
“Absolute cinema”, così possiamo descrivere quest’ultima settimana del mercato NBA, rifacendoci alla lingua dei meme NBA. Un confine fra realtà e finzione scenica che è andato pian piano assottigliandosi, fino allo scioglimento della trama e ai titoli di coda partiti alle 21 di ieri sera, ora italiana.
L’eroe picaresco, nonché protagonista assoluto, è stato Jimmy Butler, che ha fatto tutto e il contrario di tutto, pescando dal proprio bagaglio infinito di sotterfugi. Si è fatto sospendere per tre volte chiedendo prima lo scambio in conferenza stampa a inizio gennaio, poi perdendosi un volo di squadra e infine sbattendo le porte della facility dei Miami Heat una volta venuto a sapere che Haywood Highsmith sarebbe partito titolare al posto suo. Il suo agente, Bernie Lee, prima di tutto questo ha anche avuto il coraggio di screditare Shams Charania cercando di gettare ombra sui rumors che avrebbero voluto il suo cliente in uscita dalla Florida, salvo poi vederlo mettere in scena tutto questo polverone di lì a poco. Butler ha addirittura provato a far leva sulla propria opzione contrattuale per la prossima stagione, avvisando che l’avrebbe rifiutata - andandosene a zero in free agency dopo un affitto di pochi mesi - qualora fosse finito in una qualunque squadra che non fossero i Phoenix Suns. Alla fine, si è fatto andare bene i Golden State Warriors e ha pure esteso immediatamente con un biennale da oltre 110 milioni di dollari, il massimo che potesse ottenere. Di nuovo, tutto e il contrario di tutto.
Ma il vero deus ex machina si è rivelato, contro ogni previsione, Luka Dončić, disceso dal cielo a Los Angeles vestito di gialloviola senza preavviso, dopo una trattativa segretissima e con logiche discutibili (o semplicemente ancora poco cristalline) fra l’executive dei Mavericks, Nico Harrison, e quello dei Lakers, Rob Pelinka. La notizia è il “pesce d’aprile” - come lo ha chiamato il diretto interessato - di questa settimana di scambi ossessivi, uno scherzetto architettato dagli executive che ha scosso un mercato irrigidito dalle regole del nuovo CBA. La portata del suo approdo, avvenuto in cambio di Anthony Davis, Max Christie e una sola first-round pick futura, ha rivoluzionato l’ecosistema in avvicinamento alla deadline, ridefinendo il peso dei Draft asset e mettendo in moto ancora più attivamente uno dei mercati più grandi in NBA. Non è un caso che, a meno di 24 ore dallo scambio per Dončić, i Lakers si siano mossi proprio utilizzando una delle first-round pick risparmiate nel precedente scambio per arrivare a un giovane lungo perfetto per il gioco dello sloveno, seppur non esente da difetti (soprattutto fisici), come Mark Williams dagli Charlotte Hornets.
La presenza di co-protagonisti come De’Aaron Fox e Zach LaVine, ma anche Brandon Ingram, ha reso la sceneggiatura di questa sessione di mercato prima della trade deadline semplicemente perfetta, ricca di trame e sottotrame di altissimo livello, che non hanno lasciato nulla al caso.
Come per ogni prodotto artistico che voglia essere acclamato dalla critica, però, serve un’analisi al dettaglio di tutti gli elementi (soprattutto a un mese dai Premi Oscar). Le squadre coinvolte sono trenta, e altrettanti sono i voti necessari a valutare le sequenze narrative di ciascuno dei personaggi comparsi.
EASTERN CONFERENCE
- ATLANTA HAWKS
- in entrata: Caris Levert, Georges Niang, due first-round pick swap 2026 e 2028, tre second-round pick dai Cavaliers; Terance Mann, Nah’Shon Hyland, tre second-round pick dai Clippers; second-round pick 2028
- in uscita: De’Andre Hunter, Bogdan Bogdanovic, Cody Zeller
- salary cap: hard cap al first apron; $3 milioni sotto la luxury tax line
Il gran finale della trade deadline: prima che De’Andre Hunter e Bogdan Bogdanovic venissero mossi a pochi minuti dalla chiusura degli scambi, l’ultimo giorno di mercato sembrava dovesse essere scarico. Invece Atlanta è arrivata a darci un finale interessante. Poco da dire: la franchigia ha mirato al risparmio sul medio-lungo termine, liberando due dei maggiori stipendi di squadra per - fra gli altri - LeVert in scadenza a fine stagione e “Bones” Hyland che sarà restricted free agent (difficilmente resterà). Per il resto, role player e scelte al draft che non fanno male a una squadra che fatica a uscire dalla mediocrità, e che dimostra di aver fatto pace con questo quantomeno per il momento.
Si aggiunga che lo scambio di Cody Zeller ha permesso di evitare la luxury tax sul buzzer beater, e non si potrà che aggiungere un “+” di incoraggiamento. Ah, c’è un giocatore di troppo da tagliare.
VOTO: 6+
- BOSTON CELTICS
- in entrata: second-round pick 2021 dai Rockets; Torrey Craig, firmato
- in uscita: Jaden Springer, second-round pick 2027, second-round pick 2030
- salary cap: $3.6 milioni sopra il secondo apron
Comparsa di questa movimentata deadline. Solo scaricando il contratto di Jaden Springer si crea una trade exception da $4 milioni e si salvano circa $16 milioni fra tasse e stipendi. L’arrivo di Torrey Craig al minimo riporta il roster a 14 giocatori. Una “+” da manuale.
VOTO: 6+
- BROOKLYN NETS
- in entrata: D’Angelo Russell, Max Lewis, tre second-round pick
- in uscita: Dorian Finney-Smith, Shake Milton
- salary cap: hard cap al primo apron; 677.000 dollari sotto la luxury tax line
Per Brooklyn bisogna ragionare su quello che non è successo: Cam Johnson, fra i maggiori indiziati a partire, e particolarmente ambito, è invece rimasto, anche a causa del brutto tempismo di un infortunio alla caviglia destra. Il suo contratto è ancora lungo, ci sarà modo di rifarsi, ma nel bel mezzo di questa ottima prima parte di stagione era un’occasione ghiotta da cogliere. Penalità per la noia, nonostante le alte aspettative.
VOTO: 6-
- CHARLOTTE HORNETS
- in entrata: Cam Reddish, Dalton Knecht, first-round pick swap 2030, first-round pick 2031 dai Lakers; Jusuf Nurkic, first-round pick 2026 dai Suns; Josh Okogie, tre second-round pick dai Suns
- in uscita: Mark Williams; Nick Richards; Vasilije Micic, Cody Martin
- salary cap: hard cap al primo apron, $2.9 milioni sotto la luxury tax line
“Guarda mamma, come Sam Presti”, deve aver urlato il President of Basketball Operations Jeff Peterson, che ha fatto solo da seller o da “discarica” in cambio di un tesoretto di scelte al draft, per un totale di 12 nei prossimi sette anni. Il tipo di rebuilding attivo che funziona, e che ha contribuito a innescare molti scambi importanti, fra cui quello di Jusuf Nurkic, Mark Williams e prima ancora di Nick Richards.
VOTO: 7
- CHICAGO BULLS
- in entrata: Kevin Huerter (Kings), Tre Jones e Zach Collins (Spurs); first-round pick 2025 (Bulls), recuperata da San Antonio
- in uscita: Zach LaVine; Chris Duarte e Torrey Craig, tagliati
- salary cap: $4.9 milioni sotto la luxury tax line
Un serpente che si morde la coda fino a fagocitarsi è la prima immagine che viene in mente dopo questa sessione di mercato dei Bulls. Il recupero della propria first-round pick 2025 dagli Spurs fa sì che adesso siano disponibili per la squadra tutte le scelte da qui al 2031, e testimonia beffardamente un perfetto ritorno al nulla, una totale assenza di progresso che ha riportato Chicago indietro di tre anni - se non di più, forse addirittura al post-Butler.
Una sola serie playoff giocata in sette stagioni. Una sola la vittoria ottenuta nel 2022 contro i Milwaukee Bucks prima di essere eliminati al primo turno. Una sola la first-round pick ottenuta negli scambi di DeMar DeRozan, Alex Caruso e Zach LaVine - la propria, tra l’altro. E questa ricorsività alla quale i Bulls sembrano sottoposti ha voluto proprio che due di questi tre nomi si riunissero ai Sacramento Kings, in entrambi i casi ricevendo un compenso minimo.
I tifosi possono provare a consolarsi con l’arrivo di Tre Jones, anche perché Kevin Huerter e Zach Collins non faranno certamente parte dei piani di Chicago entro un paio di stagioni, a stare larghi. E la speranza che al prossimo Draft possa arrivare Cooper Flagg, o un prospetto d’élite, è l’ultima a morire. Ma lo stato attuale trasuda solo delusione, per quello che non è stato in questi anni, ma anche nell’immediato. Un nome del calibro di Nikola Vucevic, per il quale si era arrivati a pensare di ottenere anche una first-round pick o due, è rimasto, e con lui i vari Coby White, Patrick Williams e Lonzo Ball - che ha pure esteso con un biennale da $20 milioni, regalando un dolce epilogo a una storia di infortuni devastante.
