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Trae Young il cattivo
03 mar 2025
Giudicarne lo status nella Lega è ancora difficile, ma l'NBA deve tenersi stretta giocatori come lui.
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10 min
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IMAGO / Icon Sportswire
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Quante volte avete sentito dire da un giocatore che l’unica opinione che gli interessa è quella dei colleghi perché sono gli unici in grado di giudicare? Ecco, sicuramente allora a Trae Young non avrà fatto piacere finire tra i primi tre nel sondaggio anonimo di The Athletic alla voce "Giocatore più sopravvalutato" per due anni di seguito: primissimo con il 14.8% dei voti nel 2023 (il doppio del secondo classificato, Julius Randle) e terzo nel 2024 con il 7.4%.

Sopravvalutazione e sottovalutazione sono concetti prettamente astratti, che si basano su un’interpretazione spesso arbitraria delle cifre di un giocatore e magari anche, semplicemente, dal grado di simpatia o antipatia che quello ispira. Nel caso degli sport americani, questi giudizi spesso si collegati alle prestazioni dei giocatori durante i playoff, dove le stagioni si decidono e le leggende nascono. Nel caso di Trae Young, la sua storia con i playoff era iniziata alla grande, con le storie tese con i Knicks – a cui arriveremo dopo – e le finali di Conference raggiunte a sorpresa; in una edizione particolare (le arene erano ancora a capienza ridotta per le norme anti-Covid). Ice Trae concluse quei playoff con medie di 28.8 punti e 9.5 assist, il sesto giocatore della storia a realizzare almeno 25 punti e 9 assist di media in un minimo di 9 gare di post-season: per contesto, l’ultimo a riuscirci era stato LeBron tre stagioni prima.

A quasi 4 anni di distanza, possiamo dire che quegli Hawks furono l’eccezione di una stagione, e questo ha sicuramente pesato sulla percezione di Young agli occhi dei colleghi (e non solo). Non ha aiutato l’edizione dei playoff 2022, quella della eventuale conferma, chiusa con 15.4 punti in 37 minuti di media, e le seguenti annate grigie di Atlanta, mai troppo forte per competere per l'anello, ma neanche così scarsa da puntare ai piani alti del Draft. Il fatto poi che gli Hawks siano stati premiati dalle urne della Lottery lo scorso maggio è conseguenza dell’imperscrutabilità dell’evento stesso; e comunque hanno avuto la sfortuna, per così dire, di scegliere per primi in un anno in cui non c’era nessun talento neanche lontanamente considerato generazionale.

Young è abituato a essere considerato impopolare. Grande fan di Chris Paul fin da bambino (un altro che ad amici in giro per la NBA, tra fan, tifosi e arbitri, non è messo benissimo), per il padre Ray è tutta colpa della "sindrome di Napoleone": l’altezza ridotta – per un cestista professionista, ovviamente – è sempre stata compensata da sfacciataggine, arroganza e un gioco che è la sintesi di queste due caratteristiche. I cori "overrated, overrated" lo accompagnano dal primo anno di college quando, anziché scegliere la gloriosa Kansas, o Texas Tech, Alma Mater del padre, decise di rimanere a casa, optando per Oklahoma. Dopo l’ottima annata da freshman, l’unica al college, i dubbi su stazza e atletismo, su entrambi i lati del campo, lo accompagnarono fino al Draft, dove però Dallas lo scelse con la quinta chiamata assoluta prima di spedirlo in Georgia in cambio di Luka Doncic (altro momento che ha contribuito a formare il giudizio su di lui, con un ingrato e immeritato paragone con lo sloveno).

Alcuni dubbi sul proprio gioco Young se li porta dietro dall’ingresso in NBA, e sono alcuni dei motivi per cui non viene ritenuto come un credibile primo violino in una squadra competitiva. Pensateci: difesa inesistente ed efficienza offensiva scarsa ne fanno un bersaglio fin troppo facile da colpire, soprattutto per i puristi del gioco. Non solo per loro, forse, visto che Ice Trae è stato per un paio di anni buoni ufficiosamente sul piede di partenza. Nessuno si è mai presentato dalla dirigenza degli Hawks con proposte credibili di trade, e il fatto che il mercato per lui fosse inesistente era cosa ormai di dominio pubblico fino a qualche mese fa.

Sembrerebbe più un giocatore da All-Star Game, se non fosse che non è un habitué nemmeno del weekend delle stelle: fanno 4 partecipazioni in 8 stagioni, con la quarta, quella di quest’anno, arrivata solo dopo l’infortunio di Giannis. Se n’era lamentato, Young: «All’All-Star Game non vanno i migliori 24 giocatori, ne manca uno. Ero un All-Star prima e lo sarò per il resto della mia vita a prescindere dalla mia assenza». Alla fine, il fatto di essere stato il più votato dai fan tra i giocatori esclusi gli ha permesso comunque di entrare tra i convocati dalla porta sul retro. Il motivo dell’esclusione, va da sé, è da ricercare nell’enorme bacino di talento a cui attingere nella Lega, che ogni anno genera esclusioni eccellenti anche in una competizione a cui i giocatori ormai non si interessano più di tanto (solo a parole).

