiericcio attorno alla sua superstar. «Steph è 1.85 per 80 chili scarsi. Perciò deve affidarsi alle sue abilità, non al suo atletismo. È molto più difficile trascinare una squadra da solo segnando da nove metri, ma se non sei 2.05 per 110 chili, non puoi dominare in nessun’altra maniera. Forse è per quello che viene criticato così tanto».
Ad aggiungere benzina al fuoco della discussione sono arrivate anche le parole di Damian Lillard, che dopo la partita di Capodanno - una netta vittoria dei suoi Blazers in cui ha segnato 34 punti - ha parlato delle difficoltà del due volte MVP: «Con una squadra più giovane attorno, ha più difficoltà a trovare tiri di alta qualità. È diverso rispetto agli ultimi quattro o cinque anni. Non può più tirare da lontano tanto per farlo come faceva prima, perché riceve molte più attenzioni dalle difese come succede a me. Anche io non posso più tirare da lontanissimo senza pensarci, ora devo essere in ritmo prima di farlo». Le parole di Lillard, che per la verità sono anche corrette nella loro analisi, sono state interpretate in maniera più maligna, come se Dame stesse dicendo a Curry “Ti sei divertito per tutti questi anni a giocare con i fenomeni? Ora capisci come si sta nelle mie scarpe”.
«Considerando che i due hanno una storia pregressa di incontri ai playoff (nei quali Curry è sempre uscito vincente), di “scontro territoriale” (Steph è diventato leggenda a Oakland, dove Lillard è nato e cresciuto) e di gerarchizzazione all’interno delle point guard della NBA (con molti che ritengono Dame superiore, specie dopo la scorsa stagione nella bolla), probabilmente si fa peccato a pensare che Curry sia sceso in campo con qualcosa da dimostrare questa notte, ma non si va poi tanto lontani dalla realtà. «Steph ha la tendenza a cazzeggiare con il pallone. Oggi non c’era nessun cazzeggio» ha detto Draymond Green, che sa leggere Curry meglio di chiunque altro. «L’ho detto subito a Kevon Looney: portagli i blocchi e levati di torno perché stasera non intende passarla. Sta succedendo qualcosa». Quel qualcosa sono stati 62 punti, il nuovo massimo in carriera del due volte MVP.
Il contesto tattico in cui si muove Steph
Il nuovo calendario della NBA in cui spesso si ripetono le partite a poca distanza l’una dall’altra — in modo da minimizzare i viaggi in giro per gli Stati Uniti e aumentare le possibilità di riposo in una stagione compressa — danno un po’ di pepe a una regular season comunque lunghissima nelle sue 72 partite. E non è un caso che Curry abbia approcciato proprio questa partita con un atteggiamento diverso: gli Warriors erano stati umiliati ben oltre i 25 punti di scarto subiti da Portland due giorni fa, sembrando una squadra incapace di tenere il campo in un contesto NBA.
Lo stesso Curry, pur provandoci con 26 punti, era sembrato in difficoltà contro i continui raddoppi e pre-raddoppi della difesa dei Blazers, che ha platealmente ignorato tutti i suoi compagni per concentrarsi solo su di lui. Ma i problemi di pericolosità dall’arco degli Warriors erano ben noti e ampiamente prevedibili, visto che in quintetto partono quattro non-tiratori come James Wiseman, Kelly Oubre, Andrew Wiggins e Draymond Green (al debutto stagionale contro Portland).
Tre azioni in cui Curry viene braccato dalla difesa dei Blazers, scarica il pallone e Kelly Oubre inevitabilmente si schianta sul ferro: in stagione è 2/30 da tre punti, la peggior partenza nella storia della NBA.
A Curry però oltre al tiro è sembrato mancare qualcos’altro. Attorno a sé, infatti, non ha solamente dei cattivi tiratori ma anche dei pessimi passatori e lettori di gioco (tolto ovviamente Green), e in molte occasioni è sembrato aggirarsi per il campo come un predicatore nel deserto. Curry infatti è un giocatore fortemente associativo, che ha bisogno dei compagni per creare connessioni in campo — con un passaggio consegnato, un blocco, un taglio, un dai e vai, uno sprint per lasciare dietro il difensore e liberarsi al tiro. Connessioni che con il gruppo precedente, quello delle cinque Finali consecutive, erano automatiche e che invece con questa nuova strutturazione faticano proprio a materializzarsi. I suoi compagni non sono sintonizzati sulla sua stessa lunghezza d’onda, non sembrano pensare la sua stessa pallacanestro. E non è un caso se questa prestazione è coincisa con la presenza di Draymond Green con le scarpe allacciate per 28 minuti, l’unico che capisce con anticipo cosa vuole fare Steph.
Questa è una giocata di pura telepatia tra due giocatori che davvero si conoscono a memoria. Dopo la partita Curry ha detto: «Per un attimo ho pensato che Draymond non me la volesse passare, poi ovviamente mi è arrivata perfetta perché lui aveva già previsto tutto». Green invece ha detto: «Mi è bastato guardarlo negli occhi al primo possesso per capire che serata sarebbe stata».