Tutto quello che resta di positivo è rappresentato dalla trade exception del valore di $17.2 milioni generata nello scambio con i Kings, mentre il resto non è troppo diverso dal risultato finale di un’ibernazione.
VOTO: 5-
- CLEVELAND CAVALIERS
- in entrata: De’Andre Hunter dagli Hawks
- in uscita: Caris Levert, Georges Niang, due first-round pick swap 2026 e 2028, tre second-round pick
- salary cap: $1.6 milioni sotto la luxury tax line
Una ribellione titanica alla massima che recita “squadra che vince, non si cambia”, compiuta con l’eleganza e la leggiadria delle Muse del Parnaso. I Cleveland Cavaliers hanno, in un colpo solo, ottenuto un’ala versatile di altissimo livello come De’Andre Hunter (nel bel mezzo di una breakout season), evitato la luxury tax e aperto la possibilità di firmare qualunque giocatore dal mercato dei buyout. Il prezzo è stato quello di due role player come Georges Niang e soprattutto Caris Levert, scorer tuttofare in uscita dalla panchina, oltre a due first-round pick swap e a tre scelte al secondo giro, ma ne è valsa assolutamente la pena.
Adesso, però, servirà valorizzare Hunter, offrendo continuità alle prestazioni messe in mostra ad Atlanta finora. A 27 anni, infatti, l’ala è esplosa, dopo stagioni intere di aspettative interrotte da tanti, troppi problemi fisici, ma anche da prestazioni non all’altezza del suo quadriennale da $90 milioni. “Retrocesso” in panchina, ha cominciato a produrre di più giocando di meno, passando a 19 punti di media in 28.8 minuti rispetto ai 15.6 in 29.5 minuti della stagione precedente. L’incremento nella produzione è stato di +5.2 punti per 100 possessi in proiezione, aiutato soprattutto dall’aumento dell’efficienza al tiro da tre punti, con il 39.3% su 6.7 tentativi a partita. La maggior parte delle sue conclusioni da fuori arriva piedi per terra in catch&shoot, con un tasso di conversione del 39.3%, ideale per un attacco come quello dei Cavaliers, in top-10 per numero di tiri “open” e “wide-open” generati (con il difensore a oltre un metro di distanza), nonché 4° per frequenza di tiro da fuori e 1° in assoluto per percentuali.
Ancora più intrigante è la sua abilità nel mettere palla per terra e attaccare il close-out avversario a vantaggio creato, facendo notare importanti letture anche su semplici “penetra-e-scarica”, senza paura di mettere piede nel pitturato. La sua taglia (203 centimetri) gli permette infine di approfittare dei mismatch in caso di accoppiamento con wing avversarie un po’ più minute, ma anche di farsi valere a rimbalzo e di difendere su tre/quattro ruoli, rendendolo un giocatore versatile e completo. Tutte caratteristiche che calzano a pennello il sistema di coach Kenny Atkinson.
I problemi, come anticipato, sin qui sono stati prevalentemente di natura fisica, con numerosi infortuni che hanno tolto continuità a un role player comunque sempre mantenutosi su un buon livello, ma mai toccando queste vette di produzione. Attenzione anche al tempo necessario per integrarsi in quella che finora è apparsa come una macchina perfetta, anche grazie a quei due nomi in uscita: l’obiettivo è arrivare con tutti gli ingranaggi ben oliati ai Playoffs, ma per un giocatore subentrare in un ambiente già così rodato può risultare un po’ più complicato del previsto. Anche a causa di questi rischi, meglio evitare di regalare votoni.
VOTO: 7+
- DETROIT PISTONS
- in entrata: Dennis Schröder e Lindy Waters III dagli Warriors
- in uscita: KJ Martin, due second-round pick
- salary cap: $29 milioni sotto la luxury tax line
In qualche modo hanno facilitato la trade Butler, girando KJ Martin ai Jazz dopo averlo assorbito dai 76ers, ma per il resto una comparsa piattissima. Insieme a Nets e Grizzlies, saranno fra le poche squadre con spazio salariale l’estate prossima, e avranno anche la propria Room Exception da $7.9 milioni, rimasta inutilizzata nello scambio con Philadelphia.
VOTO: 6+
- INDIANA PACERS
- in entrata: Thomas Bryant dagli Heat
- in uscita: second-round pick 2031; James Wiseman, cash
- salary cap: hard cap al second apron; $2.4 milioni sotto la luxury tax line
Erano attesi fuoco e fiamme per Myles Turner, ma i Pacers sono rimasti invischiati negli affari per due lunghi sbagliati. L’acquisto di qualche settimana fa di Thomas Bryant sta dando i suoi frutti, mentre scaricare James Wiseman è servito a liberare uno slot a roster e ad avere più flessibilità al di sotto della luxury tax line. Decisamente troppo poco per il potenziale narrativo - ma la squadra sta ingranando, perciò (a loro) va bene così.
VOTO: 6
- MIAMI HEAT
- in entrata: Andrew Wiggins, Kyle Anderson, first-round pick 2025 protetta top-10 dagli Warriors; Davion Mitchell dai Raptors
- in uscita: Jimmy Butler, Josh Richardson; PJ Tucker, second-round pick, cash considerations
- salary cap: $2.9 milioni oltre la luxury tax line; $1.9 milioni sotto al primo apron
Restano solo le reliquie di quella che è stata una vera e propria battaglia. Pat Riley, alla fine, ce l’ha fatta, si è liberato di un degno avversario che lo ha messo a dura prova, costringendolo a scatenare tre sospensioni - di cui una a tempo indeterminato - e a dover dichiarare pubblicamente di volerlo inserire sul mercato. Per quanto sia stato complicato, Jimmy Butler se n'è andato, e non si è lasciato dietro di sé nemmeno troppa devastazione.
Solitamente, quando un giocatore con questo potere contrattuale arriva a manipolare il mercato, non è facile uscirne senza svenderlo o finire con il perderlo a zero in free agency. Al contrario, a Miami sono arrivati non solo giocatori dal discreto valore, ma anche una first-round pick che - a causa di una Western Conference molto competitiva - rischia di finire fuori dalla top-10, ma comunque in lottery, già dal Draft 2025.
Quanto al secondo scambio, quello di PJ Tucker in cambio di Davion Mitchell, si tratta di una vera e propria perla. Non solo perché arriva un mastino e un buon playmaker ideale per il sistema di coach Spoelstra (e che potrà anche essere confermato in estate), ma anche perché in questo modo gli Heat sono scesi al di sotto del primo apron, in modo da non avere restrizioni sul buyout market nella firma di giocatori reduci da contratti corposi. Il roster al momento sarebbe al completo, ma non si sa mai chi si possa liberare.
In termini di fit nell’immediato, il giocatore più interessante è ovviamente Andrew Wiggins, che a Golden State si è trasformato in un abilissimo 3&D, capace di tenere in isolamento sulle maggiori minacce avversarie, dimostrando anche grande versatilità difensiva su tre o quattro (in base alla stazza) ruoli. Il tutto, convertendo con percentuali al tiro da 3 attorno al 38% in quattro delle ultime cinque stagioni. A Miami, gli sarà richiesto un ulteriore step offensivo, giocando in un attacco privo di una grande minaccia offensiva e che necessita di un minimo di creazione in più palla in mano. Wiggo è da sempre innamorato del mid-range, tanto che il 35% delle sue conclusioni (80° percentile) arriva da lì, perciò ci si aspetta per lui più libertà per riavvicinarsi al suo primissimo “io” visto in quel di Minneapolis.
Due role player da testare più Wiggins, che è qualcosina di più, e una first-round pick che potrebbe finire in lottery già da quest’anno (e comunque priva di protezioni nei successivi): difficile chiedere di più per un giocatore in uscita, che senza questo scambio sarebbe scappato senza salutare a fine stagione.
VOTO: 7+
- MILWAUKEE BUCKS
- in entrata: Kyle Kuzma (Wizards), Jericho Sims (Knicks), second-round pick 2025, diritti su Hugo Besson; Kevin Porter Jr. dai Clippers
- in uscita: Khris Middleton, AJ Johnson, Delon Wright, first-round pick swap 2028, diritti su Mathias Lessort e cash; Patrick Baldwin
- salary cap: $4.3 milioni sotto al secondo apron
La parte più scialba della storia, quella che nessuno vuole leggere. Separarsi così da Khris Middleton, uno degli eroi dell’anello del 2021, spedendolo nella grigia D.C. - dove probabilmente dovrà anche aspettare a ricevere il buyout, avendo una player option da $34 milioni per la prossima stagione - è una hybris vera e propria. Farlo in cambio di un Kyle Kuzma a dir poco regredito, poi, peggiora solo le cose.
La scelta è in realtà prettamente salariale, dal momento che il contratto del neo-arrivato procederà al ribasso nei prossimi anni e in generale è meno corposo rispetto a quello del veterano in uscita, che stava iniziando a dare segni di cedimento fisico.
