Alla fine del 2016 su queste pagine avevamo ripercorso le molte tappe che avevano esacerbato il rapporto tra gli studenti-atleti dei college americani e la NCAA, la pachidermica istituzione che gestisce i campionati delle tre divisioni universitarie e regolamenta gran parte dei rapporti economici col mondo esterno dei giocatori stessi. In sintesi avevamo cercato di rispondere, tra le altre, a queste due domande: gli studenti-atleti sono sfruttati oltre ogni ragionevole dubbio? Se il sistema non è equo, come dovrebbe essere ristrutturato?
Attraverso le risposte di alcuni protagonisti diretti (gli italiani Riccardo Fois, Luca Virgilio, Federico Mussini e Amedeo Della Valle, oltre al campione NBA Rip Hamilton) e un’indagine sulle polverose regole che ancora oggi la fanno da padrone imponendo unilateralmente le volontà della NCAA, avevamo concluso che la situazione più urgente da sanare a favore degli studenti-atleti riguardava l’utilizzo dei propri diritti d’immagine, ben salda nelle (rapaci) mani degli atenei, delle conference e della NCAA stessa.
Oltre a questo avevamo aggiunto che, se per la maggior parte degli studenti-atleti il privilegio di una borsa di studio sportiva per giocare uno, due, tre o quattro anni in alcuni tra i più prestigiosi college del mondo bastava ed avanzava come “scambio equo”, per quel 2% di giocatori universitari “superstar” - cioè con un futuro già chiaro in NBA e con possibilità di guadagno immediate - si sarebbe dovuto trovare un compromesso storico.
Compromesso però sicuramente diverso da quello proposto da più parti che avrebbe voluto portare a negare e violare uno dei se non il principio base della NCAA, cioè il concetto di “dilettante”, di giocatore amatoriale. Nessun studente-atleta sarà mai compensato direttamente dalla NCAA, cosa richiesta dai molti che guardano con la bava alla bocca i contratti televisivi miliardari, ignorando però i principi redistributivi e di equità che sono cardini dell’istituzione.
Più facile, semmai, programmare una qualche concessione a quei pochi fortunati capaci di attirare le attenzioni delle multinazionali e di milioni di followers, autorizzandoli a firmare un contratto per sfruttare finalmente il loro cognome, fino ad oggi inutilizzabile a scopo di lucro. Tutti “what if” che fino al 2019 sembravano destinati al solito, classico e ipocrita nulla di fatto tipico della NCAA, una bestiaccia che farebbe impallidire anche la mitica burocrazia italiana.
Cos’è successo negli ultimi tre anni?
Non è un caso che questo articolo venga scritto proprio nei giorni successivi al clamoroso voltafaccia di tre dei migliori giocatori liceali americani, Jalen Green (conteso da Auburn e Memphis), Isaiah Todd (Michigan) e Daishen Nix (UCLA), tre future scelte al primo giro del Draft NBA del 2021.
I tre giovani fenomeni non inizieranno la stagione 2020-21 con le canotte di tre grandi università della Division I, ma con quella ben meno conosciuta e di cui ancora non si hanno dettagli su logo e colori del “Select Team” della G-League (la lega di sviluppo affiliata alla NBA), cioè la nuova squadra sperimentale creata appositamente per offrire un’alternativa valida in patria a tutti quei 18enni che per mille motivi avrebbero comunque scelto il professionismo prima del salto verso la lega di Adam Silver.
Una vera rivoluzione, soprattutto considerato il rumore sollevato dal clamoroso talento dei tre teenager coinvolti, tutti considerati da ESPN prospetti da “5 stelle su 5” e tra i Top-20 della nazione. Tra questi addirittura una potenziale prima scelta assoluta del prossimo Draft, la guardia iper-atletica Jalen Green che, per guadagnare subito mezzo milione di dollari, il 16 aprile con un Live su Instagram ha annunciato con un gran sorriso il suo passaggio al nuovo progetto della G-League.
Come sia potuto succedere un evento senza precedenti nella storia recente del basket americano e come abbiano reagito le varie parti coinvolte è faccenda molto articolata e che coinvolge un paio di scandalucci, un ex-segretario di stato USA, una legge della California, una regola NBA, un principio democratico calpestato, un mucchio di soldi e - fedele compagna di viaggio - tanta tanta ma proprio tanta ipocrisia. Let’s go.
