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Cinque azioni per ricordare quanto era dominante Tim Duncan
14 apr 2020
Celebriamo il nuovo Hall of Famer riguardando i suoi migliori playoff in carriera, quelli del 2003.
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12 min
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Foto di Andrew D. Bernstein/NBAE via Getty Images
(copertina) Foto di Andrew D. Bernstein/NBAE via Getty Images
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Riguardare i playoff del 2003 di Tim Duncan oggi è un’esperienza piuttosto paradossale. La consapevolezza che ho acquisito nei diciassette anni che sono passati da quella stagione - la stessa che mi fa sentire una persona profondamente diversa da allora - rende difficile scindere l’idea che possiedo, oggi, di Tim Duncan – quella del totem, del giocatore metafisico, un’entità composta in parti uguali da carne e luce – da quella del giocatore di 27 anni di quei playoff che sta per vincere il suo secondo titolo NBA. È un riflesso involontario: nella mia testa Duncan è esattamente entrambe le cose, sia l’antieroe sulle cui spalle è stata costruita la dinastia sportiva più irripetibile di tutti i tempi, sia l’All-Star nel pieno della carriera. Vive in una sorta di limbo senza tempo.

Nei filmati opachi di YouTube di quei playoff la NBA non è ancora passata attraverso la rivoluzione che l’ha resa quella che è oggi. L’architettura delle arene e il font dei parquet è incredibilmente minimale, la produzione televisiva ha ancora il timbro degli anni ’90. La fisicità è maggiore ma finisce con appesantire uno spettacolo già di per sé sovra-strutturato, mascolino, faticosamente intenso. La geografia e la geometria del campo sono agli antipodi rispetto a oggi e non solamente per lo scarso utilizzo del tiro da tre punti. Sembra quasi che non iniziare un possesso in post basso sia passibile di sanzione. È uno sport diverso, più essenziale e meno evoluto, dove giocatori come Duncan brillano di una luce diversa.

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Anche Doris Burke non è ancora Doris Burke.

La prima cosa che salta subito all’occhio riguardando quelle partite è quanto forte sia Duncan in quel momento. Ci sono tantissime partite passate alla storia tra le serie di playoff della sua carriera – gara-6 e il secondo tempo di gara-7 contro i Dallas Mavericks nella Finale di Conference del 2006 o il supplementare di gara-6 contro gli Oklahoma City Thunder nel 2014 su una gamba sola, per citarne un paio – ma in nessun altro periodo Duncan è stato in grado di raggiungere lo stesso nirvana fisico, tecnico e mentale. I playoff del 2003 sono, per completezza e dominio mostrato in campo, l’indiscutibile apice della sua carriera. Viene da due premi di MVP della regular season consecutivi, gioca con la lucida rabbia di chi vuole cancellare le recenti delusioni e in ogni singola partita è il migliore in campo. Nella prima serie i Phoenix Suns sono talmente spaventati da lui che basta un semplice taglio per ritrovarsi soli a centro area.

Per quanto la sua allergia ai riflettori lo abbia sempre un po’ spinto fuori dai forum del sacro dibattito, in quel momento, l’estate del 2003, Tim Duncan è indiscutibilmente il miglior giocatore del mondo. In quei playoff gioca 1.021 minuti, il suo massimo, mettendo sul campo 24.7 punti, 15.4 rimbalzi, 5.2 assist e 3.3 stoppate a sera. Domina, nel vero senso della parola, contro chiunque. Gioca delle Finals quasi ipnotiche. È troppo più forte, più in controllo, più presente di ogni altro giocatore in campo. La quasi-quadrupla-doppia-che-forse-era-davvero-una-quadrupla-doppia della decisiva gara-6 contro i New Jersey Nets è una delle migliori prestazioni individuali di ogni epoca.

Pescando tra gli infiniti highlights di quelle ventiquattro partite ne ho scelti cinque. Cinque azioni, forse non le cinque più iconiche in assoluto, ma quelle che racchiudono per me l’essenza di Tim Duncan nel modo più completo, rotondo e sottile possibile.