Dato che Milwaukee partiva nella zona fiscale più restrittiva in assoluto, questo movimento - con multipli stipendi aggregati - è stato possibile solo perché ha permesso di scendere al di sotto del secondo apron. Aver girato agli Spurs anche Patrick Baldwin sembrava il presagio di un movimento legato a questo aspetto, dato che nel primo apron si sarebbero potuti impacchettare insieme stipendi come quello di Pat Connaughton e MarJon Beauchamp, ma alla fine non se n'è fatto nulla. I Bucks si sono accontentati solo di scendere al di sotto del second apron, conservando così la possibilità di scambiare la propria first-round pick 2032 e lasciando aperti vari scenari in vista della prossima estate, quando Brook Lopez sarà free agent e lo spazio salariale sarà sufficiente per qualche mossa più aggressiva.
In termini di fit, l’arrivo di Kyle Kuzma è un’incognita. Il giocatore non ha le caratteristiche o il tocco di Middleton, ma è un’ala più lunga e che può dire la sua nella conversione del vantaggio creato. Negli ultimi anni ha avuto più opportunità di approdare in un contesto competitivo, come lo scorso anno con i Dallas Mavericks, ma non ne è mai sembrato realmente convinto. Di conseguenza, si è adagiato e i suoi numeri sono definitivamente crollati soprattutto in questa stagione, nel corso della quale sta realizzando 15.2 punti a partita con il 48.8 di true shooting% e un minimo in carriera di 28.1% da tre punti. Eppure, per quanto impigrito, non bisogna dimenticare che le sue migliori stagioni sono arrivate ai Lakers, quando aveva un ruolo offensivo circoscritto e difensivamente gli si chiedeva perlopiù di stare sulla peggio attaccante avversario per fungere da aiuto in arrivo dal lato debole. Un incarico, quest’ultimo, che nel sistema di Milwaukee potrà provare a replicare, adeguandosi anche a un carico offensivo molto ridotto dopo le stagioni di usage% - statistica che misura il carico offensivo - più alte in carriera, sempre nei pressi del novantesimo percentile.
Prima di chiudere, resta da capire quale sarà il ruolo di Kevin Porter Jr., scorer “microwave” capace di accendersi in un attimo ma molto discontinuo e poco concentrato sulle due metà campo, per usare un eufemismo. Magari i Bucks ci vedono un ball-handler in uscita dalla panchina.
Nella valutazione, un meno per non essere riusciti a sfruttare l’occasione per uno scambio una volta scesi al di sotto del secondo apron.
VOTO: 6-
- NEW YORK KNICKS
- in entrata: Delon Wright, diritti su Mathias Lessort e cash dai Bucks
- in uscita: Jericho Sims, diritti su Hugo Besson
- salary cap: hard cap al secondo apron, 540.000 dollari sotto
Un’altra insigne comparsa. New York ha optato per una strategia conservativa, credendo nel rientro di Mitchell Robinson, che deve ancora debuttare, ma che detiene uno stipendio da $14 milioni pesante per una squadra abbondantemente in luxury. Per queste ragioni, ci si aspettava una mossa per avere sgravi fiscali, ma i Knicks e Leon Rose sembrano contenti così. Chiudendo: Delon Wright è un difensore à la Thibodeau, ma difficilmente avrà minuti con Cam Payne e Miles McBride, salvo infortuni.
VOTO: 6
- ORLANDO MAGIC
- in entrata: /
- in uscita: /
- salary cap: $20.5 milioni sotto la luxury tax line
Il Banchero delle ultime partite è troppo brutto per essere vero, e lo sanno anche i Magic. Per questo, hanno deciso di non forzare la mano, restando a contatto con la zona Playoffs, a due vittorie dal sesto posto.
VOTO: NC
- PHILADELPHIA 76ERS
- in entrata: Quentin Grimes, second-round pick 2025 dai Mavericks; Jared Butler, quattro second-round pick dai Wizards
- in uscita: Caleb Martin; KJ Martin e due second-round pick; Reggie Jackson, first-round pick 2026
- salary cap: $3.6 milioni sotto la luxury tax line
Operazione: risparmio. Ma per disperazione. Il record di 20 vittorie e 30 sconfitte sta migliorando e, nel basso livello della Eastern Conference, il Play-In si trova a una sola vittoria di distanza. Ma dopo la costruzione estiva del roster, e l’ammontare di tasse da pagare, l’obiettivo doveva quantomeno sembrare quello di provare a vincere. Purtroppo, i problemi cronici di Paul George e Joel Embiid hanno deciso il contrario e Daryl Morey ha dovuto mettere una pezza.
Lo scambio di Caleb Martin è servito a fare scendere il conto da 17 a 10 milioni di dollari in tasse, poi il “salary dump” di KJ Martin ha fatto il resto. Questa, però, è stata forzatamente un’occasione persa: come ha fatto Phoenix per Okogie, al giocatore era stato offerto un “baloon contract”, un contratto appositamente gonfiato che prevedeva uno stipendio maggiore rispetto al suo reale valore. In questo modo, nonostante tutte le limitazioni negli scambi, in fase di scambio quel contratto avrebbe permesso di arrivare o a un giocatore con uno stipendio nel range degli $8 milioni (dunque, un bel role player) o a più di uno, con stipendi più piccoli. Invece, KJ Martin è finito a Charlotte per cash assieme a due second-round pick (2027 da Milwaukee e 2031 da Dallas) dimostrando il sentimento del front office: in questa stagione, ormai, l’ambizione ha lasciato spazio agli interessi.
Purtroppo la colpa degli infortuni non è di nessuno, ma adesso che i margini di miglioramento si sono molto assottigliati e anche l’unico contratto “di valore” è stato scaricato, è inevitabile dare una valutazione negativa. Anche se arrivano da Washington quattro second-round pick per Reggie Jackson e una first-round pick 2026 (bassa).
VOTO: 5+
- TORONTO RAPTORS
- in entrata: Brandon Ingram dai Pelicans; PJ Tucker, second-round pick, cash dagli Heat; cash dai Pacers
- in uscita: Bruce Brown, Kelly Olynyk, first-round pick 2031 (Pacers) protetta top-4, second-round pick 2031; Davion Mitchell; James Wiseman, tagliato
- salary cap: 279.000 dollari sotto la luxury tax line
“Never Let’em Know Your Next Move”, deve aver pensato il Presidente dei Toronto Raptors, Masai Ujiri, quando ha deciso di muoversi per arrivare a Brandon Ingram. I canadesi al momento sono tredicesimi nella Eastern Conference, piuttosto lontani dalla zona Play-In, e si presentavano a questa trade deadline più come potenziali “seller”, venditori. Bruce Brown, Chris Boucher, Kelly Olynyk, Davion Mitchell: tutti contratti da cedere, e in gran parte ceduti. Solo non come ci si aspettava.
Ingram era una delle “stelle” di questa sessione di mercato, e ci si aspettava potesse finire ovunque fuorché a Toronto. Non che a livello finanziario non avesse senso, anzi. Il giocatore è in scadenza, ma i canadesi hanno conservato i Bird Rights nello scambio, pertanto potranno avanzare una proposta da $144 milioni in tre anni entro il 30 giugno, stando all’esperto Bobby Marks. Non graverà troppo sul salary cap della squadra, che avrà circa $48 milioni di spazio dalla luxury tax line in estate, ma necessiterà eventualmente di numerosi aggiustamenti in campo.
A testimonianza che si sia trattato di un evento totalmente imprevedibile, nella squadra con la penultima frequenza di tiro da tre punti arriva un giocatore che nelle ultime quattro stagioni non ha mai nemmeno toccato il ventesimo percentile per volume di triple tentate. Ingram ha uno stile di gioco lento, richiede palla in post o comunque ricezioni complesse per l’isolamento, mentre i Raptors sono decimi per pace nella Lega. Tutte le ali titolari della squadra, come RJ Barrett e Scottie Barnes, hanno stili di gioco simili e condividono anche gli stessi limiti in termini di tocco, con la differenza che l’ex Pelicans non pareggia la loro intensità nella metà campo difensiva, né la ferocia in transizione. Tutto davvero molto strano da immaginare su entrambe le metà campo, ma che fa pensare all’intenzione di avere maggiori opzioni in situazioni di gioco rotto - essendo i canadesi il 22° attacco a metà campo della Lega nonostante una frequenza da top-10.
Ad alzare la valutazione è lo scambio di Davion Mitchell, anche questo per quanto sembri paradossale: si tratta di un difensore sulla palla mostruoso e di un playmaker intelligente, fit perfetto per Toronto, ma tra il suo acquisto e la sua cessione sono arrivate in totale tre second-round pick. E in estate sarebbe stato restricted free agent, non necessariamente un investimento garantito.
Ma le perplessità sul fit di Brandon Ingram restano, così come anche sull’idea di pagare lautamente un giocatore che in questa stagione ha giocato solo 18 partite e che non fa della disponibilità il proprio punto di forza.
VOTO: 5.5
- WASHINGTON WIZARDS
- in entrata: Khris Middleton, AJ Johnson, first-round pick swap 2028 dai Bucks; first-round pick 2026 dai 76ers; Marcus Smart, Alex Len, Colby Jones, first-round pick 2025
- in uscita: Kyle Kuzma, Jonas Valanciunas, Jared Butler, Patrick Baldwin; quattro second-round pick, Reggie Jackson (tagliato); Marvin Bagley III, Johnny Davis
- salary cap: hard cap al primo apron, $2.9 milioni sotto la luxury tax line
Stessa strategia degli Hornets: imitare Sam Presti. Khris Middleton resterà per fare da mentore - e perché applicherà la player option da $34 milioni prevista per la prossima stagione - e molto probabilmente Marcus Smart farà lo stesso, guadagnando $21.6 milioni nella prossima stagione. A loro il buyout non conviene, mentre potrebbe essere la strada di Alex Len. Un”+” per aver facilitato molti scambi e per il quantitativo di first-round pick ottenute.