Gli scandali
Senza addentrarci troppo in un argomento che meriterebbe un libro intero, dei tanti scandali che hanno travolto la NCAA dalla sua nascita ci interessano quelli accaduti dal settembre 2017, che hanno coinvolto più di 20 squadre di basket di college di Division I, il brand Adidas, parecchie prime scelte degli ultimi Draft e un’accusa in comune: quella di corruzione.
Per capirci, stiamo parlando degli stessi scandali che hanno sconvolto il programma cestistico di un’università blasonata come quella di Louisville e del conseguente licenziamento di uno dei più grandi allenatori di sempre del panorama NCAA, Rick Pitino, esiliato ad allenare il Panathinaikos Atene nel 2018-19 a causa dei fattacci legati all’ultima versione dei suoi Cardinals (non disperatevi: Pitino è poi rientrato dalla porta di servizio a Iona quest’anno).
Il 17 ottobre 2017, nel bel mezzo della tempesta appena scatenata dalle prime, devastanti indagini dell’FBI, la NCAA con le spalle al muro annuncia di aver messo Condoleezza Rice a capo della nuova commissione indipendente incaricata di fare luce su quanto accaduto. L’ex segretario di stato della seconda amministrazione Bush Jr. (2005-2009) commenterà così la presa in carico del delicato ruolo: «Sono qui insieme a questa commissione per aggiustare un sistema che chiaramente non funziona».
https://twitter.com/NCAA/status/918173795936030721
Nonostante pochi minuti dopo il pronto tweet ufficiale della NCAA cerchi di spostare l’attenzione pubblica e delle responsabilità sui cattivoni che dall’esterno cercano di frodare la sacra istituzione universitaria, tutti hanno già capito a cosa si sta riferendo la Rice: ancora una volta sotto la lente inquisitoria è lo sbilanciamento tra l’assenza di compensi dei migliori tra gli studenti-atleti e i ricavi della NCAA.
Perché ci interessa tutto questo, in un’analisi che vorrebbe arrivare al 2020 e alla firma di Jalen Green per la G-League invece che per una rinomata università di Division I? Per un semplice motivo. Ad aprile 2018 sempre Condoleezza Rice, al termine della prima ondata di investigazioni sugli scandali, illustra ufficialmente alcune delle soluzioni caldamente consigliate per porre fine al diffuso sistema di corruzione dei liceali reclutati dai grandi college NCAA. Tra queste la cancellazione della regola “one-and-done”, che lega la NBA alla NCAA, sembra avere la priorità su tutto il resto.
La “one-and-done” rule
Da decenni si discute se questa benedetta non-regola sia giusta o sbagliata. Chiariamo innanzitutto che la NCAA ha poco a che fare con quella che in realtà è un semplice limite di età imposto dalla NBA nel contratto collettivo firmato nel 2005 e che fissa a 19 anni compiuti il criterio minimo per essere considerati selezionabili al Draft. Una regola imposta di fatto per impedire il doppio salto carpiato di diplomati 18enni direttamente dall’high school alla NBA (Kwame Brown potrebbe aver contribuito).
Pur non essendo direttamente coinvolta, la NCAA rimane però il principale parcheggio di lusso per tutte quelle stelle del liceo destinate all’Olimpo cestistico nell’arco di un anno: privilegiata dall’assenza di alternative, il basket collegiale secondo molti è riuscito a chiudere contratti miliardari con le reti televisive americane anche grazie alla certezza del fenomeno degli “one-and-done”, giocatori spettacolari sicuri di essere scelti al Draft una volta diventati 19enni, ma obbligati a trascorrere almeno un anno in un limbo universitario affascinante ma privo di opportunità economiche individuali.
Secondo Condoleezza Rice, abolendo la regola dei 19 anni e riabilitando la possibilità di passare direttamente dal liceo al professionismo, tutto l’apparato corruttivo - legato soprattutto a quelle superstar in the making che al college non vorrebbero nemmeno andare per iniziare a guadagnare subito - subirebbe un brusco arresto, dato che in NCAA andrebbero solo studenti realmente e seriamente interessati a un percorso diverso da quello orientato esclusivamente al far passare i due semestri del primo anno accademico.
Anche se la storia della NCAA ci insegna qualcosa di diverso (gli scandali per corruzione ci sono sempre stati, con o senza la “one-and-done rule”), quanto ipotizzato dall’ex segretario di stato potrebbe essere un primo importante passo per costringere tutto il sistema a voltare pagina.
