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Tutta la pressione che c’è sugli Utah Jazz
11 mar 2022
Nessun'altra squadra ha fretta di vincere quanto Donovan Mitchell e compagni.
(articolo)
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A guardarli sulla carta, gli Utah Jazz stanno andando bene. Sin dall’inizio dell’anno sono la squadra con la miglior efficienza offensiva della lega con ampio margine sulla seconda in classifica, sia che si considerino le statistiche del sito ufficiale NBA (116 punti segnati su 100 possessi davanti ai 114.2 degli Atlanta Hawks) sia quelle che eliminano il garbage time di Cleaning The Glass (117.5 su 100 possessi, i Phoenix Suns secondi sono due punti più in basso a 115.4). Nessuno tira con percentuali migliori delle loro (uno spettacolare 56.2% effettivo), solo Philadelphia si procura più viaggi in lunetta e pur avendo in campo sempre quattro tiratori sul perimetro riescono comunque a essere quarti per rimbalzi offensivi catturati, una combinazione di tiro e rimbalzi in attacco che nessun’altra squadra riesce a replicare nella top-5 di entrambe le classifiche e che da sempre li contraddistingue.

La formula che lo scorso anno ha permesso loro di “rompere” la regular season continua a essere seguita come un mantra inscalfibile, mantenendo il volume di tiri da tre punti più alto della lega (il 43.5% delle loro conclusioni è preso con i piedi dietro l’arco) a cui associano la sesta miglior percentuale dall’arco (37% di squadra), finendo in top-10 da ogni zona del campo tranne che nelle long 2s, in cui sono comunque undicesimi ma di cui hanno il volume più basso di tutta la lega con un misero 4% del loro attacco, fedeli alla linea dettata dalle analytics. E anche quando i ritmi si abbassano sono ultra-efficienti, vantando il miglior attacco a metà campo di tutta la NBA (100.7 punti segnati per 100 azioni) con una capacità crudele di generare tiri ad alta percentuale quasi senza accorgersene. Quando gli Utah Jazz giocano al loro massimo, sono pressoché perfetti.

Eppure è difficile che qualcuno senza essere andato a spulciare in profondità i loro numeri li consideri anche solo l’attacco più pericoloso di tutta la NBA. Una sensazione dovuta soprattutto a come si è conclusa la passata stagione, quando a seguito di una regular season dominante conclusa con il miglior record della lega (52 vittorie e 20 sconfitte) e un differenziale su 100 possessi di +11.3 (quasi doppio rispetto a quello dei Clippers secondi in classifica con +6.8), i Jazz si sono arenati al secondo turno proprio contro la squadra di Los Angeles priva di Kawhi Leonard dopo gara-4. E poco importa che anche il trio di guardie formato da Mike Conley, Donovan Mitchell e Jordan Clarkson fosse più o meno pesantemente acciaccato: le quattro sconfitte in fila con cui hanno chiuso la loro stagione hanno fatto crollare la credibilità come contender dei Jazz, e il resto della lega ha assunto un atteggiamento del tipo “Dimostrateci chi siete quando le partite contano, i vostri numeri in regular season non ci impressionano più”.

Perché quando gli Utah Jazz perdono, perdono davvero male. Negli ultimi quattro anni — cioè da quando è arrivato in squadra Donovan Mitchell e Rudy Gobert ha vinto tre titoli di Difensore dell’Anno — i Jazz hanno vinto solamente due serie di playoff (contro i Thunder di Westbrook, George e Carmelo Anthony nel 2018 e i rampanti Grizzlies dello scorso anno) mentre sono stati eliminati per due volte dagli Houston Rockets vincendo appena due partite su dieci, dai Denver Nuggets nella bolla di Orlando facendosi rimontare da sopra 3-1 nella serie e infine dai Clippers lo scorso maggio dopo essere andati avanti sul 2-0, crollando in gara-6 a Los Angeles, quando dopo aver toccato il +25 a inizio secondo tempo hanno finito per perdere di 12, nonostante una serata da 21 triple a segno di squadra. Una sconfitta che sembra aver lasciato più strascichi mentali su questo gruppo di quanti ce ne si potesse aspettare, mettendo sulla squadra, sul coaching staff e sulla dirigenza una pressione immediata per competere subito, altrimenti grossi cambiamenti sono attesi a tutti i livelli. E fino ad ora non la stanno vivendo benissimo.

