C’è un motivo molto semplice per il quale la stragrande maggioranza delle squadre NBA si affida al Draft per dare vita e speranza al proprio futuro: non c’è nessun altra forma di mercato, né gli scambi né la free agency, che permetta di avere il controllo su un All-Star ragionevolmente per nove stagioni. Il percorso per le superstar che si affacciano al mondo NBA è segnato: dimostrare nei primi tre anni di carriera di essere uno dei migliori della lega, per poi passare all’incasso con un’estensione di cinque anni al massimo salariale che partirà alla fine del contratto da rookie (che ha una durata fissa di quattro anni per un compenso prefissato che si può contrattare solo marginalmente) e che permetterà al giocatore di sistemare la propria famiglia per generazioni e generazioni.
Quattro anni di rookie scale più cinque anni di estensione vuol dire nove anni senza poter scegliere il proprio destino in free agency: per molti giocatori è ben più che una carriera intera. Per questo motivo non è mai successo che una giovane stella davanti ad un’estensione di contratto da centinaia di milioni di dollari, abbia detto di no. Magari non tutti quelli che l’hanno accettata lo hanno fatto con l’intenzione di onorare davvero fino in fondo l’accordo con la propria squadra, immaginando per loro stessi un futuro verso lidi migliori che hanno poi concretizzato con richieste di scambi più o meno conflittuali. Ma mai nessuno ha detto di no a una prospettiva economica del genere, soprattutto perché le alternative che hanno a disposizione non sono così allettanti.
Arrivate al termine del quarto anno nella lega le prime scelte al Draft - quelle che ragionevolmente hanno avuto la carriera migliore fino a quel momento - hanno tre strade da poter percorrere: firmare un nuovo contratto con la propria squadra, rendendo tutti felici e contenti pur non essendo riusciti a trovare un accordo l’anno prima; firmare con un’altra squadra, ma dando a quella con cui hanno concluso la stagione la possibilità di pareggiare e trattenerli (la cosiddetta restricted free agency che tende ad esacerbare i rapporti tra le parti); oppure accettare un contratto “ponte” di un anno, la qualifying offer, e presentarsi da free agent senza restrizioni al termine del quinto anno nella lega. In tutti e tre i casi si tratta di una scommessa non solo sul proprio talento, ma anche sulla possibilità di non subire gravi infortuni che possano compromettere le loro opportunità di guadagno. Però, come detto, è un azzardo: chi ha davanti a sé centinaia di milioni di dollari pronti e garantiti, di solito li accetta secondo il mantra del “Take the money first, think about it later”.
C’è una situazione, però, nella NBA odierna che potrebbe stravolgere questo paradigma inscalfibile: quella di Zion Williamson ai New Orleans Pelicans. Da tempo ormai si vocifera che Williamson non sia convinto delle mosse fatte dalla sua franchigia e che possa diventare il primo giocatore di sempre a non accettare un’estensione al massimo salariale (che arriverà al primo secondo utile dell’estate del 2022) e accettare di giocare il suo quinto anno di NBA con una qualifying offer, potendo decidere quindi il proprio destino da free agent senza restrizioni nell’estate del 2024. Sarebbe una rivoluzione, eppure i tempi del player empowerment sembrano maturi anche per una mossa così fuori dall’ordinario.
Lo scenario della fine del mondo per New Orleans
Ci sono vari motivi perché questo — che comunque rimane uno scenario ipotetico e di difficile realizzazione — possa succedere. Per un giocatore NBA normale il contratto con la propria squadra è la principale fonte di guadagno, ma se c’è un giocatore che può permettersi di vivere “solo” di contratti di sponsorizzazione è certamente Williamson, che ha riscritto record su record per i suoi accordi commerciali, a partire dai 75 milioni di dollari che riceverà da Brand Jordan nei prossimi sette anni — quasi al livello di quanto i Pelicans possono pagarlo secondo il rookie scale, pari a poco più di 44 milioni in quattro stagioni. E questo senza considerare tutte le altre sponsorizzazioni che ha accumulato da quando è diventato professionista e uno dei volti più commercializzabili della NBA (c’è un motivo se passano così tante partite dei Pelicans in TV).