VOTO: 6+
WESTERN CONFERENCE
- DALLAS MAVERICKS
- in entrata: Max Christie, Anthony Davis, first-round pick 2029 dai Lakers; Caleb Martin dai 76ers
- in uscita: Luka Dončić, Maxi Kleber, Markieff Morris; Quentin Grimes, second-round pick 2025
- salary cap: hard cap al primo apron, sotto di 170.000 dollari
Il vero motore di “drama” di questa trade deadline. Di più surreale del pacchetto del quale l’Executive Nico Harrison si è accontentato per cedere Luka Dončić c’è solo la modalità di svolgimento delle trattative. Entrato in contatto qualche tempo fa con Rob Pelinka, suo amico dai tempi di Nike, ha avviato discussioni prese inizialmente tutt’altro che in modo serio dal collega, il quale poco dopo ha invece realizzato le vere intenzioni. E così, è parsa una cosa saggia tenere il tutto segreto per fare in modo che l’agente del giocatore non potesse mettere in giro la voce e fare arrivare offerte persino più convenienti di quella dei Lakers, almeno se si segue quanto ricostruito da ESPN e The Athletic in questi giorni. Alla base, ci sarebbero anche molti problemi legati al peso di Dončić, al quale era stato fornito a inizio stagione anche tempo di recupero extra da un infortunio al polso per perdere chili. Ovviamente, non è andata secondo i piani.
Ma al di là dei mille retroscena che verranno svelati nel dettaglio forse in futuro, il problema principale di Dallas adesso è che questa squadra è costretta a performare nell’immediato con questi esatti mezzi. L’hard cap al primo apron non consente aggiunte di livello da mercato dei buyout per riempire il quindicesimo slot a roster, perciò si dovrà contare su un nucleo guidato da Kyrie Irving e Anthony Davis, rispettivamente 33 e 32 anni. Se si considera anche Klay Thompson, oltre il 70% del salary cap di squadra è occupato da over-32, tutti sotto contratto per almeno un altro anno - Irving sarà eleggibile per un’estensione a fine stagione, ma occhio alla player option prevista da contratto; dopotutto, era molto legato al suo “hermano”.
Per valorizzare la cessione del volto presente e futuro della franchigia senza particolari asset di ritorno per una ricostruzione c’è un solo modo: vincere subito. Questo nucleo ha le carte in regola, forse, per farlo, a partire dal motto ripetuto a pappagallo da Nico Harrison, “la difesa vince i titoli”. Non un assunto sbagliato, ma serve comunque compensare nell’altra metà campo. Anthony Davis è un mostro difensivo, capace quando è sano di difendere sostanzialmente su cinque ruoli, adattandosi a seconda di quello che gli venga richiesto, che sia in aiuto di fianco a un altro lungo o come marcatore primario sul Nikola Jokic del caso. La percentuale di palle rubate e di stoppate effettuate da AD supera l’ottantesimo percentile, il tutto con un aspetto fin troppo sottovalutato del suo gioco: la pulizia tecnica che gli consente di non commettere quasi mai fallo nonostante i moltissimi tiri contestati, con cifre stabilmente oltre il novantesimo percentile in questo aspetto del gioco. Ma, nonostante questo bel vedere nella propria metà campo, di là ha dei limiti.
I tempi della bolla sono lontani e il suo jumper non si è mai ripreso, con percentuali attorno al 26% da tre punti nelle ultime cinque stagioni. Tutto ciò rende necessario costruire per lui ricezioni profonde nel pitturato, innescandolo in modo che debba solamente chiudere la giocata e non crearsi il tiro. A Dallas, però, adesso manca un facilitatore di questo tipo, nonostante la presenza di uno shot creator di altissimo livello come Kyrie Irving, che sta girando a 24.5 punti di media con il 41% su oltre sette triple tentate a partita, con la quinta miglior true shooting% in carriera. Quest’ultimo è però molto più impattante quando non ha tutte le attenzioni della difesa su di sé, bensì può attaccare i closeout avversari in emergenza o gestire i vantaggi già creati da un portatore primario. Non che Irving non sappia farlo, sia chiaro, ma semplicemente fatica a mantenere efficacia da primo violino, tanto che il meglio di sè ai playoff lo ha fatto vedere a fianco di attaccanti polarizzanti come LeBron James e Luka Doncic - adesso, ironia della sorte, pure compagni a Los Angeles (che sia un presagio?).
Ai Mavericks quindi adesso mancano di un bel po’ di creazione primaria non solo da parte dei leader per sé, ma per il resto della squadra, aspetto che potrebbe rendere l’attacco molto stagnante - soprattutto considerando che le spaziature non si prospettano proprio ideali. La partenza di un tiratore come Quentin Grimes (era da rinnovare a fine stagione) per uno specialista versatile, ma più battezzabile come Caleb Martin, non depone a favore della causa.
I Mavericks hanno sacrificato il proprio futuro per pochi asset e una finestra competitiva molto breve, nella quale si trovano anche impantanati a livello salariale. Anche qualora dovessero vincere il titolo, la valutazione a livello teorico non può che risultare negativa.
VOTO: 4.5
- DENVER NUGGETS
- in entrata: /
- in uscita: /
- salary cap: hard cap al secondo apron, $5.2 milioni sotto
Non si può nemmeno aspettare il buyout per un ritorno di Bruce Brown, dato che Denver è al di sopra del primo apron e non può ottenere buyout reduci con uno stipendio da almeno $12.8 milioni. Niente “Brucey B”, niente voto.
VOTO: NC
- GOLDEN STATE WARRIORS
- in entrata: Jimmy Butler; una second-round pick 2025
- in uscita: Dennis Schröder, Andrew Wiggins, Kyle Anderson, Lindy Waters III, first-round pick 2025 protetta top-10; De’Anthony Melton, tre second-round pick
- salary cap: hard cap al primo apron, circa $1 milione sotto
Il crossover con Jimmy Butler rappresenta la svolta più intrigante dell’intera trade deadline dopo lo scambio di Luka Dončić. I Golden State Warriors si sono presentati in questa ultima settimana di trade deadline pienamente intenzionati a prendere una stella, qualunque, da LeBron James a Zion Williamson, passando da Giannis Antetokounmpo, ma soprattutto una vecchia fiamma, Kevin Durant. Non che i Phoenix Suns non ci abbiano pensato, a quanto pare, dato che l’inerzia delle trattative, secondo i rumors di questi giorni, a un certo punto si è spostata pesantemente verso un possibile allontanamento di KD dall’Arizona, ma semplicemente il giocatore ha detto “no” ai Dubs.
Questi ultimi, pur consapevoli di poter continuare a tentare i Suns, hanno saggiamente preferito non rischiare di portarsi in casa una superstar scontenta - e soprattutto titolare di uno stipendio da $51 milioni, pari a oltre il 35% del salary cap di squadra - e di virare su altro. Ed è così che la disperazione di Golden State di accogliere un nome altisonante si è incrociata con quella di Jimmy Butler di andarsene da Miami, condividendo l’uno con l’altro il dolore del rifiuto da parte di Phoenix e sancendo un legame a lungo termine. Proprio il rinnovo immediato da parte del trentacinquenne (ormai) ex Heat è un capolavoro di “trolling”, perché arriva dopo mesi a dichiarare di volere solo e soltanto i Suns e di non accettare nessun’altra come destinazione a lungo termine, ovviamente al puro scopo di spaurire pretendenti che non gli andavano a genio. Butler probabilmente non ci ha pensato un secondo prima di impugnare la penna e firmare il biennale da circa $112 milioni che andrà a sommarsi allo stipendio nell’anno corrente, per un totale di oltre $260 milioni entro l’estate del 2027.
Questo è il massimo che potesse chiedere, un contratto con impatto salariale pari al 35% del salary cap di squadra e della durata di due anni - imposta dalla over-38 rule, una norma che impedisce di offrire contratti troppo lunghi a giocatori di una certa età per ragioni di circonvenzione delle regole di mercato NBA - che però adesso andrà a pesare sulle spalle degli Warriors. Golden State è infatti limitata al primo apron, una soglia salariale che non può superare ma della quale si trova al di sotto soltanto per $1.4 milioni, ma allo stesso tempo ha solo undici giocatori sotto contratto regolare sul minimo di quattordici richiesto dalla NBA. Questo significa che il margine di manovra sul mercato dei buyout è assolutamente inesistente e che, dopo aver convertito nell’immediato il contratto two-way di Quinten Post, gli ultimi due spot dovranno essere riempiti solo con contratti stagionali al minimo. Butler potrebbe rifiutare anche il trade bonus che si porta dietro e che aumenta il suo impatto salariale di 400mila dollari, ma il modus operandi resterebbe lo stesso. E la situazione si complica ulteriormente pensando al futuro.
