E fu così che il basket fece ritorno a casa, quattordici anni dopo l’ultimo trionfo. Al termine di un weekend convulso, costellato di colpi di scena, il vessillo più ambito del college basketball torna a sventolare a Kansas University. Nello stato dove si trova il centro geografico degli Stati Uniti. E dove oltre un secolo fa la pallacanestro fu portata da James Naismith in persona — l’inventore di questo sport e fondatore ufficiale della squadra di basket dell’ateneo. Cade invece, a pochi metri dal traguardo, un’altra nobile di questo sport, la University of North Carolina che fu di James Worthy, Michael Jordan, Vince Carter. E che, dopo aver eliminato i rivali storici di Duke in un’indimenticabile semifinale, è arrivata a un passo dall’impresa storica.
Dopo aver chiuso in doppia cifra di vantaggio il primo tempo della finale, però, i Tar Heels non sono riusciti a chiudere i conti, finendo con il subire una rimonta di proporzioni storiche: nessuno, in una finale NCAA, era infatti mai riuscito a recuperare 16 punti di vantaggio. Finisce 72-69 per i Jayhawks, con la consueta pioggia di coriandoli che volano sotto i riflettori. Mentre Bill Self, primo allenatore di Kansas a vincere due titoli, gongola a bordocampo, festeggiando con i suoi giocatori presenti e passati. Il premio di Most Outstanding Player va a Ochai Agbaji, tiratore chirurgico diventato negli anni il leader incontrastato di questo gruppo. È lui il simbolo di una Final Four che, Duke e Paolo Banchero a parte, è stata dominata dai veterani. Sono i titoli di coda di un fine settimana intensissimo, indimenticabile: per chi era in campo, ma pure per chi, come noi comuni mortali, ha passato il tempo tra il bar e il divano. Uscendone esausto, nel senso più bello del termine. Merito dell’incredibile trafila di sorprese, emozioni e momenti storici che si sono susseguiti tra il sabato pomeriggio e i possessi decisivi della finale. Proviamo a riassumere tutto l’accaduto con calma, passo per passo. Consci che più di un dettaglio, nella foga degli eventi, si sarà perso per strada.
Sabato 2 aprile
Ore 15.30. Come a Castelgandolfo
Il pomeriggio inizia pigramente. Come tutti i pomeriggi di grande attesa. Procedendo in macchina lungo la Highway 30 che unisce Philadelphia alla Main Line — la successione di case milionarie, ville storiche e negozi di alto borgo che racchiude i sobborghi più esclusivi della città. C’è giusto il tempo di avanzare per un paio di chilometri lungo le strade dissestate di West Philadelphia prima di ritrovarsi bruscamente proiettati in un universo parallelo, pettinatissimo, dove alcione delle università più elitarie degli Stati Uniti si susseguono in rapida successione: Haverford, Bryn Mawr, e infine, appunto, Villanova University. Ateneo cattolico fondato dagli Agostiniani, la cui chiesa è intitolata a San Tommaso da Villanova, proprio come quella di Castelgandolfo. Eppure, eccezion fatta per un matrimonio appena terminato, il campus si presenta in una veste decisamente laica.
Dentro il bookstore, frotte di famiglie si accaparrano qualcosa da indossare per la partita. Una maglia con il bracket, una canotta, una asciugamano dei Wildcats. Con scontrini da 150 dollari a botta che fanno tintinnare in continuazione le casse degli Agostiniani. Poco più in là, centinaia di studenti si sono dati appuntamento fuori dal dormitorio. Due casse per la musica, un container di patatine, e galloni di succo d’arancia in bella vista sul muretto. Oltre a galloni di vodka di terz’ordine pronti a fare da olio nella miscela, accuratamente imboscati al riparo da sguardi indiscreti. Galvanizzati dalla movida, i giovani Wildcats si avviano in processione verso il Finneran Pavillion, il palasport dove un maxischermo proietterà la prima semifinale. A due ore dalla palla a due, la fila per entrare si estende per centinaia di metri lungo la highway, scatenando i caroselli sfrenati di tutte le auto in transito.