Uno scenario così convincente da portare addirittura l’attuale commissioner della NBA Adam Silver a sottoporre la cancellazione della regola dei 19 anni al Board of Directors dei proprietari nel maggio del 2019: il consenso non è unanime, con solo metà degli owners delle 30 franchigie disposti a seguire i consigli della Rice entro il 2022, ma le basi per l’abolizione della “one-and-done” in un prossimo futuro diventano improvvisamente molto più solide.
E questa è la prima di tante brutte notizie per la NCAA.
Il G-League “Select Team”
Spronata dagli energici input di un carica politica del livello di Condoleezza Rice, la NBA - sempre molto sensibile a certi equilibri - si è messa subito al lavoro per fornire una valida alternativa alla “one-and-done rule” nel caso i proprietari non fossero riusciti a trovare l’accordo per cancellarla nel prossimo futuro, preparandosi in anticipo ad un’eventuale migrazione di ex liceali nel suo mondo dorato.
Consapevoli che la NBA continua a essere vista da molti liceali come l’unico ed ultimo baluardo per uscire da condizioni economiche sfavorevoli grazie al proprio talento sportivo, Adam Silver e la G-League si sono attivati proponendo come novità all’inizio della stagione 2019-20 un diverso tipo di contratto per i liceali interessati ad entrare nella squadra nella lega di sviluppo.
La soluzione a tutti i mali avrebbe dovuto essere il “Select Contract”, un particolare tipo di accordo economico dedicato proprio a quegli ex-liceali desiderosi di mettersi subito in gioco contro professionisti adulti, iniziando contestualmente ad intascare discrete cifre in attesa del Draft, fino a un massimo di 125mila dollari nella prima stagione in G-League post-liceo.
Purtroppo per le due leghe-partner, questo tipo di contratto non incontra mai i favori delle folle: vuoi per la cifra considerata forse troppo bassa (il che la dice lunga ancora una volta sull’entità della circolazione di denaro sottobanco in NCAA…), vuoi perché i destinatari di tale contratto durante l’anno non avrebbero potuto aspirare a una “NBA call up” (una chiamata da parte della franchigia NBA affiliata), il “Select Contract”nel 2019-20 non viene attivato per nessuno.
Peggio ancora: giocatori di riferimento in uscita dal liceo e allergici alle regole NCAA come LaMelo Ball e RJ Hampton, piuttosto che giocare in G-League con il “Select Contract” preferiscono andarsene addirittura dall’altra parte del globo per giocare nel campionato australiano. Non un bel segnale.
Una sconfitta fragorosa per i propositi di Silver con gli occhi di Condoleezza addosso che ha portato a un cambiamento dei programmi di NBA e G-League per la stagione successiva, la 2020-2021.
Non più un “Select Contract” a 125.000 annui, ma un intero “Select Team” con base a Los Angeles (sede favorita per accoglierli: la Mamba Sports Academy) indipendente da qualsiasi franchigia NBA o di G-League, capace di offrire dai 125.000 ai 500.000 dollari a tutti i liceali d’élite ansiosi di capitalizzare da subito il loro talento, giocando nel frattempo con professionisti e veterani per preparare così al meglio il loro ingresso in NBA nella stagione successiva.
Una scossa di terremoto che, come prevedibile, ha fatto rizzare i peli ai vecchi marpioni della NCAA, facendo scattare negli uffici di Indianapolis un allarme angosciante quanto quello della centrale nucleare di Homer Simpson.
La prossima fermata di Jalen Green sarà la G-League?
La NCAA diventa improvvisamente democratica!
Quasi contemporaneamente a questi eventi epocali per una realtà relativamente nuova come la G-League, il Governatore dello stato della California Gavin Newsom ha assestato un altro bel colpo all’Impero Galattico NCAA comandato dall’imperatore Mark Emmert: il 30 settembre 2019 ha firmato infatti una nuova legge statale intitolata “The Fair Pay for Play Act” che autorizza gli studenti-atleti di tutte le università californiane a firmare contratti e ad avviare business incentrati sullo sfruttamento del loro nome e della loro immagine.