La schiacciasassi che non c’è più

Quello che rendeva ingiocabili i Jazz nella scorsa stagione era che, oltre ad avere il terzo miglior attacco per efficienza offensiva, avevano di gran lunga la miglior difesa, con una combinazione pressoché irripetibile di percentuali concesse bassissime (sotto il 51% effettivo) e una disciplina di squadra inscalfibile (primi per minor numero di tiri liberi concessi e secondi a rimbalzo difensivo). Un rendimento amplificato dalle braccia infinite di Rudy Gobert, capaci di mascherare una mancanza di atletismo e di attività sul perimetro ben rappresentata dalla percentuale più bassa di palle perse forzate agli avversari (meno del 12%, ultimissimo dato NBA) e una difesa in transizione che, seppur non pessima, non era al livello della granitica difesa a metà campo orchestrata dal francese.

I difetti della difesa perimetrale dei Jazz sono stati però drammaticamente messi in luce ai playoff, con la barca che ha iniziato a imbarcare acqua da tutte le parti e Gobert non è più bastato per tappare tutti i buchi creati dai compagni, venendo “esposto” dalle triple dagli angoli di Terrence Mann.

La facilità con cui gli esterni dei Clippers riuscivano a mettere piede in area costringeva Gobert all’aiuto difensivo, venendo poi punito sistematicamente dalla super serata di Mann. Al netto di questo, non si può certo dire che il francese abbia giocato bene quella partita e quella serie.

Con quella partita è come se Tyronn Lue avesse messo nelle mani del resto della lega il Manuale Per Mandare In Crisi Gli Utah Jazz, e il loro rendimento difensivo ne ha risentito. In questa stagione i Jazz sono scesi dal primo al decimo posto in NBA per efficienza difensiva e, pur mantenendo come mantra quello di non concedere canestri facili — primi per minor numero di liberi concessi, noni per rimbalzi difensivi, in top-5 per minor numero di tiri al ferro concessi forzando una marea di tiri dalla media distanza —, gli avversari segnano con percentuali decisamente migliori rispetto alla passata stagione, specialmente dal mid-range in cui stanno punendo le loro scelte conservative con il 43.2% nelle long 2s (quinto dato più alto della lega).

Il risultato è che i Jazz non sono più riusciti a raggiungere il livello “juggernaut” della passata stagione: sono già 11 le sconfitte subite contro squadre con record inferiore al 50% (lo scorso anno erano state sei in tutto) e anche contro quelle con record vincente sono “solo” 19-13 (era 24-14 l’anno scorso), stabilizzandosi al quarto posto nella Western Conference praticamente dall’inizio della regular season ma con zero chance di riacciuffare Phoenix. Sul loro record ha ovviamente pesato un mese di gennaio in cui hanno avuto un periodo da 11 sconfitte in 13 partite complici le assenze simultanee di Donovan Mitchell e Rudy Gobert, ma anche in un momento positivo come quello avuto da febbraio in poi (in cui hanno battuto squadre come Denver, Dallas e Phoenix senza Chris Paul) ci sono state sconfitte incomprensibili come quella in casa degli L.A. Lakers, un pesantissimo -34 a New Orleans e il ko in casa dei Mavericks in una partita che, se vinta, avrebbe di fatto assicurato loro il vantaggio al primo turno dei playoff.

Questi Jazz danno l’impressione di avere la miglior modalità “Cruise Control” della lega ma allo stesso tempo di mancare della capacità di salire di marce quando necessario. Il loro record nelle 32 partite in cui sono finiti “in the clutch” è negativo (15 vittorie e 17 sconfitte), con un differenziale su 100 punti di +4.6 che è solo undicesimo in NBA e un rendimento offensivo solo da decimo posto rispetto al primo quando si considera tutta la partita. Se c’era un salto di livello mentale da fare per poter davvero ambire al rango di contender, questa squadra non lo ha ancora fatto.