Ore 17.10. Wildcat Samplers
Tempo di trovare un posto dove gustarsi la partita. Obiettivo primario è Flip & Bailey’s, le migliori ali di pollo della Main Line. Un bar iconico per i tifosi di Villanova, mimetizzato tra uno spaccio di alcolici e un meccanico, a pochi isolati dal campus. Nonostante l’ampio anticipo, però, c’è già una coda si estende ben oltre la porta di ingresso, lasciando poche speranze a chi intende entrare. Per fortuna, esattamente di fronte, spunta provvidenzialmente la Garrett Alehouse. Birreria dai contorni più canonici, ma con una bandiera dei Wildcats appesa sulla finestra a ricordarci che tutta la Main Line resta unita nella propria missione. C’è giusto il tempo di accaparrarsi l’ultimo tavolino e ordinare i Wildcat Samplers, la specialità della casa — un tagliere casereccio con influenze messicane che propone un assortimento di alette di pollo, nacho chips, spicchi di quesadilla, e una ciotola di pico del gallo ad insaporire il tutto. Non ci sono modi migliori di ingannare l’attesa per la palla a due. E anche se ci fossero, non ci vengono in mente.
Ore 20.30. È stato meglio finire la benzina, che non essere mai partiti
Il clima elettrico nella Alehouse si smorza rapidamente. Kansas è forte, troppo forte. Ochai Agbaji, probabilmente il miglior tiratore sui blocchi di tutta la NCAA, infila quattro siluri filati. Quando Villanova prova a mettere pressione sul perimetro, arrivano palloni dentro millimetrici per David McCormack, che non sbaglia un colpo. Chiuderà con 25 punti e 10/12 dal campo, mostrando un certo gusto nello sfoderare la migliore partita in carriera nel momento più importante. Ma è la difesa dei Jayhawks che fa la differenza. Isolando Collin Gillespie dal resto dell’attacco, l’uomo da cui passa tutto il sistema offensivo dei Wildcats, e che per tutta la partita non riesce mai a creare spazi per i compagni. Chiuderà con 17 punti, tutti sudatissimi. Ma soprattutto zero assist — dato bizzarro per un playmaker abituato a gestire volumi di possessi mastodontici. Dopo un primo tempo disastroso, Villanova prova a rientrare, arrivando anche a -6 a metà della ripresa. Ma la benzina è ormai finita. Con una rotazione ridotta a sei uomini — fatale l’infortunio al tendine d’Achille di Justin Moore rimediato nel turno precedente — i Wildcats non hanno la forza per riaprire i giochi. E allora finisce come spesso finisce in queste occasioni: Gillespie che abbandona il campo in lacrime, richiamato in panchina per l’ovazione finale. E la febbre pre-partita che si sgonfia inesorabilmente, sfociando in un mogio ritorno alla normalità. Per gli avventori in birreria e gli studenti del campus. Ma non basterà a rovinare il ricordo di una giornata comunque indimenticabile.
Anche per i protagonisti del matrimonio di giornata.
Ore 20.50. Scherzi del destino
C’è a malapena il tempo di rifare la Highway 30 al contrario, procedere tra i semafori di una Philadelphia incredibilmente senza traffico, e accendere la tv di casa. La seconda parte della serata prevede Duke-North Carolina. Il più classico dei derby del college basketball, una delle rivalità sportive più famose al mondo; ma, pure, incredibilmente, il primo scontro tra queste due università nel tabellone del torneo NCAA — ovvero, al di fuori della propria conference, escludendo un remoto incontro all’NIT degli anni ‘70. Uno scherzo del destino cui ha contribuito lo spazio di probabilità nebuloso della March Madness — un mondo dove tutto è possibile, ma, a dire il vero, anche tremendamente improbabile—e la mano invisibile degli dei del basket, che hanno pensato bene di tenersi questo asso nella manica per l’ultima stagione di attività di Mike Krzyzewski.
Il leggendario allenatore dei Blue Devils e della Nazionale USA aveva dichiarato l’estate scorsa la propria intenzione di godersi la meritata pensione dopo 42 anni di servizio. E ora si ritrova proprio i rivali storici sulla strada verso il sesto titolo in carriera. Aggiungete al mix l’interesse globale per i destini di Paolo Banchero — che nel caso di noi italiani, si trasforma in una giustificata ossessione — e capite che il vero appuntamento sportivo di giornata è proprio questo. Con tutto il rispetto, che resta molto, per James Naismith e San Tommaso da Villanova. Sembrano pensarlo anche Vince Carter e JJ Redick, illustri ambasciatori di Tar Heels e Blue Devils, coinvolti in un’intervista doppia sugli schermi di ESPN che imprime la giusta dose di nostalgia alla sfida. Siamo finalmente pronti a giocare.