Fiuto tattico

La superiorità di Duncan durante le Finals del 2003 è quasi imbarazzante. Segna 24.3 punti di media a partita (con il secondo, Jason Kidd, che neanche arriva a 20); prende 17 rimbalzi a partita (nessun altro raggiunge la doppia cifra); e non è quello con più assist soltanto perché Kidd ne smista appena due in più di lui. Nel terzo quarto di gara-1 fa canestro in ogni modo, indirizzando subito la serie, nelle altre frantuma il record per stoppate (5.3 a partita, un numero assurdo) in una serie di Finale NBA. È talmente in controllo di ogni singola cosa che succede attorno a lui da non avere neanche bisogno della palla per dimostrare la sua forza, basta la sua presenza fisica.

Nell’azione del video sopra, Duncan tocca la palla soltanto una volta, per prendere l’ennesimo rimbalzo e riaprire a due mani, eppure è il vero protagonista della scena. Sembra essere l’unico a muoversi con uno scopo. L’attacco dei Nets è farraginoso, gli altri quattro in nero-argento sono nervosi. Gli Spurs sono a un quarto e mezzo dal vincere il loro secondo titolo, è inevitabile che ci sia tensione. Duncan sembra muoversi su un asse cartesiano tutto suo, anticipando ogni mossa degli avversari quasi la conoscesse in anticipo. Riguardate l’azione: le spaziature rivedibili dell’attacco dei Nets certamente lo aiutano, ma Duncan sembra sapere prima che Kerry Kittles (il numero 30) cercherà di tagliare in backdoor. Il suo passo in aiuto sulla linea di fondo è talmente fluido da sembrare una cosa normale e non una giocata difensiva sopraffina.

Quando Rodney Rogers (il numero 6) tenta la penetrazione allo scadere del cronometro dei 24 secondi, Duncan più che difendere sembra guidarlo verso un punto prestabilito, lo accompagna come un buttafuori al termine di una serata storta, trasformando l’aggressore in aggredito. Il suo senso del campo gli ha permesso di manipolare lo spazio a suo vantaggio, costruendo con pazienza un cono ristretto nel quale poter dominare senza particolare sforzo.


Intelligenza cinestesica

Il secondo turno contro i Los Angeles Lakers rappresenta uno spartiacque fondamentale, e non soltanto della carriera di Duncan. I Lakers sono una delle squadre più forti di sempre, hanno vinto tre titoli in fila spazzando via San Antonio nelle due post-season precedenti con un impietoso 8-1 complessivo che, più di ogni altra squadra prima e dopo, ha esposto i limiti di Duncan e dei nero-argento. Quella serie ha l’aria di essere un passaggio di consegne. Volendo parafrasare lo stesso Phil Jackson, dopo quella serie gli Spurs avrebbero ottenuto il brevetto da pilota senza alcun asterisco. Per Duncan è la serie della consacrazione – il 40-15-7 che rifila ai Mavericks nella gara-1 del turno successivo ha un che di liberatorio– e la quantità di giocate da ricordare è probabilmente in tripla cifra.

Riuscire a stoppare Shaquille O’Neal, però, è forse il simbolo migliore della definitiva rivincita. Vederli duellare è sempre stato molto interessante, contrapposti dalla netta differenza di stile. La forza bruta di O’Neal da una parte, il senso tattico di Duncan dall’altra. Il ciclopico Shaq contro l’ectomorfo Tim. Il glamour contro il silenzio. La stazza contro la tecnica. Per quanto raramente l’assegnamento difensivo primario di Shaq toccasse a Duncan, basta guardare le immagini qui sopra per capire come ogni attenzione del caraibico fosse costantemente rivolta al 34 gialloviola.

Nonostante la marcatura a uomo lo metta contro Robert Horry, Duncan con la coda dell’occhio non perde mai di vista i palleggi insistiti di Shaq. Già dall’entry pass le sue attenzioni sono rivolte verso di lui, lo si capisce dal sincronismo assurdo col quale inizia ad aiutare nello stesso esatto momento nel quale O’Neal ruota sul perno per prendere la linea di fondo. Le braccia lunghissime e il tempismo gli permettono di portare a termine la stoppata, ma per quanto basterebbe questo per giustificarne la presenza in questa top-5, quello che è veramente impressionante è ciò che accade subito dopo.