Quin Snyder e la mancanza di alternative

Per certi versi, coach Quin Snyder si trova nella stessa situazione in cui si trovava Mike Budenholzer lo scorso anno a Milwaukee. Le eliminazioni degli anni passati ai playoff avevano evidenziato la necessità di costruire un piano di riserva da utilizzare in caso di emergenza, specificatamente una strutturazione che non prevedesse l’uso di un lungo di riferimento esplorando soluzioni “5 fuori” per pareggiare lo small ball avversario. Gli arrivi di Rudy Gay e di Eric Paschall sul mercato dei free agent sembravano andare in quella direzione, ma nel corso della regular season lo Small Ball non è mai stato davvero sperimentato, provato e allenato dai Jazz, a differenza di quanto fatto da Budenholzer che perlomeno aveva chiuso la regular season con 477 possessi con Giannis da 5.

Dei 6.088 possessi “non garbage” raccolti da Cleaning The Glass quest’anno sui Jazz, appena 634 sono stati giocati senza uno tra Gobert, Hassan Whiteside e Udoka Azubuike in campo, poco più del 10% del totale, con nessun quintetto che raggiunge la tripla di cifra di possessi. I differenziali danno ragione a Snyder, nel senso che i Jazz hanno perso quei possessi di quasi 18 punti su 100 possessi con un’emorragia difensiva (123 punti concessi di media) e appena 105.2 segnati in attacco, mentre vanno decisamente meglio quando c’è uno tra Gobert e Whiteside e sono stati appena negativi nei 156 minuti giocati da Azubuike. Eppure non aver provato a costruire nemmeno una second unit senza lunghi di ruolo, anche solo per vedere l’effetto che fa in un possibile accoppiamento di playoff, appare come uno spreco di tempo e di risorse.

Nel secondo tempo della recente partita contro Dallas la scelta difensiva sui pick and roll è stata quella di cambiare sistematicamente anche con il pachidermico Whiteside in campo. Il risultato sono state tre triple in fila di Doncic e Dinwiddie con intensità da allenamento per un parziale di 9-2 che i Jazz non sono più riusciti a colmare, con il lungo che non aveva alcuna chance di opporsi. Davvero Paschall o Gay avrebbero fatto un lavoro peggiore in questo schema difensivo?

Anche dal punto di vista offensivo, al netto dei risultati élite di cui abbiamo parlato all’inizio, gli avversari capaci di cambiare su tutti i blocchi sembrano particolarmente attrezzati per mettere granelli negli ingranaggi dei Jazz, specie nelle serate in cui Donovan Mitchell non è in grande forma. Il sistema di Snyder negli ultimi anni si è sempre progressivamente allontanato rispetto al concetto di “advantage basketball” degli albori: l’obiettivo dei Jazz non è più quello di amplificare un vantaggio costruito fino a raggiungere il tiro a più alta percentuale, ma sempre più spesso è legato a doppio filo alle improvvisazioni dei tre portatori di palla Mitchell, Conley e Clarkson, che hanno semaforo verde per sparare dal palleggio anche senza che il pallone si sia mai mosso dalle loro mani. Utah tenta la bellezza di 16 triple a partita con almeno un palleggio contro le 24.4 “piedi per terra” ed è la squadra che prova più conclusioni con il portatore di palla del pick and roll (oltre 20 a partita).

Passarsi di meno il pallone non significa necessariamente giocare una pallacanestro peggiore o meno efficiente, anzi: le ultime sette squadre della NBA per passaggi completati sono nei primi dieci posti per efficienza offensiva, tra cui anche i Phoenix Suns che hanno dominato questa regular season. La decisione di “semplificare” l’attacco attorno ai blocchi portati da Gobert certifica però l’ormai avvenuta transizione dei Jazz da squadra che basava la sua identità sul movimento di uomini e palla a una che invece tende a giocare staticamente, affidandosi al talento realizzativo delle guardie.

