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Atlético Nacional
L’esatta congiuntura astrale?
di Stefano Borghi
Cosa accomuna Paul Weller e l'Atletico Nacional di Medellin? Assolutamente niente all'apparenza: uno è il “Modfather”, l'icona più fulgida del movimento Mods e di un certo stile british; l'altro un club colombiano che 21 anni (e diverse vicissitudini) dopo l'ultima volta, è nuovamente vicino a una finale di Libertadores. Eppure una cosa in comune c'è: entrambi cantano “It's written in the stars”.
È scritto nelle stelle, almeno così dicono in Colombia, terra dove gli auspici sono spesso più importanti della ragione: chiedete, ad esempio, a Rincón del suo Mondiale '94. Ma stavolta l'auspicio è positivo. Dice qualcuno, in Colombia, che in questo tempo si verifica una congiuntura astrale alla quale non si assisteva dal 2004, quando l'Independiente Medellín vinse l'Apertura (come quest'anno), quando in una sola estate si celebrarono Europei e Copa América (come quest'anno), quando la Colombia uscì in semifinale nel torneo continentale (come è successo negli Stati Uniti) e quando una squadra colombiana vinse la Copa Libertadores, l'indimenticabile Once Caldas di Henao.
L’ultima squadra colombiana campione in Libertadores. Dodici anni fa.
Quella fu una sorpresa che non si aspettava nessuno. Questo Atlético Nacional invece è parecchio diverso, perché se dovesse riuscire a mettere le mani sulla Copa sarebbe tutt'altro che una cosa inaspettata, anzi sarebbe esattamente quello che a Medellin ripetono dall'inizio del 2016.
Una baldanza frutto non dell'arroganza ma della convinzione, che poi è il punto di partenza del lavoro di Reinaldo Rueda, oltre che un sentimento supportato dai risultati e dai numeri. Numeri che nel calcio sono paradossalmente un qualcosa di discutibile, che servono a costruire un prisma all'interno del quale si può cercare un'immagine della realtà, anche se capita (e neanche tanto di rado) che possa differire da quanto gli occhi ci comunicano.
Non c'è però soddisfazione più grande di quella che si prova quando numeri e pupille ci dicono la stessa cosa.
Quando Reinaldo Rueda ha raccolto la ricca eredità di Osorio, il suo obiettivo era molto chiaro: vincere. Lo voleva il club, all'inseguimento della quindicesima stella nazionale e di quella gloria continentale solo sfiorata nella Sudamericana 2014. Lo voleva anche e soprattutto lui, dopo una carriera da costruttore di miracoli in giro per il continente, che gli sono valsi tanta stima, tanti complimenti ma zero ori. La ricetta è stata quella classica del calcio sudamericano: per vincere devi tendenzialmente avere il pallone il più possibile, avere i modi e gli elementi per concretizzare, e saper “picchiare” per salvarti la pelle.
L’azione che ha portato al 3-1 contro il Rosario Central. Un compendio di superiorità nel possesso, creatività nelle soluzioni offensive, predisposizione alla «pelea».
L'Atlético Nacional è indubbiamente una squadra di grande possesso. Nelle undici partite fin qui giocate nella Copa Libertadores 2016 solo una volta non ha avuto la supremazia nella percentuale di possesso palla, curiosamente la strana vittoria per 1-0 in casa dello Sporting Cristal nella fase a gironi. Per il resto, la squadra di Rueda ha fatto la partita ovunque e contro chiunque, nel senso che il secondo peggior dato della campagna è il 55,1% di possesso (i dati sono Opta) fatto registrare una settimana fa al Morumbì (vittoria 2-0). Questo dimostra il grande grado di sicurezza raggiunto da un gruppo mediamente piuttosto giovane, però con già un palmares ricco (Sebástian Pérez a 23 anni ha già conquistato nove trofei in maglia biancoverde) e di conseguenza sia l'esperienza che la mentalità per arrivare fino in fondo. Infatti, questa formazione ha avuto la miglior percentuale di possesso anche su campi come quelli di Peñarol, Huracán, Rosario Central e San Paolo: non una cosa da poco.