Se dovesse arrivare al termine del suo contratto da rookie senza l’accordo per un’estensione, troverebbe una qualifying offer da 17.6 milioni di dollari ad attenderlo — una cifra ampiamente al di sotto del suo valore e di quello che potrebbe guadagnare con un’estensione da “designated player” (oltre 200 milioni di dollari in 5 anni), ma comunque non proprio pochissimi per guadagnarsi la possibilità di scegliere del proprio destino. Con quel contratto annuale, inoltre, avrebbe la possibilità di mettere il veto su ogni scambio che lo coinvolge, guadagnando ulteriore potere sul proprio futuro, che a quel punto sarebbe interamente nelle proprie mani — con una fila lunghissima di squadre pronte ad accoglierlo dopo aver liberato abbastanza spazio salariale per assorbirlo e, potenzialmente, anche mettergli al fianco giocatori di suo gradimento per gli anni migliori della sua carriera.
Arrivare a uno scenario del genere, ovviamente, significherebbe rompere qualsiasi rapporto con la franchigia, diventando di fatto un separato in casa. Una situazione che a New Orleans conoscono fin troppo bene essendoci passati recentemente con Anthony Davis, e che creerebbe enormi grattacapi da gestire non solo alla dirigenza o allo spogliatoio, ma allo stesso Williamson — le cui azioni e dichiarazioni verrebbero seguite con interesse morboso da parte dei media e dei tifosi, vivendo in un mondo quasi insostenibile. Bisognerebbe davvero arrivare a una distruzione assoluta di ogni conversazione, ai livelli di dove si trovano ora Ben Simmons e i Philadelphia 76ers. Forse anche di più.
I segnali di insoddisfazione da parte di Zion
Uscendo per un attimo dalle ipotesi, bisogna constatare però che qualche segnale di insoddisfazione da parte di Williamson è stato lanciato. Ora sappiamo per certo che il modo in cui è stato gestito il suo primo anno a New Orleans, con un infortunio al menisco che avrebbe dovuto tenerlo fuori per 6/8 settimane che si è prolungato fino ai tre mesi, non è piaciuto per niente al numero 1, che per sua stessa ammissione odiava i brevissimi periodi di 4 minuti ciascuno che gli venivano concessi in campo prima di rimetterlo in panchina per preservare il suo fisico.
Una storia cominciata malissimo già al suo indimenticabile debutto, interrotto proprio nel momento di massimo fomento.
A questo si aggiunge anche l’incredibile instabilità tecnica che ha contrassegnato il suo biennio a New Orleans. Williamson è già al suo terzo capo-allenatore diverso, arrivando a Willie Green dopo Alvin Gentry e Stan Van Gundy, e sono solamente quattro (Brandon Ingram, Josh Hart, Jaxson Hayes e Nickeil Alexander-Walker) i compagni di squadra che hanno resistito alle ultime due turbolenti estati di mercato. Tra questi non figura Lonzo Ball, che è stato lasciato andare in free agency nonostante Williamson avesse detto chiaramente di apprezzarlo e di volerlo al suo fianco per il futuro.
Soprattutto, però, le voci più preoccupanti sono quelle che riguardano la famiglia di Zion, che si sarebbe già stancata dell’instabilità trovata dal ragazzo ai Pelicans tanto da volerlo già vedere in un’altra franchigia che possa metterlo davvero nella condizione di vincere, con un progetto tecnico più chiaro e definito attorno a lui. Il rapporto tra questi membri della famiglia di Zion — non meglio specificati — e la dirigenza dei Pelicans guidata dal presidente delle operazioni cestistiche David Griffin sarebbe compromesso già da tempo, a partire dalla gestione del suo infortunio nell’anno da rookie fino all’assunzione di Stan Van Gundy lo scorso anno, considerato troppo rigido ed esigente nelle sue richieste a Zion.