Nel momento in cui la palla deviata dai suoi polpastrelli rimbalza sul ferro, Duncan è girato quasi interamente verso il fondo del campo e ha i piedi per terra. Non può vedere che Horry sta arrivando a rimbalzo. Eppure, Duncan salta nuovamente e, in maniera inspiegabile, colpisce di nuovo la palla con un movimento che ricorda un pallonetto della pallavolo, mandando a vuoto il tentativo di intervento di Horry e servendo il compagno che parte in transizione. È una giocata quasi invisibile ma di un’importanza fondamentale nell’economia di una partita, una giocata che si spiega soltanto attraverso quella che David Foster Wallace definiva “intuitività occulta” – quel modo che hanno i grandi campioni di prevedere il senso del gioco e che li porta a compiere gesti meravigliosi e irripetibili.

In alcune azioni Duncan non sembra essere soltanto meglio posizionato o più preparato degli altri, ma anche il più reattivo. I suoi riflessi, la sua coordinazione occhio-mano e la velocità con cui riesce a coprire porzioni di campo in breve periodo sono di un livello inaccessibile per la stragrande maggioranza degli altri giocatori. Questo perché Duncan possiede una capacità sensazionale di controllare il proprio corpo attraverso complessi e rapidissimi sistemi di applicazione. È l’essenza del cestista cinestesico per eccellenza, quello che riesce a trovare risorse sotto ogni genere di pressione, che sembra reagire meglio degli altri alla paura, alla tensione, all’insicurezza, a tutti quegli aspetti che generalmente vengono intaccati dalla fatica, che annebbiano la consapevolezza del giocatore. La psiche è la forza di Tim Duncan, non a caso uno dei giocatori più inflessibili e meno rivelatori sotto il profilo emotivo che siano mai esistiti. Quella manata al parquet della gara-7 persa contro i Miami Heat nel 2013 è forse la miglior riprova della sua imperturbabilità proprio perché unica in tutta la sua carriera.


The Big Fundamental

La forza di Tim Duncan, ovviamente, non sta tutta nei trucchi Jedi. Per essere un sette piedi vero e proprio anche la sua tecnica è di ottimo livello, così come i suoi fondamentali, che gli consentono colpi allo stesso modo di cristallina bravura e di potenza. Duncan ha dovuto imparare a convivere con i raddoppi in post basso fin dagli esordi, ma probabilmente mai come durante i playoff del 2003 ha mostrato una varietà di soluzioni notevole, forse perché per la prima volta ha abbinato contenuto e risultato. Giocate come quella sopra – una fucilata che va in controtendenza con la percezione semplice dell’impatto visivo – sembra squarciare lo spazio-tempo per raggiungere il nostro tempo presente. Potrebbe benissimo stare in una carrellata di highlights di LeBron James dell’ultima stagione.

Oppure guardate questa partenza in palleggio quasi da fermo quanto sia moderna. Così come la sua voglia di spingere la transizione dopo un rimbalzo o una stoppata, di improvvisarsi playmaker come il suo idolo Magic Johnson, di giocare il pick and roll tra lunghi con David Robinson, di saper regalare assist ad altissimo coefficiente di difficoltà.

In molti aspetti del gioco il caraibico è stato veramente un precursore dei tempi. Duncan non è stato il volto delle rivoluzione NBA ma è stato certamente tra quelli che hanno saputo tratteggiarne i confini in modo più nitido. La sua capacità di adattarsi a contesti diversi, la stessa che gli ha permesso di essere decisivo e vincente in epoche che spaziano dai centri giganti tipo Shaq o Yao Ming ai lunghi che aprono il campo come Dirk Nowitzki, Rasheed Wallace e Chris Bosh, fino a toccare anche le sponde della Terra dei Falsi Cinque come Draymond Green, è figlia più di ogni altra cosa del suo equipaggiamento tecnico.

Prendere rimbalzi praticamente senza saltare e toccando la palla più volte. Esiste una cosa più Tim Duncan di questa?