In più, le statistiche ci mostrano chiaramente che il palleggio dell'Atlético Nacional, oltre che continuo, ha anche parecchia qualità: i Verdolagas non sono mai stati sotto al 76% di passaggi realizzati, dato riferito all'unica sconfitta subita in questo cammino, lo 0-1 del Gigante de Arroyito dove probabilmente ci poteva stare un passivo anche più largo. Per il resto sono andati sette volte su undici sopra l'80%, e nelle cinque partite casalinghe la media è superiore all'85%. Riscontri elevatissimi, che premiano soprattutto il lavoro tecnico fatto da Rueda.
L’azione del gol di Guerra agli ottavi, contro l’Huracán, con gli argentini a difesa schierata, illustra bene la supremazia tecnica dei colombiani.
Tutti possono partecipare alla costruzione dell'azione, in primis i difensori visto che i piedi dei centrali Sánchez ed Henríquez sono decisamente affidabili e che i due terzini (Bocanegra e Díaz) non disdegnano di posizionarsi sulla linea dei mediani, in posizione più o meno esterna a seconda delle contingenze. Il lavoro di raccordo fra chi comincia l'azione e chi la deve finalizzare lo fanno i due mediani, con Mejia che è più smistatore (il suo ruolo principale rimane comunque quello di interdizione) e Sebástian Pérez che può far tutto. Il 23enne nazionale colombiano ha fatto vedere di saper rompere il gioco, di poterlo costruire e soprattutto di avere un grande olfatto per gli inserimenti: un po' un Khedira in piccolo, se vi piacciono i paragoni (a me no). Un fatto da non trascurare, piuttosto, è il chiaro calo di Pérez da un mese abbondante a questa parte, avvertito anche in Copa América: per i sogni di gloria della Medellin biancoverde, sarebbe molto importante ritrovarlo al top del livello.
A proposito di Copa América e di top del livello, Rueda ha parimenti ricevuto indietro dagli USA un giocatore che già prima era un fattore molto importante e ora minaccia di esserlo ancor di più: il Lobo Guerra, misterioso acciacco al ginocchio a parte, ha raggiunto uno stato di consapevolezza dei propri mezzi totale, il che lo porta ad abbinare continuità e convinzione ad un tasso di incisività (tecnica, strategica e agonistica) molto molto alto. C'è addirittura il rammarico per non avergli visto fare il salto sul trampolino prima, però ora è il suo momento.
Come può essere quello di Macnelly Torres: il Mac visto a San Paolo pare essere in uno di quei periodi di forma in cui l'ispirazione non ha limiti, così some la capacità di concretizzare il pensiero. Se dura altre tre settimane può essere il detonatore finale. Altrimenti bisognerà cambiare qualcosa e sarebbe un rischio, perché Copete e Ibarbo non ci sono più, quindi rimane il solo Ibarguen.
Che non è comunque poca cosa.
Forse sarebbe anche un peccato, perché il modo di attaccare visto al Morumbì (e non solo) piace molto. Marlos Moreno continua a fare passi avanti: ora, oltre che un razzo innescato per perforare sia su piste convergenti che andando sui binari della fascia, sta diventando anche un uomo squadra, che ripiega, che ha astuzia tattica e che sbaglia veramente poco. In ogni zona del campo. Il count-down verso il suo decollo è sempre più vicino allo zero. In più, l'ennesimo tappo lo ha fatto saltare Miguel Borja, che non appena si è messo la maglia biancoverde ha calato una doppietta storica. È arrivato perché era l'unica cosa che poteva mancare, ovvero un centravanti vero che si potesse sobbarcare sia il lavoro fisico necessario per stare a galla in certi contesti, sia i gol che possono – in dieci minuti – scrivere o riscrivere una storia. Il suo sbarco nel gruppo di Rueda ricorda tremendamente quello del quale fu protagonista un anno fa Alario al River Plate: fondamentalmente una scommessa, perché è vero che Borja veniva da un semestre da 19 gol in 21 partite con il Cortuluà, però erano ancora tantissimi i dubbi lasciati dalle sue precedenti parentesi al Livorno e al Santa Fé. L'anno scorso Gallardo vincendo quest'azzardo ha vinto anche la Copa. Rueda potrebbe essere sulla buona strada.