SVG non è più sulla panchina dei Pelicans, ma Griffin è ancora al suo posto come capo della dirigenza — anche se pure su di lui cominciano ad aggirarsi nubi funeste. Un lungo articolo del giornale locale di New Orleans ha passato in rassegna tutti gli errori dell’ex capo dei Cleveland Cavaliers nel suo periodo alla guida della franchigia, raccontando anche dettagli imbarazzanti dei suoi tentativi di creare un rapporto con Zion presentandosi nella sua stanza d’albergo per suonargli delle canzoni al piano durante la bolla di Orlando. La cosa peggiore del pezzo — e, a voler pensare male, anche il motivo per cui certi dettagli sono trapelati — è che nel suo stesso gruppo di lavoro nessuno sembra sopportarlo più (lo chiamano “Griff Krause”, in “onore” del GM dei Chicago Bulls di Jordan), e abbiamo un recente esempio nei Minnesota Timberwolves di cosa succede quando una dirigenza non rema più nella stessa direzione.
Un Media Day più movimentato del solito
Come se tutto questo non fosse abbastanza, durante il Media Day dei Pelicans David Griffin ha rivelato che Williamson ha subito una frattura al quinto metatarso piede destro tra i mesi di luglio e agosto, un infortunio che lo terrà fuori per tutta la pre-season — anche se la speranza è quella di averlo in campo per l’inizio della stagione. Una notizia arrivata come un fulmine a ciel sereno, visto che per due mesi interi non si è saputo nulla, e che rappresenta il terzo infortunio alla stessa gamba subito negli ultimi anni — dando ancora più vigore all’idea che con quel fisico così fuori scala Zion sia inevitabilmente portato a subire infortuni più o meno gravi in continuazione, come già si temeva ai tempi del Draft.
Zion ha giustificato l’infortunio dicendo di aver “spinto troppo” in allenamento ad ogni ripetizione, motivato anche dalla voglia di dimostrare di essere un giocatore vincente dopo aver perso più partite di quelle che ha vinto da quando è a New Orleans, e promettendo anche di non mancare più i playoff nei prossimi anni. Più che dover raccontare del suo infortunio, però, il resto del suo Media Day è stato speso in modalità pompiere, cercando di spegnere ogni incendio attorno a sé. Innanzitutto dicendo che tra lui e Griffin non ci sono problemi («Siamo entrambi agonisti e vogliamo vincere. A volte siamo in disaccordo? Certo. Chi è che va sempre d’accordo su tutto? Ma è quello che rende grande la nostra relazione: tiriamo fuori il meglio l’uno dall’altro»), rispondendo anche una domanda sul suo pensiero sull’organizzazione.
https://twitter.com/PelicansNBA/status/1442528521046351878
A leggere semplicemente la dichiarazione («Amo stare qui, amo la città di New Orleans, non vorrei essere da nessun’altra parte») sembrerebbe tutto a posto. Poi guardando il suo nervosismo e la sua finta disinvoltura rispondendo alla domanda, cercando di “fare il simpatico” dando il premio di miglior domanda del giorno al giornalista che gli ha chiesto i suoi pensieri sulla franchigia, sembra un po’ ripetere un copione già scritto per lui da qualcun altro.
Lo strano caso di Zion e New York, con la CAA di mezzo
Il fatto che abbia specificato di “non voler essere da nessun’altra parte” è di per sé significativo. Lo scorso anno le sue dichiarazioni sul Madison Square Garden di New York — definito «il mio posto preferito dove giocare» prima di aggiungere in fretta e furia «a parte New Orleans» come se fosse un intralcio da dover citare perché obbligato a farlo — avevano fatto un po’ di rumore, anche se c’è un motivo extra-basket molto interessante per il quale sono state riprese. I Knicks sono attualmente gestiti da Leon Rose, nuovo capo della dirigenza ma soprattutto noto ex agente della potentissima CAA, l’agenzia che gestisce buona parte del mondo dello sport e dello spettacolo americano — e ovviamente anche Zion.
Come scritto dall’ex giornalista di ESPN e The Athletic Ethan Strauss nel suo nuovo Substack, la CAA è anche l’agenzia di buona parte dei giornalisti più in vista di ESPN, a partire da Adrian Wojnarowski (con cui, va detto, Strauss ha un rapporto conflittuale da anni). E ESPN, nel suo ruolo di “Worldwide Leader in Sports”, detta l’agenda di cosa si parla e quanto se ne parla: in un’era in cui i movimenti di mercato dei giocatori sono diventati più importanti delle partite stesse (il mese di luglio, quello della free agency, “tira” nettamente di più rispetto a quello di giugno delle Finals, anche perché coinvolge più tifosi invece che sole due squadre), è interesse della CAA fare in modo che si parli della possibilità di un passaggio di Williamson ai Knicks. Per usare le parole di Strauss: “Il modo in cui è presentata al consumatore è la mera notizia di una stella nascente di New Orleans che vuole giocare a New York. Quello che non bisogna sapere è che ESPN vuole che accada perché ESPN è la CAA e la CAA è ESPN, il che significa che la CAA è anche i Knicks, quindi anche i Knicks sono ESPN. […] In molti casi le agenzie gestiscono la NBA. Molto spesso la storia di uno scambio o di una firma in free agency sono pubblicate senza menzionare i loro veri autori”.