Immaginare cosa avrebbe potuto fare Duncan (e non solo lui, ovviamente) potendo giocare in una lega che possiede una migliore e più evoluta concezione dello spazio è un esercizio divertente quanto stimolante. Avrebbe sofferto la maggiore rapidità dei giocatori di nuova generazione? Avrebbe mai sviluppato un jumper affidabile da tre punti? Sicuramente la qualità dei suoi blocchi in situazioni di pick and roll, uno strumento usato in rari casi durante quei playoff, avrebbe amplificato ulteriormente il suo impatto nella metà campo offensiva. Guardate la bellezza sofisticata di questa apertura: cosa avrebbe potuto fare il Duncan al massimo della forma del 2003 nella NBA contemporanea?


Quando eravamo Re

Esiste una sequenza che spiega cosa siano stati per gli Spurs più di questa? Manu Ginobili ruba una palla che non è sua e mette una tripla senza senso – una di quelle che hanno fatto invecchiare Popovich più rapidamente – e nell’azione successiva Duncan rifila una stoppata sbucando da dietro senza la minima posizione. Forse è la giocata che mi ha colpito più di tutte. Forse perché è anche quella che mi ha fatto sentire più giovane e spensierato.

È anche la giocata che maggiormente simboleggia la forza che gli Spurs avrebbero acquisito negli anni successivi, completando le qualità già uniche di Duncan con quelle perfettamente complementari di Ginobili e Tony Parker.


Tim Duncan, il leader

Duncan è stato descritto e raccontato in ogni gradazione della scala che va da “divo del muto” al “tendente all’autismo”, e anche in questo caso è probabile che ci sia un fondo di verità in ognuna di esse. Ma dietro al suo mutismo selettivo, alla sua faccia sempre uguale, al suo quantomeno enigmatico disinteresse per qualsiasi cosa, almeno pubblicamente, è impossibile classificare Duncan come un giocatore algido, robotico, indurito, rigido. Anzi: Duncan è un giocatore “umano” quasi più di chiunque altro. Prendiamo questo video come esempio.

Parker ha giocato male nella serie precedente contro Dallas. Nel primo tempo di quella gara-1 contro i Nets ha tirato con 1/6 dal campo, ha sbagliato qualche scelta, è stato confusionario. Non fosse per una prolungata esitazione della telecamera neanche riusciremo a vedere, dalla televisione, quella leggera pacca sulla testa che Duncan regala al compagno tornando in difesa. È un altro gesto invisibile, magari pure piccolo nella forma (come l’esultanza appena accennata dopo il canestro), ma che mostra meglio di ogni parola la natura della sua leadership, della sua inaccessibilità che diventa calore e presenza nel momento giusto. Tim Duncan non è stato solo uno dei più grandi giocatori di basket di sempre, ma anche un grandissimo leader.

Se c’è una cosa che ho sempre adorato di Tim Duncan è la tenerezza intrinseca di tanti dei suoi gesti, quei tic più o meno inconsci che hanno accompagnato la carriera. L’aggrapparsi ai calzoncini dopo uno sforzo fisico prolungato, allungandoli fino a poco sotto il ginocchio, quel rituale particolare di abbracciare la palla stringendola al petto con entrambe le mani prima di ogni gara. I suoi occhi. Il modo di approcciarsi agli arbitri dopo un fischio ritenuto sbagliato, piegando la schiena e incassando il bacino goffamente fino a toccare appena la schiena dell’arbitro durante la protesta. Ma più di ogni altra cosa ho adorato la sua capacità di esserci per i compagni, sempre, in ogni momento: è vederlo fare tutte quelle piccole cose, quegli abbracci, quelle pacche, quella vicinanza fisica anche durante i playoff migliori della sua carriera, mi ha reso permesso di completare il cerchio e fondere nuovamente insieme tutte le versioni di Duncan che si sono susseguite nel tempo.

Durante i playoff del 2003, Duncan, come altri grandissimi dello sport prima e dopo di lui, ha saputo penetrare all’interno di quella sfera di natura paranormale – quella dove il tempo scorre con una velocità diversa. Dove gli avversari sembrano sempre un po’ più lenti, un po’ più scarsi, un po’ più prevedibili di te – che permette alle leggende di prendere vita. Mi fa piacere aver rivisto, in quelle immagini, lo stesso dolce, fortissimo, eterno Tim Duncan che conservavo nei miei ricordi.


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