Esordi sfavillanti.
Giocare bene e concretizzare sono due capisaldi di una campagna vincente. Poi però ci vogliono anche los huevos per buttare fuori gli altri, specialmente quando ci si gioca il trono del Sudamerica. Anche in questo caso, numeri e occhi vanno a braccetto: l'Atlético Nacional in questa edizione della Libertadores ha una media di 15,5 falli fatti per partita. Per darvi un'idea dell'intensità e della ferocia che questo dato comunica, sappiate che l'Atlético Madrid ha chiuso l'ultima Champions League facendone di media 12.
Last but not least (per niente least) è da citare il portiere Franco Armani, figura sicura di questa Libertadores: non solo l'imbattibilità nelle prime sette partite, non solo la porta chiusa in otto gare su undici, ma anche – forse soprattutto – quella tripla parata a Rosario che rimane nella storia.
Insomma, i riscontri sono tanti e trovano d'accordo i due grandi strumenti che l'analisi calcistica contempla. In più, pare che ci siano anche le stelle dalla parte del Nacional.
Quand'è così, specialmente in Sudamerica, il vento del destino gonfia volentieri le tue vele.
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São Paulo
L’occasione sprecata
di Andrea Bracco (@Falso_Nueve_IT)
Per riassumere la Copa Libertadores del São Paulo basta prendere il ritornello di una hit italiana di inizio secolo e traslarla in questo preciso momento storico del club. “Ciò che poteva essere ma non è stato”, diceva la canzone: mai frase fu più azzeccata. Arrivare ad un passo dall'obiettivo, per poi – al 99% - farselo sfuggire è prerogativa strettamente affine ai brasiliani, che dopo la sconfitta in casa della settimana scorsa hanno praticamente salutato la possibilità di qualificarsi per la finale.
La semifinale di andata: il cacciatore (Atlético Nacional) stana con pazienza la preda (São Paulo), per poi colpirla nel finale senza pietà.
La caduta casalinga fragorosa di sette giorni fa, in un Morumbí tirato a lucido per l'occasione, ha praticamente tolto ogni speranza alla squadra di Edgardo Bauza, che ha dimostrato come nonostante i tanti proclami di inizio stagione per competere con le grandi del Sudamerica le manchi ancora qualcosa. Eppure la stagione era iniziata bene, proprio con l'arrivo del tecnico argentino che avrebbe dovuto far compiere al club quell'ulteriore step verso l'alto che da tempo ci si aspettava. El Patón la Libertadores l'aveva già alzata due volte in passato, alla guida di LDU Quito e San Lorenzo, e con il suo ingaggio la strada verso la maturità internazionale sembrava segnata: invece no. Perché se è vero che il Tricolór è tornato a giocarsi una semifinale cinque anni dopo l'ultima volta, è altrettanto giusto sottolineare come – per la decima stagione di fila – la finale di Libertadores molto probabilmente non verrà centrata. Il che, per una società ambiziosa con il São Paulo, è un affronto inaccettabile.
Il Tricolór è uscito ridimensionato, per non dire ridicolizzato, dalla gara di andata persa 2-0 contro l'Atlético Nacional: in campo sembravano esserci due compagini di livello completamente diverso, con i “verdolagas” bravissimi – dopo un primo tempo di calma e studio – a giocare al gatto col topo nella ripresa. I colombiani, ormai vera realtà di vertice in Sudamerica, hanno dato l'impressione di poter colpire a loro piacimento, e così è stato grazie alla doppietta di Miguelíto Borja, nella quale si sono palesati tutti i limiti del difensivi del São Paulo.