Non ha aiutato nemmeno la sua fama di giocatore egoista e mangia-allenatori. Prima la cacciata di Lloyd Pierce, che pare avesse gran parte dello spogliatoio contro, Young in testa, poi i problemi con Nate McMillan, con cui il rapporto si era deteriorato a causa di uno scontro di vedute in allenamento, licenziato dopo neanche tre mesi dall’accaduto.

TRAE NON FA PRIGIONIERI
In questa stagione, Young sta segnando 24 punti e servendo 11.4 assist a partita. Gli assist rappresentano il massimo in carriera, mentre il dato dei punti è il peggiore dalla sua annata da rookie. Per Atlanta quasi niente è cambiato, visto che continuano a navigare a vista nella mediocrità della conference. Eppure Young sta cercando di riabilitarsi agli occhi della NBA, inteso come giocatori e fan, semplicemente essendo se stesso: un enorme fastidio per chi non lo sopporta, una specie in via di estinzione per chi lo apprezza come giocatore e intrattenitore.

Questo perché la NBA ha bisogno di Young, e giocatori simili a lui, più di quanto si pensi. In questo momento la Lega non ha alcun problema di talento o di qualità di gioco, ma di storie interessanti e, soprattutto rivalità. L’introduzione della Rivalry Week è un palliativo, perché le rivalità non si creano a tavolino, non da un giorno all’altro e, soprattutto, non sono nemmeno facili da conservare nel tempo. Ecco, quella tra i Knicks e Trae Young è una rivalità vera: dura da anni, piace ai tifosi dei Knicks, che da sempre sguazzano in queste cose, e piace a Trae Young, per lo stesso motivo.

La faida tra New York e Reggie Miller rimane al primo posto in una ipotetica lista di antipatie, vuoi per la caratura del giocatore, vuoi per il momento storico che vivevano Pacers e Knicks all’epoca; quella con Trae Young, però, è ormai entrata nel cuore dei tifosi Knicks dai 30 anni in giù, che di Reggie hanno solo ricordi sfocati. In entrambi i casi, a rendere memorabile la rivalità non furono tanto i canestri, quanto l’atteggiamento dei due protagonisti: entrambi sicuri di sé, entrambi sufficientemente bravi a far canestro, entrambi desiderosi di mettere a tacere – letteralmente – il pubblico di New York, sempre pronto ai botta e risposta. Nel caso di Miller, il celebre gesto del choking diretto a Spike Lee, con cui si era già beccato in quella Gara 5 di Finali di Conference. Per Trae, invece, i gesti sono due. Il primo è il più classico degli inchini al pubblico, dopo una altrettanto classica tripla dal logo, il chiodo sulla bara dei Knicks, eliminati sul 4-1. Il giusto epilogo di una serie iniziata con qualche ‘boo’ dagli spalti, proseguita con un game winner in Gara 1 e con i cori ‘Trae is balding’ – Trae sta perdendo i capelli – e il più classico dei ‘fuck Trae Young’.

Pochi mesi dopo quella serie, tra l’altro, Young fu protagonista di una serata di WWE Smackdown organizzata proprio al Garden. Entrata in scena con mano all’orecchio per gustarsi i fischi fragorosi del pubblico, felpa degli Hawks e si va in scena. Nel copione la sua era solo un’interferenza al combattimento tra Sami Zayn - con maglia New York di Kevin Knox (quando ancora si pensava potesse diventare un giocatore NBA) - e Rey Mysterio. Young tentò di colpire quest’ultimo intrappolandolo tra le corde del ring, ma l’arbitro non gradì l’interferenza, espellendolo per la gioia del pubblico. Non è proprio come vincere una serie playoff, ma almeno per una sera i tifosi Knicks presenti nell’arena poterono fingere di avere sconfitto il nuovo rivale.

Il secondo momento topico, invece, risale a circa tre mesi fa. Dopo avere eliminato New York ai quarti di NBA Cup, con 10 secondi sul cronometro il numero 11 si inginocchia in corrispondenza del logo: mima un lancio di dadi e poi il gesto di raccogliere delle banconote. Il motivo è presto spiegato: Hawks a Las Vegas – capitale mondiale del gioco d’azzardo – per le semifinali di coppa, Knicks a casa, ancora una volta. L’esultanza era preparata e frutto di briefing con il fratello più piccolo, e ha tutto perfettamente senso: quando vogliono fare le cose in grande, i criminali non lasciano nulla al caso.