Ore 22:45. Instant classic
Le attese, già stellari, non vengono tradite. La partita inizia seguendo i canoni della classica battaglia caotica, epitome del basket collegiale: sportellate, mattoni, tuffi, ginocchia che si sbucciano. Salvo poi elevarsi al rango di instant classic negli ultimi dieci minuti, in cui le squadre si scambiano a ritmo vorticoso prodezze e colpi di genio. Da una parte, le penetrazioni di Trevor Keels e i movimenti felpati di Paolo Banchero che, come al solito, non tira molto, ma quando lo fa gli viene tutto così naturale che vorremmo vederlo tirare a ogni possesso, e restiamo delusi quando lo vediamo passare la palla. Chiuderà con 20 punti, miglior marcatore dei suoi, ma senza riuscire a incidere particolarmente nel finale di partita.
Dall’altra, ci sono le magie di Caleb Love e Brady Manek. Una coppia di quelle che tendono a fare strada nel college basket: occhi inchiodati sul qui-ed-ora, per non lasciarsi scappare niente di quello che passa davanti; e solo un pensiero svogliato a mock draft e a prospettive future, quasi fossero solo distrazioni. Il primo sforna un secondo tempo da 21 punti, portando a spasso tutta la difesa sul perimetro di Duke, e segnando il canestro che segna l’ultimo, definitivo, sorpasso. Il secondo si immola per isolare Banchero dal resto dell’attacco, tenendolo lontano dal canestro a suon di panciate. Si fa strada tra i difensori dei Blue Devils con le sue movenze goffe, orizzontali, tremendamente efficaci. Quelle che, a questo livello, possono fare la differenza tanto quanto i lampi di talento.
E così, tra un colpo di scena e l’altro, si arriva all’ultimo minuto con la situazione in bilico totale. Mark Williams, probabile scelta nella prossima lotteria, ha in mano i due tiri liberi del sorpasso. Ultima occasione per riscattare una prestazione sin lì deludente, complici i problemi di falli. Finiscono entrambi sul ferro. Carolina prende il rimbalzo e mantiene il vantaggio fino alla fine. Della partita, e della carriera di coach K.
Instant classic senza se e senza ma.
Ore 23:30. “O piangi di gioia, o piangi di dolore”.
Smaltita l’adrenalina, è tempo di fare i conti con la realtà. Quella di un mondo del college basketball in cui Krzyzewski non siederà più in panchina. I tifosi sono in lutto; gli avversari si tolgono il cappello; i gufi, sempre numerosi, godono. Nessuno resta indifferente. Il coach esce in maniera teatrale, ma composta. In linea con la sobrietà militaresca che lo ha sempre contraddistinto, sin dai tempo in cui giocava per la squadra dell’esercito americano. Cammina fuori dal campo mano nella mano con la moglie, sotto lo sguardo di 70.000 persone. «Al termine di una partita del genere, o piangi di gioia, o piangi di dolore. E a noi è toccato il dolore» dirà a caldo, negli spogliatoi. «Avrò tempo per pensare a me e a cosa mi aspetta. In questo momento, il pensiero va soltanto ai giocatori. Al fatto che hanno lavorato così duro, e che però non sono riusciti ad arrivare in fondo».
Dallo studio televisivo, rigorosamente bipartisan, piovono gli elogi. La storia perfetta sarebbe stata scritta se fosse arrivato a mettere le mani sul titolo. La storia effettiva dice che Hubert Davis, allenatore esordiente, gli ha rovinato due volte la festa. Un mese fa, battendolo nell’ultima apparizione al Cameron Indoor Stadium, davanti ai propri tifosi. E oggi, mandandolo definitivamente in pensione. Due imprese che varranno all’allenatore di North Carolina la riconoscenza eterna dei propri tifosi, senza peraltro nulla togliere alla leggendaria carriera di Coach K.
Lunedì 4 aprile
Ore 20.20. Non resta che attendere
La finale NCAA, come da rituale, è in programma per il lunedì sera. Ne viene fuori la tipica giornata feriale di attesa interlocutoria. Non solo per i giocatori, ma anche per chi vuole semplicemente seguire la partita. Ore distratte al lavoro o sui libri, con il solo fine di ingannare il tempo che manca prima della palla a due. Che arriva tardi, per gli standard americani: alle 21.20 sulla costa Est, a un’ora in cui molti hanno finito di cenare da un pezzo, e l’ora di coricarsi non è poi così lontana. Ma, alla luce di quanto starà per succedere, rimanere svegli non sarà certo un problema.