Jonathan Kuminga non è stato scambiato, pertanto la questione della sua estensione a fine anno diventerà di vitale importanza in casa Warriors. Il giovane, in uscita dal Rookie Contract, sarà restricted free agent in estate: Golden State, cioè, potrà pareggiare qualunque offerta per lui. Nella prossima stagione, però, si prevede che il monte ingaggi dei Dubs arrivi a pesare oltre $168 milioni con soli otto giocatori a roster, ad appena $33 milioni di distanza dal secondo apron con sei/sette slot da riempire. In parole povere, pareggiare un’estensione voluminosa di Kuminga significherebbe cadere in pieno non solo nella zona più penalizzante in termini di flessibilità sul mercato, ma pagare anche uno sproposito di tasse. E una sign&trade, a meno che non sia per una stella assoluta o per scaricare il giovane, non risolverebbe la situazione. Il tutto, per un nucleo che al momento sta faticando ad arrivare al Play-In. Magari, nell’ottica della dirigenza, la presa di Jimmy Butler può essere sufficiente a creare una contender nell’immediato. Ma lo è davvero?
Sebbene Draymond Green abbia piena fiducia in Butler in quanto “vincente”, si parla comunque di un trentacinquenne che in questa stagione ha giocato poco o nulla - e soprattutto male. Questo non significa certo che sia quel tipo di giocatore, avere un’immagine dell’ex Heat legata agli ultimi mesi è tanto insensato quanto immaginarlo ancora poter completare una run Playoffs come quella del 2023, ma certamente non contribuisce all’ottimismo. Ma i problemi potrebbero anche essere di sistema.
La motion perfezionata da coach Steve Kerr - apparso un po’ sbigottito dopo lo scambio, soprattutto alla notizia della partenza di Andrew Wiggins - fa ampio affidamento su un alto volume di tiri da tre punti, il 43.1% del totale in questa stagione, da terzo posto nella Lega, con una percentuale di conversione sopra la media del 36.9%. Butler, al contrario, è un tiratore riluttante, che prende a malapena il 10% delle proprie conclusioni da dietro l’arco, vivendo nella zona del pitturato - circa l’83% delle sue conclusioni. Le sue percentuali di conversione negli ultimi anni si sono alzate stabilmente sopra il 35%, non malissimo, ma dipendono soprattutto da tiri non contestati che la difesa concede, compromettendo comunque le spaziature. Il problema adesso, avendo mantenuto a roster tanti altri non tiratori come Gary Payton, Kevon Looney o lo stesso Kuminga, è che si rischi davvero di non avere il personale per replicare il sistema-Kerr tradizionale, dovendo trovare soluzioni alternative.
Per converso, invece, a Golden State potrebbe fare assolutamente comodo un’ala in grado di sfruttare i mismatch offensivi, che sappia “bullizzare” ali o guardie avversarie in quintetti con spaziature pessime, ma con tanta stazza e taglia. Da Miami, per esempio, sono passati molti non tiratori nelle ultime stagioni, ma questo non ha mai impedito a coach Spoelstra di adoperare soluzioni creative per farlo ricevere sotto canestro, nonostante la presenza di elementi battezzabili offensivamente come Cody Zeller o Caleb Martin (tiratore dalle percentuali decenti, ma raramente contestato).
Se anche Kerr saprà replicare azioni simili, cedendo a far giocare a Butler qualche pick&roll in più - soprattutto con tre tiratori spaziati sul lato debole, come accadeva a Miami regolarmente con Bam Adebayo - allora Golden State potrebbe trarre alcuni benefici dallo short-roll di Draymond Green, sgravando allo stesso tempo Stephen Curry di numerose responsabilità palla in mano e in termini di creazione dei tiri. Il suo playmaking è ancora elitario, mentre l’abilità di mettere pressione e soprattutto chiudere al ferro deve essere massimizzata da una squadra che ha chiuso 18 partite tirando con meno del 55% sui layup, peggior dato in NBA, e che è penultima nella Lega per frequenza di tiri liberi tentati - aspetto nel quale Butler viaggia ancora al massimo percentile, subendo fallo nel 22.3% delle sue conclusioni.
Difensivamente sarà difficile rimpiazzare l’impatto di Dennis Schroder - per quel poco che c’è stato - ma soprattutto di Andrew Wiggins, elitario nel ruolo, ma tutto a priori dipende dall’approccio che avrà Butler. A quest’età non gli si può chiedere di marcare il miglior attaccante avversario su ogni possesso, non è il mastino che era quando è entrato nella Lega, ma è un playmaker difensivo eccellente e può fornire il proprio apporto sporadicamente, qualora dovesse decidere di connettersi per più possessi di fila. Averlo visto poco in campo nelle ultime due stagioni rende complicato fare previsioni sulla sua autonomia in questa metà campo, ma non c’è dubbio che abbia iniziato un po’ a passeggiare negli ultimi due anni a Miami. Se poi fosse per una questione di motivazione o fisica è difficile a dire, ma per gli Warriors una di queste due possibilità farà tutta la differenza del mondo.
Le garanzie offerte da un trentacinquenne con pochissime partite alle spalle negli ultimi due anni non sono abbastanza da giustificare quel contratto. Lo sforzo di offrire una stella che sulla carta possa risultare complementare a Stephen Curry e rappresentare una minaccia sulla gara secca al play-In e ai playoff è apprezzabile, ma rischia di mettere in croce gli Warriors nel medio-lungo periodo a livello salariale. A meno che non arrivi un titolo o dei playoff abbastanza convincenti a giustificare tutto questo. Fino ad allora, rimandati a settembre.
VOTO: 5.5
- HOUSTON ROCKETS
- in entrata: Jaden Springer, second-round pick 2027, second-round pick 2030 dai Celtics; Cody Zeller dagli Hawks
- in uscita: second-round pick 2031; second-round pick 2028
- salary cap: hard cap primo apron, $3 milioni sotto la luxury tax line
Una comparsa che se ne esce con un altro difensore esplosivo come Jaden Springer merita assolutamente un incoraggiamento.
VOTO: 6+
- LOS ANGELES CLIPPERS
- in entrata: Bogdan Bogdanovic dagli Hawks; MarJon Beauchamp dai Bucks; Patrick Mills, Drew Eubanks dai Jazz
- in uscita: PJ Tucker, Mo Bamba, second-round pick 2030, cash considerations; Terance Mann, Nah’Shon Hyland, tre second-round pick; Kevin Porter Jr.
- salary cap: hard cap al primo apron; $1.9 milioni sotto la luxury tax line
L’equivalente di quello che hanno fatto i Cleveland Cavaliers, ma a ovest e non in una (plateale) contender. La mossa che ha aperto tutto è stata la cessione di PJ Tucker e Mo Bamba ai Jazz, da sola utile a portare la squadra al di sotto della soglia della luxury tax. Da lì, operando con maggiore flessibilità, i losangelini hanno operato per aggiungere anche un giocatore di livello come Bogdan Bogdanovic, titolare di uno stipendio da $17.3 milioni in questa stagione - ma più “amichevole” nelle prossime, con una struttura a scendere e una Team Option nel 2026/27.
Il serbo, ormai abituato da tempo a condividere il campo con un creator che richiede tanto palla in mano come Trae Young, arriverà alla corte di James Harden e di un Kawhi Leonard uscito dalla Stanza dello Spirito e del Tempo, e gli verrà chiesto di fare una sola cosa: tirare. Purtroppo, la regressione di quest’anno al 30% da tre punti non è incoraggiante, ma lo storico dice che non è mai sceso sotto il 36% in una stagione in carriera, toccando anche il 43.8% nel 2020/21. I Clippers, 22° per frequenza di tiro da fuori, hanno estremamente bisogno di specialisti in catch&shoot, modalità con la quale arriva il 55% delle conclusioni che si prende Bogdanovic. Se si vuole andare oltre la slump attuale, durante la quale per infortunio ha giocato solo 24 partite, lo scorso anno ha convertito con il 37.5% questo genere di conclusioni. Uno scorer di questo tipo in uscita dalla panchina potrebbe rivelarsi ideale, soprattutto per avere sempre in campo un tiratore mobile, anche nei minuti in cui Norman Powell si riposa. I Clippers, dopo essersi presi il posto di 2° miglior difesa NBA, con questa mossa sperano di risalire anche da uno stagnante 24° posto per offensive rating.
VOTO: 7.5
- LOS ANGELES LAKERS
- in entrata: Luka Dončić, Maxi Kleber, Markieff Morris dai Mavericks; Mark Williams dagli Hornets; Dorian Finney-Smith, Shake Milton dai Nets
- in uscita: Max Christie, Anthony Davis, first-round pick 2029; Jalen Hood-Schifino; Cam Reddish, Dalton Knecht, first-round pick swap 2030, first-round pick 2031; D’Angelo Russell, Max Lewis, tre second-round pick
- salary cap: hard cap al secondo apron, quasi $4 milioni sotto
Lo scambio di Luka Dončić ha plasmato il mercato in avvicinamento a questa trade deadline. Quando un All-NBA ambulante, nonché un perenne candidato MVP e soprattutto volto giovane di una franchigia se ne va per un altro All-NBA, ma abbondantemente più vecchio, e una sola first-round pick, i pacchetti per le stelle tutto intorno non possono che restringersi. La bravura (fortuna?) dei Lakers è stata quella di acquistarlo a quel prezzo, mentre la fortuna (bravura?) consiste nell’averlo “a sconto” nell’immediato.