Numeri e raffigurazioni grezze per testimoniare il cambio di pelle dei Jazz nell’era Mitchell-Gobert: al primo anno della guardia erano sesti in NBA e nelle stagioni successive si mantenevano attorno alla top-10 per passaggi completati, ora sono quint’ultimi. Pur abbassando il numero di passaggi, però, i Jazz hanno continuato a perdere molti più palloni di quanti vorrebbero, migliorando solo marginalmente sotto quell’aspetto.

La progressiva scomparsa della “pallacanestro di vantaggi” è coincisa con il ruolo sempre più secondario di Joe Ingles, alfiere di coach Snyder e vero playmaker ombra della squadra (sempre sopra il 17.4% di Usage e sempre ai primi posti nel rapporto tra assist e possessi utilizzati). Anche prima della rottura del legamento crociato anteriore che ha messo fine alla sua stagione il suo ruolo era diventato più marginale (anche perché, a 34 anni compiuti, la sua efficienza al tiro era crollata dopo anni da élite nella lega), tanto da renderlo sacrificabile come asset sul mercato anche dopo l’infortunio, cedendolo alla deadline per prendere Nickeil Alexander-Walker, immediatamente finito nel dimenticatoio della panchina di coach Snyder (7 minuti non garbage finora).

Vincere adesso per non saltare per aria

Anche se si tende a parlarne poco, molte cose sono cambiate all’interno degli Utah Jazz negli ultimi anni. Innanzitutto nell’ottobre del 2020 è arrivata una nuova proprietà guidata dall’imprenditore Ryan Smith, le cui prime mosse sono state quelle di rinnovare Mitchell e Gobert con contratti al massimo salariale per dare un segnale di stabilità alla squadra. Allo stesso tempo però al gruppo di proprietari si è aggiunto un personaggio ingombrante come Dwyane Wade come socio di minoranza (anche se lui sostiene di non avere alcun potere decisionale) e a livello dirigenziale lo storico capo Dennis Lindsey ha rassegnato le dimissioni lo scorso giugno dopo nove anni ai Jazz, lasciando tutto al suo vice Justin Zanik — a cui però è stato “messo sopra” Danny Ainge, che ha trovato subito casa nello stato in cui ha giocato al college dopo la lunghissima esperienza ai Boston Celtics.

Pur non avendo un ruolo operativo quotidiano, Ainge è da considerarsi a tutti gli effetti il nuovo capo della dirigenza dei Jazz, il primo passo della proprietà per lasciare la propria impronta sulla franchigia. Cambiare qualcosa dopo lo scorso anno comunque vincente quantomeno in regular season non aveva senso, ma questo gruppo non ha alcun “dovere” nei confronti del coaching staff né nei confronti dei giocatori a roster. E se le cose non dovessero andare per il meglio, è pressoché certo che ci saranno grandi cambiamenti in estate — a partire dalla panchina di Snyder da considerarsi in bilico, ma anche con la possibile rottura della coppia Mitchell-Gobert.

Le voci sull’insoddisfazione di Mitchell a Salt Lake City arrivano ormai con cadenza puntuale ogni qual volta i Jazz hanno un periodo di appannamento, ma la sensazione è che la proprietà e la dirigenza vogliano cedere tutti i membri del roster tranne lui, e che un’eventuale ricostruzione partirebbe più che altro dall’addio a Gobert. La situazione contrattuale del francese, però, lo rende particolarmente difficile da scambiare: la sua estensione da 205 milioni in cinque anni lo porterà a guadagnare 46.6 milioni di dollari nel 2025-26 quando avrà compiuto 34 anni, e pur essendo un giocatore mediamente integro, è plausibile che la sua produzione vada a calare dopo questi anni del suo prime assoluto. Gobert come asset è un po’ incastrato a metà: da una parte è il singolo difensore di maggiore impatto della lega, ma il suo valore è inevitabilmente ridotto da quel contratto così pesante, rendendo difficile per i Jazz ottenere indietro un pacchetto in grado di pareggiare quello che Gobert dà realmente in campo, che è tantissimo (senza di lui la difesa crolla a 113.8 punti concessi su 100 possessi, l’equivalente dei Detroit Pistons 25esimi in NBA).