Nonostante la parità numerica, la difesa brasiliana ha mostrato incertezze come questa.
Uno dei problemi che attanagliano da inizio anno Bauza è proprio la fase difensiva. In questo mesi il São Paulo ha perso partite incredibili, non solo nel Brasileirão, ma anche nel proprio campionato statale, contro squadre che militano nella seconda, o addirittura terza serie brasiliana. Contro l'Atlético Nacional lo 0-0 si è protratto fino all'episodio dell'espulsione di Maicon, ingenuo nel lasciare i compagni in dieci, ma nei precedenti settanta minuti tutto ciò che il São Paulo aveva fatto vedere erano un paio di innocui tiri da fuori area. Il gol dello svantaggio fotografa perfettamente i meccanismi per nulla oliati del pacchetto arretrato brasiliano, che va in confusione in maniera ingenua concedendo un facile rimorchio verso Borja. L'ex giocatore del Livorno, da due passi, non può sbagliare.
La facilità con la quale l’Atlético Nacional va a rete. Nonostante l’inferiorità numerica, il São Paulo prende gol a difesa schierata.
Si sente anche l'assenza di un vero leader. Eccome se si sente. Dopo l'addio di Rogerio Ceni la società ha provato a portare al Morumbí un’altra figura di “jerarquia”, individuandola in Diego Lugano. Il difensore uruguagio, però, ha confermato i tanti interrogativi sollevati al momento del suo arrivo, riguardanti soprattutto età e condizioni fisiche. Lugano, dopo alcune settimane di sosta ai box, è entrato in squadra durante il Paulistão con qualche presenza consecutiva, ma sul più bello (cioè adesso) è stato relegato in panchina da Bauza a causa del riacutizzarsi di vecchi problemi a ginocchia e caviglie. Maicon ha così ricevuto l’investitura di leader difensivo, senza la capacità di reggerne la pressione, e la poca sicurezza ha travolto dal punto di vista psicologico anche il giovane Rodrigo Caio (obiettivo di mercato della Lazio). L’espulsione di Maicon contro l’Atlético Nacional è stata la svolta che consegnato la partita nelle mani dei colombiani.
Sliding door della partita: Maicon, con questo fallo di reazione, dà il colpo di grazia alla squadra.
Che il São Paulo avesse dei limiti difensivi grossi si sapeva da tempo. Ciò che nessuno si sarebbe aspettato, invece, era una squadra Ganso-dipendente. E se vi state chiedendo se si parla di “quel” Ganso, che di nome fa Paulo Henrique ed è soprannominato “l’Oca”, be', è proprio lui.
Dopo essere sparito dai radar degli osservatori, quest’anno è rinato lasciandosi alle spalle vari infortuni, e dopo un inizio balbettante Ganso è diventato il centro del progetto tecnico del São Paulo. Con lui in campo il Tricolór ha dimostrato di essere tutt’altra compagine rispetto a quella timida ed impaurita vista mercoledì scorso. Per lui, classe 1989, vale lo stesso discorso riferito al ritornello di cui prima; sarebbe potuto essere un giocatore totale, ma dopo decine di stop a causa di vari problemi fisici, sembrava aver smarrito la strada.
Una strada ritrovata sotto la guida Bauza, che lo ha restituito al suo ruolo naturale da trequartista, fino ad aiutarlo a tornare in Nazionale. Negli Stati Uniti sarebbe dovuto esserci anche lui, ma (indovinate un po’?) un altro infortunio lo ha fermato.
La qualità di Ganso: è mancata tantissimo al São Paulo.