Ore 21.50. Just another Manek Monday
I primi minuti di finale sembrano un film già visto. Agbaji che segna da tre. La difesa di Kansas che pressa forte sul perimetro. Pronti via 7-0, proprio come sabato. Ma anche Carolina sembra aver intenzione di riprendere il discorso da dove l’aveva interrotto. Giocando nella stessa maniera spiritata che le aveva permesso di schiantare i Blue Devils. Sotto i tabelloni i Tar Heels si affidano ad Armando Bacot. Che gioca con una caviglia malmessa, ma riesce comunque ad arpionare qualsiasi cosa passi nella sua zona area, comandando il duello diretto contro McCormack. Chiuderà con 36 rimbalzi in due partite. Ne viene fuori un inizio di sfida equilibrato, almeno fino a che Manek, ripresosi da un colpo in testa rimediato in apertura, entra prepotentemente in partita: stoppate, aiuti, decine di palloni sporcati. E due triple filate che ispirano un fulmineo 16-0 di parziale, sparigliando drasticamente la situazione. Guidata dal suo guerriero, la difesa di Carolina chiude tutti i rubinetti, costringendo Kansas a una siccità di oltre 5 minuti senza un solo canestro dal campo. Il primo tempo si chiude sul 40-25 e North Carolina è in pieno controllo. Almeno in apparenza.
Ore 23.10. La più grande rimonta di tutti i tempi
Nessuno, in una finale NCAA, ha mai rimontato 16 punti di svantaggio. E non sembra esserci un motivo valido per pensare che debba succedere proprio questa volta. La logica vorrebbe che i Tar Heels giocassero una ripresa di amministrazione. Capitalizzando sulla crisi di fiducia di Jayhawks, e gestendo le energie che restano dopo la sanguinosa battaglia di 48 ore prima. Ma la logica, nel basket e non solo, è spesso una proiezione fittizia. Un feticcio senza valore. Kansas esce dagli spogliatoi trasformata, nel corpo e nello spirito. La pressione sul perimetro si alza nuovamente, il tagliafuori inizia a funzionare. Assieme a rimbalzi e recuperi, arrivano anche i punti in transizione che erano mancati nel primo tempo. E Carolina, quella famosa stanchezza, la sente tutta in una botta.
Agbaji, costantemente marcato faccia a faccia, lascia che siano gli altri a farsi avanti. Chris Braun prima, Remy Martin poi. A metà ripresa arriva il sorpasso. I Tar Heels non si arrendono, bruciando tutta la benzina rimasta. Ne viene fuori un finale di partita intensissimo, senza inibizioni. Quasi frenetico nel susseguirsi dei ribaltamenti di fronte. Love e Manek sparano le ultime cartucce. Poi, all’ennesimo duello sotto canestro, la caviglia di Bacot si gira ancora. Questa volta senza possibilità di appello. Manca un minuto, serve il colpo del ko. Arriva con due canestri consecutivi di McCormack in post basso, che approfitta dell’assenza del rivale per segnare il canestro che regala il +3. Vale il definitivo vantaggio, prima che il tiro del pareggio di Love si infranga sul ferro. Per ben due volte, giusto per non correre il rischio di annoiarsi.
Tutto il meglio della finale, per chi se l’è persa.
Ore 00.14. One Shining Moment
Finisce come finisce sempre. Con One Shining Moment che risuona nello stadio e nelle casse dei computer, e il montaggio delle immagini salienti della stagione che scorre sugli schermi. È il rituale melenso che ogni volta ci fa accapponare la pelle. Per lo sfoggio di sentimenti a buon mercato; e per la potenza con cui riesce a riprodurre le grezze emozioni che ci tengono attaccati morbosamente al college basket, stagione dopo stagione, a prescindere da chi scende in campo. Pochi minuti di filmato che ci fanno rivivere i momenti chiave della March Madness: le imprese di St.Peter’s, prima squadra con la testa di serie numero 15 ad arrivare ai quarti di finale; le uscite anticipate di Gonzaga e Arizona, forse le due favorite per la vittoria finale; e il ping-pong di colpi di scena di una Final Four che doveva essere storica, e che infatti difficilmente scorderemo. È il segnale di chiusura ufficiale, prima del letargo estivo. Aspettando che arrivi novembre, e che poi sia di nuovo primavera.