Il resto del roster, però, non ha chissà quale valore sul mercato, se non considerando certi contratti come “expiring” (a partire da quelli di Conley e Bogdanovic, entrambi in scadenza nel 2023) o trovando una squadra interessata alla produzione dalla panchina di Clarkson (che ha una player option da 14.2 milioni per il 2023-24). Gli altri, a partire da Royce O’Neale, sono tutti sotto i 10 milioni e in scadenza a breve — che sarebbe una buona notizia in un altro mercato, liberando spazio salariale in fretta, ma in una destinazione con poco appeal come Salt Lake City ha l’effetto opposto, visto che storicamente i Jazz non riescono ad attrarre free agent. Anche dal Draft non c’è molto da potersi aspettare, visto che le scelte 2022 e 2024 andranno rispettivamente a Memphis e OKC e hanno protezioni tali da rendere difficile scambiare quelle del 2026 e del 2028 sul mercato, sempre che i Jazz trovino lo scambio giusto per sacrificarle.

La buona notizia è che la nuova proprietà ha intenzione di spendere e di vincere, il che paradossalmente è un male per coach Snyder che avrebbe bisogno di una post-season stile Budenholzer per salvare la panchina che occupa dal 2014. Ora come ora questa squadra non sembra poter arrivare a vincere le 16 partite che servono per poter alzare il Larry O’Brien Trophy e neanche le 12 per uscire dalla Western Conference, ma se in salute non possono neanche essere presi sottogamba: i differenziali dei loro migliori quintetti sono comunque di élite e ai playoff giocheranno ancora più minuti insieme, e con quella batteria di tiratori basta trovare un periodo di forma giusto al tiro per poter mettere in crisi qualsiasi difesa. In più, Donovan Mitchell ha dimostrato che ai playoff è in grado di salire ulteriormente di uno o due livelli (28.8 punti di media in 33 partite: solo Michael Jordan, Allen Iverson, Kevin Durant e Jerry West meglio di lui).

Ma in una NBA che fa della versatilità la stella polare da inseguire nella costruzione di una squadra da titolo, i Jazz non sembrano ancora aver messo in faretra tutte quelle soluzioni differenti che a livello di playoff possono risolvere situazioni tattiche intricate. Se la stagione finisse oggi si troverebbero davanti i Dallas Mavericks di Luka Doncic, un giocatore particolarmente a suo agio quando può mettere nel mirino un lungo di ruolo (chiedere al povero Ivica Zubac per informazioni). Nello scontro diretto di fine febbraio Gobert ha fatto un ottimo lavoro su di lui nel finale di gara e Doncic sembra soffrirlo particolarmente dal punto di vista mentale, convinto com’è che ad ogni azione il francese commetta fallo su di lui, apparecchiando la tavola per uno scontro decisamente acceso come si è visto anche nella partita di questa settimana (vinta dai Mavs). Ma anche superando quel primo turno troverebbero subito i Phoenix Suns, che hanno due tiratori élite dal palleggio dalla media distanza come Paul e Booker per mandare in crisi il loro sistema difensivo e un difensore perimetrale del calibro di Mikal Bridges da utilizzare su Donovan Mitchell. E questo prima ancora di pensare di arrivare alle finali di conference, dove ad attenderli potrebbe esserci Ja Morant, Steph Curry, Nikola Jokic o una squadra del torneo play-in come i Clippers al completo, contro cui hanno già perso senza Kawhi Leonard.

Ma nessuna di queste squadre ha la pressione che hanno addosso i Jazz per vincere ora e subito: tutte possono ragionevolmente pensare che le loro chance di titolo rimarranno uguali o persino miglioreranno l’anno prossimo, potendo affrontare i playoff con una “calma” che a Salt Lake City invece non possono permettersi. Vada come vada, qualcosa è destinato a cambiare: sta solo a loro determinare se sarà in meglio o in peggio.

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