Considerando che la gerarchia delle fonti dell’istituto giuridico americano vede le leggi statali “vincere” su quelle di un’organizzazione “non-profit” come la NCAA, il danno democratico è bello che fatto: se gli studenti-atleti della California possono iniziare a lucrare sui loro nomi e diventare influencer pagati dalle piattaforme social come i loro pari-età non-atleti delle stesse università, allora anche tutti gli studenti-atleti degli altri 49 stati dovrebbero essere autorizzati a farlo.
Apriti cielo.
Dopo quasi un secolo di totale e dittatoriale controllo, la NCAA nel giro di un paio d’anni si trova così costretta per la prima volta a guardare in faccia la dura realtà. La neonata legge californiana, l’apertura delle indagini sugli scandali con a capo Condoleezza Rice, le minacce del “Select Team” della G-League e quella di vedere la “one-and-done” scomparire - e con esse molte delle stelle liceali non intenzionate a passare più di un anno al college - pongono la NCAA di fronte a un inedito, inevitabile, inatteso bivio.
Consapevole di non poter rinunciare per nessuna ragione al mondo allo status amatoriale dello studente-atleta, e quindi incapace di autorizzare contratti interni di tipo professionistico, la gargantuesca organizzazione decide all’improvviso che la Democrazia è l’unica cosa che conta. Dato che gli studenti-atleti, per il noto principio di equità della stessa NCAA, devono avere tutti le stesse opportunità, è giusto che le abbiano anche in relazione agli studenti-non atleti, ovvero i normali universitari a cui nessuna legge ha mai vietato qualsiasi azione di tipo economico/finanziaria che coinvolgesse il loro cognome.
“Fino ad oggi” ci dicono quelli della NCAA “abbiamo scherzato, non facevamo sul serio, sembra solo a voi che la democrazia ce la siamo dimenticata per quasi un secolo!”: dato che quelli della California hanno fatto i liberali, allora da oggi liberi tutti. Così de botto, senza senso.
Citazioni di Boris a parte, la NCAA, vista la mal parata e una probabilissima class-action pronta a partire degli studenti-atleti di tutti gli altri stati, in preda al panico a fine 2019 ha iniziato ad organizzare i primi incontri con le conference universitarie e i rappresentanti delle varie parti in causa per parlare seriamente di “name, image and likeness” (NIL l’acronimo nel loro gergo). Dalle prime indiscrezioni sembra molto probabile che la prima legge ufficiale possa essere ratificata già prima della stagione 2021-22.
Uno scatto culturale impressionante e una mossa virtuosa scatenata al solito dai motivi più sbagliati: ironico che anche nell’agire più corretto ed intelligente, l’incoerenza e l’ipocrisia emergano senza alcun pudore. O forse pensano che ci siamo dimenticati della primissima reazione ufficiale alla legge californiana, ovvero minacciare di escludere dalla NCAA tutti i college dello stato - UCLA, USC e Stanford comprese?
Ad ogni modo, così facendo è facile aspettarsi il puntuale ritorno di un monopolio-NCAA su un mercato che stava diventando sempre più popolato di concorrenti. Elargire (come fosse un favore del sovrano ai sudditi, naturalmente) la possibilità agli studenti-atleti di firmare contratti con marchi privati o di sponsorizzare sui loro seguitissimi account Instagram prodotti e business personali è la via più sicura per tornare entro un paio d’anni ad avere di nuovo tutti i più grandi prospetti in uscita dall’high school, ripristinando l’Ordine e il Controllo che qualche impavido aveva cercato di mettere ingenuamente in discussione.
Scenari futuri: cosa succederà?
In realtà, a ben guardare, non ci è sembrato che la NCAA sia mai stata in grande pericolo.
Anche se nel 2025, quando la NBA discuterà il prossimo contratto collettivo (COVID permettendo), la regola dei 19 anni dovesse essere cancellata riaprendo la strada diretta dall’high school al professionismo, le opzioni a disposizione dei tanti ex liceali di valore rimarrebbero comunque solo due.
Difficile infatti immaginare che la G-League possa ripetere il colpo grosso di quest’anno: i pionieri Green, Todd e Nix non hanno la minima idea di quello che li aspetta, e neppure noi dato che il sito ufficiale della lega di sviluppo continua a rimandare questi “dettagli in arrivo”. Il grande dubbio riguarda il livello del roster del “Select Team”, quello degli avversari che andrà ad affrontare e quello del valore delle singole partite, dato che si tratterà solo di amichevoli contro altre squadre di G-League o contro altre rappresentative giovanili e alcune Academy (quindi il “Select Team” non dovrebbe partecipare al campionato, ma è una questione ancora aperta).