Nella partita di andata, i paulisti sono stati privi di imprevedibilità e senza Ganso è mancato il giocatore capace dell’ultimo passaggio, quello che ha messo davanti alla porta Calleri più volte negli ultimi mesi. Il suo pregio è proprio questo, ovvero avere dei tempi di gioco perfetti pur non essendo un fulmine dal punto di vista dinamico. È notizia di questi giorni che Jorge Sampaoli lo vorrebbe per il suo Siviglia, e la trattativa è in fase avanzata, tanto che a Medellín il Tricolór sarà ancora privo del suo giocatore più rappresentativo.
Con l’assenza di Ganso ad organizzare i tempi di gioco, l’Atlético Nacional ha potuto impostare una partita attendista in avvio, per poi colpire al momento giusto grazie all’ottima capacità di gestione palla dei suoi tanti palleggiatori di centrocampo. Il tutto, mentre i ragazzi di Bauza hanno provato a buttarla sul dinamismo: Wesley, João Schmidt, Thiago Mendes e (il deludente) Ytalo non sono però mai riusciti a venire a capo delle varie situazioni di gioco, tanto che di occasioni se ne sono contate davvero poche.
River Plate - São Paulo: la partita perfetta di Ganso. Spoiler: il video contiene alti contenuti tecnici.
Cosa rimane, dunque, al São Paulo? Sul piano caratteriale la partita di Medellín è la loro ultima spiaggia, per questo Bauza schiererà con due punte (Calleri, fino ad ora assente dalle partite che contano, e Alan Kardec) abbandonando il modulo che prevede una mezza punta (nessuno in rosa ha le caratteristiche per sostituire adeguatamente Ganso), provando ad allargare il gioco e a sfruttare il dinamismo dei vari Bastos, Wesley e Kelvin.
Dal punto di vista motivazionale, il Tricolór deve almeno provare a dare un segnale, anche per quanto riguarda ciò che potrà essere il prosieguo stagionale. Per adesso Bauza ed i suoi non possono ancora competere per arrivare fino in fondo, ma se la società dovesse dare continuità al progetto (cosa che, per adesso, non sta avvenendo viste le imminenti cessioni di Ganso e Calleri), allora ecco che il tecnico argentino può diventare un valore aggiunto.
E quel “ciò che poteva essere” diventerà un più confortante “ciò che sarà”.
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Boca Juniors
Investiti dal peso della Storia
di Giulio Di Cienzo (@AguanteFutbol)
Parlare del Boca, di questo Boca, significa partire da un presupposto fondamentale e inalienabile: il Boca deve vincere. Dovrebbe farlo sempre, ci si aspetta che in particolare lo faccia in questa Copa Libertadores. Non è solo una questione di storia, palmares e prestigio, ma soprattutto di rosa, specie quella messa in mano quest’anno a un monumento come Guillermo Barros Schelotto. In più, parlando dell’edizione 2016 della Copa Libertadores, c’è anche una motivazione extra: la necessità di rilanciare l’immagine del club, e forse più in generale dell’intero movimento calcistico argentino.
Partendo dal principio, non si può ignorare il peso della storia. Il palmares del Boca parla chiarissimo: 18 trofei internazionali con 6 Libertadores – di cui 4 vinte con Guillermo Barros Schelotto in campo da giocatore. Gli Xenéizes hanno un rapporto speciale con la massima competizione sudamericana per club e puntano a pareggiare il record di sette vittorie dell’Independiente per diventare ex aequo Rey de Copas, nel caso ci fossero ancora dubbi sulla grandezza del club di Buenos Aires.
È pur vero, però, che l’ultimo successo risale al 2007 e forse è il caso di smettere di sprecare occasioni, specie dal momento che l’ultima Copa se l’è messa in bacheca il rivale più odiato, il River Plate.
A proposito di occasioni sprecate: finale 2012 contro il Corinthians. Alla Bombonera finì 1-1. Il ritorno, al Pacaembù, regalo al Corinthians la prima vittoria nella Libertadores. Dagli highlights si nota come il primo tiro in porta del Boca arriva intorno al 60’, nel mezzo della doppietta di Emerson. Nella prima rete c’è un assist di tacco sontuoso di Danilo. Nella seconda Emerson sembra correre il triplo della difensa xenéize.