Con questo scambio, lo sloveno ha infatti perso l’eleggibilità al supermax (“designated veteran extension”), possibile solo con la squadra dalla quale si viene scelti al Draft, ed è ora limitato a un’estensione fino a un massimo del 30% del salary cap, percentuale più alta nella fascia di chi ha 7-9 anni di servizio in NBA. A Dallas, avrebbe potuto chiedere fino a un “supermax” – un incentivo dettato da svariate condizioni legate alle prestazioni – pari al 35%, con una crescita annuale dell’8%, cifre molto superiori a quelle che avrà adesso. La scelta più saggia per Dončić sarà un’estensione triennale con Player Option nella stagione 2028/29, quando avrà raggiunto i 10 anni di attività e potrà negoziare un massimo salariale a partire dal 35% del salary cap – circa $72 milioni secondo le proiezioni. Questo significa che i Los Angeles Lakers, in questa e nelle successive tre stagioni, ne potranno raccogliere i benefici a livello finanziario.
Benefici che nell’immediato non si vedono, dal momento che la squadra è molto vicina al secondo apron e non potrà firmare dal mercato dei buyout giocatori reduci da un contratto con stipendio superiore ai $12.8 milioni come Bruce Brown, Malcolm Brogdon, Ben Simmons o Bojan Bogdanovic. Con uno slot a roster ancora da riempire per arrivare al massimo di quindici giocatori, le opzioni non sono moltissime. Per fortuna, però, la squadra si è mossa in fretta.
Non bisogna dimenticare quello che è successo prima degli ultimi, pazzi giorni: la presa di Dorian Finney-Smith dai Nets, che senza Davis assume ancora maggior valore dal punto di vista difensivo. Ma soprattutto nelle ultime 24 ore prima della trade deadline è stato effettuato uno scambio per Mark Williams, lungo di ventitré anni strappato agli Hornets in cambio di Cam Reddish, del rookie Dalton Knecht - che, si pensi, è persino qualche mese più “vecchio” - e di quel Draft capital non impiegato per Dončić, cioè una first-round pick 2031 non protetta e una possibilità di swap nel 2030. Un prezzo salato, se lo si mette a confronto con l’ecosistema creatosi dopo la trade dello sloveno, che porta con sé un bel rischio.
Williams infatti non è esente da problemi, soprattutto fisici. Nelle sue prime tre stagioni NBA ha giocato solo 84 partite, toccando quota 43 nell’anno da rookie per scendere a 19 in quello successivo, risalendo a 23 presenze nella stagione corrente su 48 disponibili. Gli infortuni più pesanti sono legati principalmente alla schiena e, nel caso più recente, al piede sinistro. Non proprio la cartella clinica di un giovane lungo sul quale puntare tutti gli asset rimasti e sulle spalle del quale stabilire una timeline corrispondente alla cosiddetta “era-Dončić” - o “post-LeBron James”. La scelta, però, è stata dettata dal bisogno.
Dopo la partenza di AD, il reparto lunghi dei Lakers è rimasto completamente sguarnito, il che sarebbe stato un enorme problema soprattutto nell’ottica di un rientro dell’ex Dallas. Dončić ha bisogno di ottimi bloccanti per poter sfruttare al meglio i suoi letali pick&roll, ma anche di lob threat di alto livello: si pensi a Daniel Gafford, da sempre un ottimo finisher nei pressi del ferro con efficienza cristallina sulle ricezioni profonde o volanti, ma che nelle 29 partite dopo l’arrivo a Dallas nel 2024 ha toccato la miglior true shooting% in carriera, a quota 76.9%. E non dimentichiamo che sarà presente anche un passatore come LeBron James. Williams, sotto questo aspetto, è un pilastro sotto canestro, raggiunge vette proibitive per chiunque. Letteralmente: la sua “standing reach” (il punto verticale massimo toccato con le braccia distese e i piedi per terra) è di circa 297 centimetri, mentre Victor Wembanyama si ferma a 292 centimetri. Un gigante.
Queste dimensioni portano ovviamente tanti vantaggi nel contestare tiri al ferro, lottare sotto i tabelloni e sporcare palloni in area, tanto che Williams in carriera ha una percentuale di stoppate effettuate oltre il settantesimo percentile e una stagione, quella da rookie, oltre l’ottantesimo percentile per palle rubate. Anche i numeri a rimbalzo sono elitari, fissi oltre l’ottantesimo percentile, e testimoniati anche dal semplice box score: nell’ultimo mese, dopo un periodo di rodaggio al rientro dall’infortunio al piede, ha girato a 19 punti e 12 rimbalzi di media tirando con quasi il 60% dal campo. Ma quel corpo, allo stesso modo, è difficile da sostenere.
Per quanto enorme, Mark Williams si è rivelato un rim protector mediocre, dando uno sguardo ai numeri avanzati che esulano dalle stoppate. I motivi sono svariati, come errori di posizionamento dovuti alla giovane età e agli scarsi stimoli derivanti dal contesto circostante, ma anche una scarsa mobilità che non ne fa, per il momento, un’ancora difensiva affidabile. Nulla su cui non si possa lavorare, dato che troverà un ambiente molto più competitivo di Charlotte, ma è senza dubbio motivo di preoccupazione, soprattutto considerando che i Lakers non hanno un difensore elitario da posizionare sul punto d’attacco e sono limitati anche nel reparto delle ali, il che rende complesso supportare una copertura più profonda (“drop”) - maggiormente adeguata a un lungo di questo tipo.
Al rientro di Dončić, sarà essenziale che lui e LeBron vadano contro i propri istinti, tentando di essere un po’ più attivi sia sul primo passo avversario, sia - al bisogno - in aiuto. Il James visto nelle ultime partite è incoraggiante, e per la prima volta da quando è ai Lakers (anzi, probabilmente in carriera) avrà di fianco a sé un creatore di vantaggio palla in mano di questo calibro e con questo playmaking. Se LBJ accetterà un ruolo un po’ più lontano dalla palla e con un carico ridotto, aggiungendo uno sforzo nella metà campo difensiva, i problemi dei Lakers senza Davis magari non si risolverebbero comunque, ma sarebbe un bel passo in avanti.
La presa di Williams, sebbene sia ad alto potenziale per il valore dimostrato del giocatore “da sano”, cela un po’ troppe incognite per quel prezzo in questo mercato. I dubbi difensivi, inoltre, restano. La valutazione non può però che risultare assolutamente positiva al netto dei pochissimi asset spesi per Dončić, per un semplice motivo: anche qualora le cose non dovessero funzionare nei prossimi due anni, per intenderci entro il ritiro di LeBron, con un giocatore di questo calibro una finestra competitiva sarà aperta per molti anni. Se ci si aggiunge il fatto che il mercato è quello di Los Angeles, sulla carta questa trade deadline ha salvato da sola il futuro dei Lakers.
VOTO: 8-
- MEMPHIS GRIZZLIES
- in entrata: Marvin Bagley III e Johnny Davis dai Wizards; tre second-round pick
- in uscita: Marcus Smart, Jake LaRavia, first-round pick 2025
- salary cap: hard cap al primo apron; $3.4 milioni sotto la luxury tax line
Un raro fallimento su tutta la linea per la dirigenza dei Grizzlies, quello con Marcus Smart. Dopo aver sacrificato Tyus Jones e due first-round pick per acquistarlo, trasformatesi nei promettenti Marcus Sasser (Pistons) e Bub Carrington (Wizards), Memphis ha dovuto attaccargli addosso un’altra scelta al primo giro per poter scaricare i suoi $20.2 milioni di stipendio - ai quali aggiungere anche un altro anno. In due stagioni, Smart ha giocato un totale di 39 partite in maglia Grizzlies, 20 nella prima e 19 nella seconda, passando anche al minimo impiego in carriera di 21.1 minuti di media.
Questo, indipendentemente dalla partenza di LaRavia, che non sarebbe rimasto comunque, e dal contratto in scadenza di Marvin Bagley III in arrivo, è un capitolo decisamente triste di questa trade deadline.
VOTO: 5
- MINNESOTA TIMBERWOLVES
- in entrata: /
- in uscita: /
- salary cap: $16.1 milioni sopra il secondo apron
Nemmeno una comparsata, non si sono proprio presentati. A quanto pare, però, sono stati gli ultimi a provare a bussare per Kevin Durant a un soffio dalla deadline, impegno quasi encomiabile.