Non è la prima volta in stagione che Trae Young strappa il cuore dal petto di qualcuno. Prima c’è stato il buzzer beater a Salt Lake City: una preghiera da quasi 15 metri – uno dei più lunghi game winner della storia NBA – condita dalla sua Ice Cold, l’esultanza che simula i brividi di freddo copiata anche nel calcio da giocatori come Jorginho (sfoggiata durante i rigori in finale degli Europei 2021) e Cole Palmer. E poi la stepover su Malik Beasley dopo aver segnato il tiro decisivo contro i Pistons. Nessun giocatore NBA prima di lui aveva mai osato replicare la storica e quanto mai spontanea esultanza di Allen Iverson sul povero Tyronn Lue. Un po’ perché di Allen Iverson ce n’è stato solo uno, un po’ perché per ricrearla serve l’opportunità: un difensore che, nel tentativo di contestare il tiro, inciampa e cade ai tuoi piedi, dandoti l’occasione di scavalcarlo sdegnato.

Anche i Celtics hanno un conto aperto con Ice Trae, o forse è il contrario, chissà. Al primo turno dei playoff 2023 Young fece di tutto per tenere in vita i suoi; in 6 partite mise a referto 29 punti e 10 assist di media con un massimo di 38 punti in Gara-5, quando fu bersagliato dai soliti cori dei tifosi, "fuck" e "overrated". La risposta? Il canestro vincente sulla sirena per riportare la serie ad Atlanta.

MA TRAE È DAVVERO CLUTCH?
Sono diversi i canestri decisivi di Young in queste rivalità, ma è davvero un giocatore clutch? Capire quando un giocatore è decisivo nei momenti che contano è sempre stato un esercizio stilistico utile più per le conversazioni al bar o su Twitter. Un po’ perché le statistiche nel crunch time sono state inaccessibili al pubblico per molti anni, un po’ perché in queste situazioni la mitologia e il sentito dire superano spesso la realtà. Da pochissimi anni la NBA ha istituito il premio di Clutch Player of The Year, che premia il giocatore più decisivo in questi momenti della partita: con "clutch time" si intendono gli ultimi 5 minuti di una partita in cui la differenza di punteggio tra le squadre sia di 5 punti o meno. Nelle ultime stagioni, il nostro è sempre stato in top 10 per punti segnati quando conta, ma quest’anno è primissimo con 140 punti totali e 4.7 di media (terzo dietro Brunson e Maxey). Young è terzo con 46 triple tentate in questa situazione di gioco (il 70% di queste non assistite) e convertite con il 37%: buonissimo dato considerato il tipo di tiri che normalmente si prende. È anche decimo per plus/minus nel clutch tra i giocatori con almeno 30 tiri tentati, meglio dei vari Giannis, Jokic e Fox, che il premio lo vinse nel 2023. È anche primissimo per tiri liberi tentati (65, Maxey è secondo con 45), segno che quando c’è da lucrare liberi, Young è uno dei migliori in NBA.

Sarà interessante capire nei prossimi mesi se questa stagione potrà smuovere il mercato attorno al play degli Hawks. Atlanta rimane una squadra mediocre a Est anche se dall’età media non elevata, 25.9 anni. Non è un caso che i giocatori meno giovani del roster – Young e Capela su tutti – sono quelli considerati cedibili, mentre Caris LeVert, arrivato via trade in cambio di De’Andre Hunter, sarà free agent in estate.

Ma quindi Trae è sopravvalutato, sottovalutato o giustamente valutato? Le critiche nei suoi confronti non sono totalmente ingiustificate. Stiamo parlando di un giocatore che ha fatto male ormai a svariate tifoserie NBA e non è mai rifuggito a ricoprire il ruolo del cattivo. Con quei capelli arruffati, la barba incolta e l’atteggiamento strafottente è perfetto per questo ruolo. Ice Trae è un po’ la nemesi di Steph Curry, su cui ha modellato il gioco: se lui è Mario, Young è Wario. Dalla sua Steph ha i titoli e i record, raggiunti con prestazioni dall’efficienza surreale, e una marea di critici lo incolpano ugualmente di aver "rovinato il gioco"; Young invece ha qualche canestro pesante, un’efficienza offensiva rivedibile, la targa dei Knicks e i botta e risposta con i tifosi. In un gioco che predilige sempre di più l’efficienza nei confronti della produzione, questa stagione ci sta dimostrando che abbiamo bisogno di più giocatori come lui. Senza compiere imprese statistiche degne di nota, senza far uscire gli Hawks dalla melma della Eastern Conference, Trae sta provando a far cambiare la narrazione su di sé: è già un primo passo.


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