La storia però non scende in campo. Il motivo principale per cui il club azul y oro si trova addosso tutte le pressioni, infatti, è legato alla rosa di cui dispone: da circa due anni, vale a dire appena prima del ritorno per nulla casuale di Tévez dalla sua quasi decennale esperienza europea, il Boca è passato da classica squadra argentina che punta a sviluppare talenti a club impegnato a rastrellare stelle, pur se a livello locale.
Orión, el Cata Díaz, Gago – quando è sano -, Pablo Pérez, Lodeiro, Tévez sono la spina dorsale della formazione, e di gran lunga il roster di giocatori con più talento in tutta la Libertadores. Nomi noti, che per di più giocano insieme da tempo, hanno personalità, sono esperti, tecnici, fisici e si trovano attorno giovani di prospettiva come Pavón, Jonathan Silva, Cubas, Bentancur. Un mix di livello assoluto, ancora di più se paragonato al contesto, che permette a Schelotto di disporre di una rosa ampia, con qualità diffusa e pochissime lacune.
E Schelotto stesso è un ulteriore punto di forza del Boca: el Mellizo è stato chiamato come sostituto di Arruabarrena principalmente per il suo carisma, per la sua autorevolezza boquense - visti i 16 trofei vinti col Boca - e poi anche per portare un’idea di calcio collettiva e di qualità. In questa ultima sessione di mercato, oltretutto, è arrivato dall’América di Città del Messico anche Dario Benedetto, attaccante con gran tecnica, di movimento e cultura del lavoro. Schelotto l’ha voluto per non lasciare tutto il peso dell’attacco sulle spalle di Carlitos Tevez, che non gradisce fino in fondo il ruolo di 9 puro, rinforzando ulteriormente una formazione già superiore alle avversarie.
Le reti di Benedetto al Tijuana sono l’espressione del sentimento comune per la parola Tijuana.
In un continente in cui il mercato di solito toglie anche alle big i giocatori più pronti – senza farsi scrupoli a depauperarle anche a competizione in corso - la presenza di una rosa così quadrata non può che fare degli xenéizes i favoriti assoluti in questa Copa. Nell’ultimo semestre per di più il Boca ha praticamente ignorato il campionato, nella sua ennesima forma di transizione, dedicandosi mentalmente solo agli impegni internazionali.
Resta da affrontare la questione del rilancio. Il Boca, come detto, non è diventato uno squadrone all’improvviso; anzi, ad essere precisi era tra le favorite per la vittoria della Copa già lo scorso anno. Però dopo aver dominato i gironi, chiudendo come miglior prima, gli ottavi le hanno regalato un sorteggio beffardo: la peggior terza, una squadra che in teoria doveva rivelarsi ampiamente abbordabile, che per una serie di curiosi incastri del destino si è rivelata invece essere il River Plate.
Quel Superclásico, nomi a parte, sembrava comunque aver abbastanza poco da dire, con i Millionarios in grossa difficoltà e gli Xenéizes favoriti: superfluo sottolineare come i derby non andrebbero mai sottovalutati, soprattutto in Sudamerica. L’andata al Monumental ha visto vincere gli uomini di Gallardo per 1-0 in una gara ovviamente molto dura e tatticamente altrettanto bloccata; il ritorno alla Bombonera è stato ugualmente difficile, giocato sulle vibrazioni delle corde del nervosismo, fin quando a fine primo tempo, sullo 0-0, la partita è stata interrotta perché nel tunnel dello stadio, in un ambiente chiaramente caldissimo, mentre i giocatori tornavano negli spogliatoi, è stato lanciato del gas urticante in una situazione poco chiara con polizia e ultras violenti di mezzo. L’unica certezza è che alcuni giocatori del River erano impossibilitati a proseguire il match. Dopo giorni di consultazioni tra dirigenti, al Boca è stata assegnata la sconfitta a tavolino, con tanto di squalifica del campo nell’edizione 2016.