VOTO: NC
- NEW ORLEANS PELICANS
- in entrata: Bruce Brown, Kelly Olynyk, first-round pick 2031 (Pacers) protetta top-4, second-round pick 2031 dai Raptors; cash dai Thunder
- in uscita: Brandon Ingram; Daniel Theis, second-round pick 2031
- salary cap: hard cap al primo apron; 180.000 dollari sotto la luxury tax line
Un piccolo riscatto di questa trade deadline. I Pelicans, dopo l’arrivo di Dejounte Murray, speravano di aver costruito un nucleo abbastanza profondo da poter sopperire alle tante assenze di Zion Williamson, magari sperando di poterlo preservare il più possibile nell’ottica di un’apparizione ai Playoff. Gli infortuni, però, li hanno tormentati. Il risultato è che Brandon Ingram ha giocato la sua ultima partita a New Orleans il 7 dicembre per un problema alla caviglia sinistra prima di essere ceduto in queste ore ai Toronto Raptors, mentre nel frattempo lo stesso Murray ha terminato la stagione anzitempo per un infortunio al tendine d’Achille, dopo aver giocato solo 31 partite delle 51 disponibili. «Una maledizione, qualcosa che è nell’acqua», come l’ha definita l’ex Dyson Daniels dopo il trasferimento ad Atlanta. La gestione di una situazione drammatica, però, è stata lodevole.
Prima ancora di cedere Ingram, New Orleans ha scaricato Daniel Theis ai Thunder, scendendo immediatamente al di sotto della luxury tax line e tutelandosi qualora non si fosse finalizzato nessuno scambio. I Pelicans continuano la loro striscia, confermandosi una delle uniche due franchigie della Lega a non aver mai pagato la tassa nella propria storia, assieme agli Charlotte Hornets.
Da questo punto cardine, con meno preoccupazioni, si è passati a una mossa caldeggiata da tempo, da ben prima di questa stagione. Il fit fra Brandon Ingram e Zion Williamson è sempre stato problematico: offensivamente tendevano a pestarsi i piedi, e quando uno entrava in ritmo finiva necessariamente, a causa del proprio stile di gioco, per fagocitare i possessi dell’altro; difensivamente, l’effort o l’attenzione a palla lontana non sono mai state qualità proprie di nessuno dei due. In particolare, anche a causa del poco tempo passato insieme, non si è mai capita la direzione intrapresa dai Pelicans, a tratti più indirizzata sullo sviluppo di Ingram come handler primario - come per esempio ai Playoffs 2022 contro i Suns, quando ha fatto intravedere letture palla in mano di altissimo livello - a tratti fin troppo asservita allo strapotere delle penetrazioni di Zion contro la difesa schierata nonostante le spaziature pessime. Anche questo, un effetto collaterale di averli entrambi in campo insieme e di doverli anche circondare con specialisti difensivi come Herb Jones, o (al tempo) Dyson Daniels, riluttanti come tiratori.
Adesso, con Bruce Brown in scadenza e candidato a un buyout, per ripartire con questo nucleo (infortuni permettendo) sembra esserci un po’ di respiro - spazio salariale, un po’ meno, dato che dalla prossima stagione partirà il quadriennale da $112 milioni di Trey Murphy III. La scelta di scindere una coppia di “primi violini” così disfunzionale, e nel frattempo di lavorare per scendere al di sotto della luxury tax line, vale la sufficienza piena ai Pelicans, con un incoraggiamento.
VOTO: 6+
- OKLAHOMA CITY THUNDER
- in entrata: second-round pick 2031 dai Pelicans; second-round pick 2030 (Nuggets) dagli Hornets
- in uscita: Daniel Theis, tagliato; cash, second-round pick 2029
- salary cap: hard cap al primo apron; $5.3 milioni sotto la luxury tax line
Sam Presti ha avuto la sua dose di Draft pick? Sam Presti ha avuto la sua dose di Draft pick. Premio all’intermezzo comico assolutamente meritato, una gag buona per tutte le stagioni.
Più seriamente, la conversione del contratto two-way di Ajay Mitchell sarà utile in ottica Playoffs.
VOTO: 6+
- PHOENIX SUNS
- in entrata: Nick Richards, second-round pick 2025 dagli Hornets; Vasilije Micic, Cody Martin dagli Hornets; tre first-round pick dai Jazz
- in uscita: Jusuf Nurkic, first-round pick 2026; Josh Okogie, tre second-round pick; first-round pick 2031
- salary cap: $25.9 milioni sopra il second apron
Si è sfiorata la tragedia in Arizona. L’ambiente, anche se tutto si è sgonfiato in avvicinamento alla trade deadline, è stato definito “tossico” in queste ore, e non è una sorpresa visto quanto emerso negli ultimi giorni. Kevin Durant è stato quasi scambiato, e solo il suo “no” ha spinto a desistere Golden State dal continuare a cercare uno scambio. Quando sei la squadra con il più alto payroll della Lega, con una tassazione storica, se arrivi al punto di provare a scambiare il tuo primo/secondo miglior giocatore per smuovere le acque significa che stai alla frutta. E così è per i Phoenix Suns.
Questa sessione di mercato ha insegnato a tutta la NBA che una “no-trade clause”, clausola contrattuale che permette a un giocatore di porre il veto a qualunque scambio, può ancora tenere in ostaggio intere franchigie, nuovo CBA o meno. Questo è il caso di Bradley Beal, il quale ha fatto sapere tramite il suo agente qualche settimana fa (e oltre 10 anni fa su Twitter) di non essere disposto a rinunciare al veto sugli scambi per “posti freddi” come Chicago, a un certo punto interessata a inserirsi nelle trattative per il giocatore. All’ex Wizards, Miami sarebbe andata anche bene, ma non viceversa, e così - con le opzioni ridotte a Denver Nuggets e le due losangeline - è stato impossibile trovare un terzo partner per scambiarlo.
Phoenix le ha provate di tutte, anche a metterlo in panchina, ma il giocatore ha deciso che può farsi andare bene qualunque cosa dall’alto del proprio stipendio da circa $50 milioni, che salirà ulteriormente fino al 2026/27. Vista l’impossibilità di migliorare, sospesi sul sottile filo delle ultime posizioni del Play-In, i Suns hanno esplorato qualunque possibilità pur di alleggerirsi, anche ascoltare offerte per KD, e questo non verrà certo dimenticato nei prossimi mesi.
Se ci si limita, però, a quello che è successo, in Arizona ci si è mossi piuttosto bene. Una mossa intelligente è stata quella di offrire a Josh Okogie in estate un cosiddetto “baloon contract”, un contratto gonfiato a cifre superiori rispetto al reale valore del giocatore. In questo modo, nonostante le limitazioni del secondo apron che non permettono di aggregare salari, Phoenix avrebbe potuto puntare su giocatori nel range degli $8 milioni di stipendio anziché, magari, dei 3 o 4 milioni “giusti” per Okogie. Alla fine la trade, indorando la pillola con tre second-round pick, ha portato un ottimo lungo dagli Hornets, Nick Richards, divenuto titolare in breve tempo e addirittura con uno stipendio minore rispetto a quello in uscita: in questo modo, con una sola mossa, Phoenix ha ottenuto il proprio centro titolare e risparmiato decine di milioni in luxury tax.
Un po’ più tormentata, invece, l’uscita di Jusuf Nurkic, che per sua stessa ammissione negli ultimi mesi non ha mai parlato con coach Mike Budenholzer. Nel frattempo è anche rimasto seduto in 18 delle ultime 20 gare giocate dalla squadra prima di essere scaricato agli Hornets, in uno scambio che ha portato due role player come Micic e Cody Martin, ma soprattutto che ha dato un ulteriore taglio all’ammontare della tassa.
Un premio alla creatività, infine, lo merita la scelta di scambiare una sola first-round pick (la 2031) per altre tre di minor valore, in modo da poterle includere in più scambi differenti - fra cui quello di Nurkic.
VOTO: 5+ (per le ritorsioni della non-trade di Durant)
- PORTLAND TRAIL BLAZERS
- in entrata: /
- in uscita: /
- salary cap: /
Sciopero. Le 10 vittorie nelle ultime 11 partite devono averli convinti che stiano benissimo così.
VOTO: NC
- SACRAMENTO KINGS
- in entrata: Zach LaVine (Bulls), tre first-round pick, tre second-round pick; Jonas Valanciunas dagli Wizards; Jake LaRavia dai Grizzlies
- in uscita: De’Aaron Fox, Kevin Huerter, Jordan McLaughlin; Sidy Cissoko, due second-round pick; second-round pick 2028, Colby Jones, Alex Len
- salary cap: hard cap al primo apron, $7 milioni sotto; $3.4 milioni sotto la luxury tax line
L’esordio di Zach LaVine è come se non fosse mai esistito. I Kings hanno subito una discreta piallata da parte degli Orlando Magic, e il neo arrivato ha chiuso con la più classica delle prestazioni per un attaccante che vive di jump-shot inserito in un nuovo contesto: 4 su 13 al tiro e 0 su 4 da tre punti, con soli 3 assist. Non proprio in linea con quella che a Chicago era una stagione da 24 punti di media con un clamoroso 44.6% su 7.3 triple tentate a partita, valido per il 63.7 di true shooting%. Da qui a fine stagione, si attende quantomeno un equilibrio fra i due mondi.
Al di là di questo, la decisione di puntare su LaVine come sostituto di De’Aaron Fox - approdato ai San Antonio Spurs in una trade a tre nella quale c’erano anche i Bulls - può risultare discutibile per svariate ragioni. Prima di tutto per il contratto che si porta dietro, un quinquennale da $215 milioni firmato nel 2022 e con player option nel 2026/27, che gli frutta uno stipendio annuale pari al 30% del salary cap di squadra. In secondo luogo, per ragioni di fit.