C’è speranza per i tifosi di New Orleans
Quindi è tutto già deciso? I “poteri forti” sono schierati contro i Pelicans e Zion è destinato ad andarsene? Non così in fretta. Innanzitutto c’è un motivo se non è mai successo che un giocatore rifiutasse un’estensione da 200 milioni di dollari, e cioè — banalmente — che si tratta di una vagonata di soldi a cui non si può dire di no a cuor leggero. E diventa ancora più difficile dire di no per un giocatore con la storia di infortuni alle spalle che ha Williamson, con quel fisico uscito da un film della Marvel e la quantità di contatti che subisce a ogni partita buttandosi verso il ferro come una palla di cannone.
In più siamo attraversando un’era in cui la free agency sta perdendo di importanza. Complice anche l’incertezza dettata dal Covid-19, negli ultimi anni sempre più stelle stanno bypassando la free agency assicurandosi il maggior numero di soldi garantiti il prima possibile, anche a discapito di possibili guadagni futuri. Anthony Davis e Kawhi Leonard, giusto per dirne due, hanno rinnovato con contratti pluriennali anche quando fare un 1+1 sarebbe stato economicamente vantaggioso, pur di mettersi al riparo da possibili brutte sorprese in caso di infortuni. LeBron James, Steph Curry, Giannis Antetokounmpo e Kevin Durant hanno tutti esteso i loro contratti senza arrivare ad esplorare la free agency, e lo stesso hanno fatto Jimmy Butler, Joel Embiid, Rudy Gobert e Julius Randle. I free agent più importanti a cambiare maglia nelle ultime due sessioni di mercato sono stati Kyle Lowry e Gordon Hayward, che in questo momento delle rispettive franchigie sono al massimo dei solidi titolari con poche chance di arrivare all’All-Star Game.
Sempre più agenti stanno consigliando ai propri assistiti di firmare subito e di chiedere di essere ceduti successivamente, consapevoli ormai che i giocatori hanno un potere tale da rendere impossibile la vita alle proprie franchigie nel caso in cui la richiesta non venga esaudita, come dimostrano i recenti casi di Simmons a Philadelphia e prima ancora di Harden a Houston o — e qui arriviamo al punto — di Anthony Davis a New Orleans. La situazione attorno a Zion è analizzata così minuziosamente non solo perché parliamo di un giocatore straordinario, ma anche per quanto accaduto solo due anni fa con AD nella stessa franchigia, con il terrore da parte dei tifosi che la storia possa ripetersi un’altra volta, e che a New Orleans (o allargando il quadro in un piccolo mercato) non ci si possa mai godere a pieno un giocatore di prima fascia della NBA che inevitabilmente arriverà a chiedere di essere ceduto in un mercato con prospettive migliori.
La decisione di Antetokounmpo di rimanere a Milwaukee, da questo punto di vista, è quasi un’anomalia, ma stiamo anche parlando di un giocatore che proviene da un background diverso da quello dei suoi pari-rango e che in Wisconsin ha voluto mettere radici, trovando peraltro attorno a sé una squadra competitiva per il titolo anche prima di conquistarlo nella passata stagione. Come ammesso da David Griffin, c’è un solo modo per spegnere le voci attorno a Williamson: cominciare a vincere già da quest’anno. Che poi i Pelicans siano pronti a farlo è tutto un’altro discorso, che sarà interessante approfondire in seguito. Le mosse di Griffin stesso non sono state accolte benissimo e il suo posto è da considerare a rischio.
Sono un piccolo mercato, è vero, ma di sicuro quest’anno Zion e compagni avranno un bel po’ di occhi puntati addosso da parte del resto della NBA.