Steve Kerr fin dall’inizio della stagione parla della necessità di semplificare l’attacco, ad esempio usando maggiormente i pick and roll alti e centrali per dare dei punti di riferimento ai suoi giocatori meno avanzati dal punto di vista cestistico. Un tipo di attacco che va contro quello che lui predica — il movimento di uomini e palla, i tagli e i blocchi lontano dall’azione, le letture contro le difesa — ma che non è praticabile con il roster che gli è stato messo tra le mani, complice anche il pesantissimo infortunio di Klay Thompson che ha fatto scendere di uno o due gradini le ambizioni di questa squadra.
La miglior semplificazione possibile, però, rimane comunque l’atteggiamento di Steph Curry. Gli Warriors non hanno stilisticamente fatto qualcosa di diverso rispetto alla prima partita contro Portland: è stato Curry a cambiare il modo in cui ha approcciato la gara attaccando a ogni possesso. I 62 punti non sono frutto di una prestazione irripetibile da tre punti — ne ha segnate 8 su 16 tentativi: è successo altre 48 volte che abbia segnato 8 triple in una partita— ma del 18/19 ai tiri liberi, non a caso un nuovo career high. Curry ha aggirato il problema dei raddoppi cercando di battere sul tempo gli avversari, attaccando e battendo il primo difensore dal palleggio — approfittando anche della scarsa difesa di Portland, che non ha i giocatori in grado di fermare uno come Curry quando si accende né nel backcourt né sotto canestro.
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Curry è arrivato al ferro a volontà: dei suoi 62 punti, più della metà sono arrivati dentro l’arco tra tiri da due punti (10/15) e i 18 liberi segnati, costruendo il suo ritmo soprattutto in avvicinamento a canestro. Alla faccia del tiratore monodimensionale.
Steph Curry rende rispettabile quello che tocca
Nonostante quello che si diceva sui social, non c’era davvero bisogno che Curry dimostrasse ancora una volta di che cosa è capace. Anche se si ritirasse domani mattina sarebbe comunque da considerare il più grande tiratore di tutti i tempi, eppure la sua grandezza sta proprio nel modo in cui ha sfruttato la minaccia delle sue capacità balistiche per costruire il resto del gioco e rivoluzionare lo sport che pratica. Perché è vero che Curry in carriera ha giocato insieme a grandi compagni, ma è altrettanto vero che è stato lui a renderli grandi (o ancora più grandi) con la sua presenza.
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Con la consueta ironia, dopo la partita Curry ha citato esplicitamente il meme di Michael Jordan in The Last Dance per parlare delle sue motivazioni: “L’ho presa sul personale”.
Con questa prestazione Curry ha voluto ricordare al mondo di essere ancora in grado di fare la differenza e di portare una squadra oggettivamente scarsa quantomeno alla rispettabilità, e che ogni singola sera in cui scende in campo può arrivare una prestazione di questo livello. Questi Warriors — al netto di tutti i loro problemi che si estendono anche, se non soprattutto, alla metà campo difensiva —, sono comunque al 50% di vittorie con un record di 3-3. E lui — criticato, messo in dubbio, fuori ritmo, lontano dalla pallacanestro praticamente da un anno e mezzo, sottodimensionato e senza compagni all’altezza del recente passato — ha riportato le sue medie sopra ai 32 punti a partita (secondo solo ai 37 di media di James Harden) tirando col 46% dal campo e il 36% da tre, cifre che presto torneranno alle sue medie abituali.
Nonostante abbia superato i 32 anni di età (è il secondo più vecchio di sempre a segnarne 60, dietro solo a Kobe Bryant alla sua ultima partita in NBA) e sia comunque una guardia di 1.85 e 80 chili, Curry è ancora in grado di caricarsi una squadra sulle spalle. Non è pensabile che lo faccia tutte le sere, e a dir la verità non sarebbe neanche sano né per la crescita di questi Warriors né per la conservazione del suo fisico negli anni a venire, visto anche il contratto che potrà estendere il prossimo anno chiudendo la carriera sulla Baia. Ma può farlo, eccome. E in serate come queste è capace da solo di riportare alla mente i primi anni dell’epopea Golden State, quando esplosioni del genere erano all’ordine del giorno rendendoli un appuntamento imperdibile sul League Pass.
Questi Warriors non sono attrezzati per poter competere nella Western Conference e il loro tetto sembra assestarsi attorno alle posizioni che si giocheranno il torneo play-in, quindi tra il settimo e il decimo posto a Ovest. Per arrivarci serviranno altre prestazioni mostruose — anche se non così mostruose — da parte del numero 30, ma se c’è una cosa che questa partita ci ha ricordato è che la sua voglia di competere non va sottovalutata: «Zitto zitto, Steph è uno degli agonisti più feroci con cui io abbia avuto a che fare» ha detto Draymond Green. «Solo perché non dice niente la gente pensa che non gli importi. Ma questa sera sembrava un uomo in missione, ha visto qualcosa di diverso». Probabilmente ha visto qualcosa sui social, e ha voluto dare a tutti qualcos’altro di cui parlare: il suo innegabile posto tra i più grandi di sempre.