La réunion con DeMar DeRozan, del quale LaVine è stato compagno a Chicago, torna a dare vita agli stessi problemi che hanno tormentato i Bulls in questi anni. Su 1181 possessi condivisi sul parquet, i quintetti con la coppia hanno fatto registrare un -12.2 (10° percentile) di net rating, bassifondi della Lega sulle due metà campo. Ampliando il sample alle tre stagioni insieme, si nota ancora meglio come il rendimento di squadra migliori quando solo uno dei due è in campo.
Si tratta di due giocatori poco compatibili nella metà campo offensiva, dove DeRozan tende a polarizzare i possessi e a rallentare il flusso, mentre LaVine dà il meglio di sé quando viene coinvolto in situazioni di ricezione dinamica, dalle quali può mettere pressione al ferro o arrestarsi su una monetina per il pull-up. E dal punto di vista difensivo è ancora peggio, dal momento che il primo inizia ad avere anche poche gambe - e il suo impatto è quasi sempre stato negativo - e il secondo si assenta un po’ troppo. Questo duo, in una squadra priva di rim protection, che già fatica a mascherare Domantas Sabonis e al momento ventesima per defensive rating (penultima nelle recenti due settimane), rischia addirittura di peggiorare il rendimento difensivo del non troppo entusiasmante quintetto base di Sacramento.
Guardando al mercato, ad ogni modo, del rimborso per Fox si può essere freddamente soddisfatti, essendo arrivate tre second-round pick e tre first-round pick. Di queste, però, una si trasformerà probabilmente in due scelte al secondo giro, essendoci protezioni favorevoli agli Hornets, mentre la 2027 dei San Antonio Spurs rischia a sua volta di rivelarsi piuttosto bassa. Maggiori aspettative sulla 2031 dei Timberwolves, ma è una speranza che si protrae troppo a lungo termine per una squadra che già da ora vorrebbe lottare per i Playoffs. Un ritorno legittimo, insomma, ma modesto, che guadagna punti se si aggiunge che la cessione di Kevin Huerter ha creato una trade exception da $16.8 milioni.
Molto meglio l’ottimizzazione delle risorse esistenti, invece, con l’acquisizione di Jonas Valanciunas, utilizzando la non-Taxpayer Mid-Level Exception da $12.8 milioni, e di Jake LaRavia a prezzo stracciato. I Kings potranno estendere quest’ultimo a cifre ridotte, $5.2 milioni, dal momento che Memphis prima di cederlo non ha applicato la Team Option disponibile. Si tratta di un ventitreenne che sta tirando con il 44% da tre punti in stagione, abile nelle letture con e senza palla (un buon tagliante) e dotato di un corpo che lo rende molto versatile difensivamente, sebbene non si tratti di uno specialista in questa metà campo. La sua e quella di Valanciunas sono due aggiunte, ancora una volta, orientate verso l’attacco, ma ormai i Kings sembrano abituati a convivere con la mancanza di rim protection e di difesa perimetrale elitaria.
Considerando il roster quasi completato restando al di sotto della luxury tax line, la trade exception creata con Huerter e il fatto che, se non ci fosse il contratto di LaVine, si sarebbe comunque dovuto estendere Fox, la valutazione di questa sessione di mercato dei Kings si può ritenere leggermente positiva.
VOTO: 6+
- SAN ANTONIO SPURS
- in entrata: De’Aaron Fox, Jordan McLaughlin; Patrick Baldwin, cash
- in uscita: Tre Jones, Zach Collins, Sidy Cissoko, quattro first-round pick, due second-round pick
- salary cap: $9.4 milioni sotto la luxury tax
Se per l’esordio di LaVine con i Kings si potrebbe applicare quasi la censura, vale tutto il contrario per quello di De’Aaron Fox con gli Spurs. La point guard si è presentata mettendo a referto una prestazione da 24 punti, 13 assist e 3 palle rubate, tirando con un buon 11 su 22 dal campo. La sua prima volta è storica, dal momento che mai nessuno con la canotta di San Antonio aveva debuttato totalizzando almeno 20 punti e 10 assist. Prima di lui, solo James Harden e Russell Westbrook alla loro prima volta con una nuova squadra hanno fatto registrare 20 punti, assistendone allo stesso tempo anche 30 o più.
Un fit, quello di Fox con gli Spurs, che già sulla carta si preannunciava esplosivo per svariate ragioni. A Sacramento, la presenza di un lungo polarizzante come Domantas Sabonis ha aiutato la point guard a sviluppare una dimensione importante da tagliante senza palla, attaccando lo spazio ad ogni occasione buona, che fosse sul post basso del lituano o nei suoi possessi da “hub” in punta/dal gomito. Sono 15.4 i passaggi di media che Sabonis ha effettuato per Fox prima dello scambio, avvenuti soprattutto su consegnato o sui set repentini nei primi secondi dell’azione, come azioni chiamate “pistol” oppure anche semplici “dai-e-vai”. Tutte azioni replicabili anche con un lungo che apre il campo e allontana i rim protector dal ferro come Victor Wembanyama, una volta eliminata un po’ di ruggine fra i due:
La pressione impressa da Fox sul pitturato è stata quasi senza eguali nella Lega grazie al sistema dei Kings, perciò gli Spurs potrebbero decidere di replicare. Prima dello scambio, con 16. drive a partita (le incursioni al ferro dal palleggio), la point guard era 7° nella Lega, nel tier di Ja Morant, Trae Young e Zion Williamson. A livello qualitativo, da notare soprattutto il 51% nella zona del cosiddetto short mid-range, appena prima dell’ultimo metro, valido per l’ottantacinquesimo percentile fra i pari ruolo. All’esordio ha corso tanto in transizione e in situazioni di semi-transizione, usando dei blocchi “double drag” sulla palla o dei “flare” immediati per uscire dal lato debole, e questo potrebbe essere un indizio anche sull’aumento di pace previsto per gli Spurs. Difensivamente si incastra bene, trattandosi di un corpo longilineo perfetto per passare sui blocchi e di un atleta orizzontale fenomenale, dai piedi velocissimi, che offre alternative in termini di difesa sul punto d’attacco.
In assoluto, la sola grossa incognita riguarda la pericolosità e soprattutto la scarsa frequenza nel tiro da fuori da parte dell’ex Kings. Gli Spurs sono 8° in NBA per frequenza di triple tentate ma 22° per percentuali di conversione, e Fox non va troppo oltre il 30% né sui piazzati in catch&shoot, né dal palleggio. Per una squadra che ha un solo tiratore sopra il 40% di conversione su un volume accettabile (Harrison Barnes) questo potrebbe rivelarsi un problema, anche se Swipa compensa bene con lo shot making e con la propria dimensione da tagliante. La compresenza con Wembanyama, ma anche l’abilità nel portare avanti la manovra offensiva quando il lungo francese riposerà in panchina, potrebbero rappresentare una svolta per l’attacco di San Antonio - che adesso potrà anche avere sempre in campo un grande trattatore di palla tra Fox e Chris Paul.
Gli asset spesi per tutto questo non sono moltissimi, con la restituzione di una first-round pick protetta ai Bulls, una (di Charlotte) che molto probabilmente si trasformerà in due second-round pick, la propria 2027 e la 2031 di Minnesota ottenuta al Draft 2024 cedendo Rob Dillingham. Di queste, l’ultima è quella con un valore potenzialmente molto al di sopra della media. Quanto ai giocatori, sono rimaste tutte le pietre angolari del nucleo, nonché quelli con maggior valore pro futuro, e cioè Devin Vassell, Stephon Castle e Jeremy Sochan - ai quali aggiungere una pletora di first-round pick. Una menzione onorevole la merita la gestione del contratto di Zach Collins: finito fuori dalle rotazioni dopo aver firmato un biennale da $34.8 milioni nel 2023, gli Spurs hanno sfruttato la mole del suo impatto salariale per arrivare a un contratto più corposo, ma di maggior valore. Il genere di ottimizzazione delle finanze che vale un bel voto in pagella - considerando infine che Fox, come Dončić, avendo lasciato la squadra che lo ha scelto al Draft ha perso la possibilità di firmare una “supermax extension”, trovandosi limitato a un’estensione più breve e meno pesante di quella che avrebbe negoziato con i Kings.
VOTO: 8
- UTAH JAZZ
- in entrata: due second-round pick dai Lakers; Mo Bamba, una second-round pick dai Clippers; first-round pick 2031 dai Suns; KJ Martin, second-round pick 2028 dai Pistons
- in uscita: Dennis Schröder, Patrick Mills, Drew Eubanks; tre first-round pick; PJ Tucker; Josh Richardson e Jalen Hood-Schifino, tagliati
- salary cap: hard cap al primo apron; $17.3 milioni sotto la luxury tax line
I Jazz sono gli artefici dell’highlight assoluto della trade deadline, nella figura dell’executive Danny Ainge (ex Celtics, rivali storici dei Lakers), che pensava di dover facilitare una trade minore assorbendo Jalen Hood-Schifino, per poi scoprire trenta minuti prima dell’ufficialità, a cose sostanzialmente già fatte, che fossero coinvolti anche Anthony Davis e Luka Dončić. Un “+” alla sceneggiatura - e alla pick dei Suns.