Per capire meglio il panorama globale, il livello delle varie alternative per un giocatore molto forte in uscita dal liceo e avere un’idea su quali potranno orientarsi in futuro abbiamo chiesto un’opinione a Marco De Benedetto, direttore sportivo della squadra di Serie A di Trieste ed esperto di basket internazionale da anni, con contatti sia in Europa che in G-League, territorio privilegiato di caccia per i club europei.
«Da qualsiasi punto di vista si guardi questa nuova situazione» dice De Benedetto, «un LaMelo Ball o un Jalen Green non avrebbero potuto trovare nulla di meglio della solita, vecchia NCAA come scuola di formazione per il loro unico anno pre-NBA. Ball invece, inimicatosi la NCAA, ha scelto la NBL e l’Australia. Un po’ per gli 80.000 dollari, un po’ perché lo stile di vita e la lingua erano simili agli States e un po’ perché, nonostante ci fosse meno talento, giocare contro gli adulti aiuta sempre. Ma il livello è complessivamente molto simile a quello della G-League, con l’aggravante che la pallacanestro giocata è molto meno “da Nba” e ci sono molti meno scout ad osservare. La Cina invece non sarà mai presa in considerazione: troppo il gap tra americani e autoctoni».
«Certo» continua, «l’Europa e soprattutto l’Eurolega potrebbero essere banchi di prova ben più qualitativi, ma ormai non ci sono più squadre di alto profilo disposte a investire su un rookie 18enne disposto a rimanere solo un anno. Al massimo qualche club che partecipa a coppe minori, capace di lasciargli quei 15-20 minuti a briglie sciolte classici di situazioni così, ma non sarebbe comunque la stessa cosa. Per questo, alla fine, la NCAA avrà sempre la meglio. Senza considerare che tutto il contorno delle arene da 20.000 posti e il giocare per vincere qualcosa che veramente conti sono valori aggiunti inestimabili di cui ogni buon scout tiene sempre conto in sede di Draft».
https://twitter.com/ShamsCharania/status/1259833152803127296
Pochi giorni fa anche Kai Sotto, un intrigante prospetto filippino, ha deciso di firmare per il Select Team.
Inoltre, aggiungiamo noi, la copertura mediatica per tutto ciò non targato “NCAA” sarebbe molto più bassa, con pochissimi passaggi sulle tv nazionali e un supporto a livello di macchina di marketing molto inferiore a quello del college basketball. Parliamoci chiaro: quanti di noi sarebbero disposti a guardare per puro piacere le amichevoli del “Select Team” o le partite della G-League con in palio il nulla o quasi?
Ecco quindi delinearsi all’orizzonte un panorama non molto differente da quello cui eravamo abituati fino allo scorso anno, con la NCAA a dettare nuovamente legge e con gli ex liceali nuovamente attirati dai programmi cestistici universitari dopo l’introduzione dello sfruttamento dei diritti d’immagine, ovverosia un contesto molto più meritocratico.
Alle rivali rimarranno dunque poche cartucce da sparare: la G-League ha già annunciato l’intenzione (al vaglio) di voler ampliare nel prossimo biennio il numero di “Select Team”, creando una division ad hoc dove queste 5-6 squadre composte per la maggiore da prospetti liceali giocherebbero una contro l’altra. Ma quanto può essere formativa un’esperienza dove il risultato finale non conta e gli avversari sono altri adolescenti come te? Quanto entusiasmo potrebbe sollevare nelle franchigie NBA in vista del Draft?
Alla fine probabilmente questo - costoso - esperimento di NBA e G-League per mettere in discussione la dittatura della NCAA potrebbe benissimo essere ricordato solo come un tentativo estemporaneo dai risvolti politici, con il solo merito di aver contribuito a creare un’alternativa economica credibile ai futuri ex-liceali di secondo livello, mettendo un po’ più alle strette l’ipocrisia del college basketball.
A meno che Jalen Green, Isiah Todd e Daishen Nix non diventino tre delle prime cinque scelte del Draft 2021, innescando un primo, simbolico precedente: allora lì sì che la NCAA potrebbe veramente iniziare a tremare.