Una macchia seria sulla reputazione di una squadra tanto gloriosa, che ha compromesso per di più una fase a eliminazione che poteva portare la formazione ai tempi allenata da Arruabarrena molto avanti. Invece ad andare avanti è stato il River, arrivando a una vittoria tanto inaspettata quanto storica. Oltre al danno, insomma è arrivata la beffa, immortalata immediatamente da un coro come d’abitudine sudamericana.
Chi non sal-ta si è ri-tirato.
In questa Copa, Il Boca è andato bene pur senza strabiliare: nei gironi si è imposta tra le migliori prime, superando poi Cerro Porteño e Nacional di Montevideo nei primi due turni della fase ad eliminazione, e proprio quando ci si aspettava il replay del derby col River in semifinale, l’Independiente del Valle ha rovinato la festa eliminando i millionarios con una vittoria netta nell’altura di Quito (grazie anche ai miracoli del portiere Azcona a Buenos Aires).
Sembrava tutto facile per il Boca, il cammino si era messo in discesa: in semifinale avrebbe dovuto affrontare una squadra senza esperienza – non solo in Libertadores, ma ad ogni livello visto che è stata fondata nel 1958 e praticamente rifondata nel 2014, con cambio di nome, maglia e stemma – senza giocatori noti, arrivata a questo punto, apparentemente, per caso. Ovviamente non è andata così, altrimenti mica saremmo in Sudamerica. L’andata, all’Estadio Olimpico Atahulpa, ha visto l’Independiente imporsi per 2-1, e al Boca è andata pure bene.
L’altitudine non fa sconti a nessuno, e gli uomini di Schelotto si sono trovati molto più in difficoltà di quanto si aspettassero, con le gambe bloccate ed incapaci di recuperare fiato nascondendo il pallone. Il ritorno a Buenos Aires sarà una prova di maturità per questo gruppo: tutti, Schelotto in testa, dovranno dimostrare che dietro ai nomi, al blasone, al richiamo della storia, c’è qualcosa di più, ciò che davvero serve: vale a dire, un’anima da Libertadores.
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Independiente del Valle
Quello strano allineamento dei pianeti
di Fabrizio Gabrielli (@conversedijulio)
L’estate calcistica del 2016 ci sta confermando che quest’anno i pianeti sono allineati secondo una luna del tutto particolare: anche se la retorica del Leicester di X si è un po’ affievolita di fronte alla proliferazione di sorprese, il geyser sound ci sembra esistere da sempre e non ci pare poi così straordinario che l’Europeo l’abbia vinto un Portogallo incapace di andare oltre il risultato di pareggio nei tempi regolamentari in cinque partite su sei.
Confesso che a questo punto non saprei più bene in quale segmento narrativo dovrei posizionare la favola dell’Independiente del Valle. La Copa Libertadores è una competizione nella quale i dark horses, più che altrove, non sono poi così dark: è una malia che la Copa porta connaturata in sé quella della drammaticità degli eventi, e del realismo magico.
Negli ultimi dieci anni, per quanto la supremazia improntata sull’asse Brasile-Argentina sia evidente, ci sono state finaliste paraguayane (Olimpia e Nacional, per due edizioni consecutive e nel pieno della depressione del calcio guaraní), messicane, addirittura una vincitrice ecuadoreña, la LDU di Quito.
L’IdV ha iniziato il suo lungo ed eroico cammino in Libertadores partendo dal turno impropriamente detto «di ripescaggio» (peraltro al pari dell’altra semifinalista São Paulo): contro il Guaraní è bastato segnare questo gol per strappare il passaggio. Rizotto pesca in verticale Angulo: stop educatissimo e duckface di stupore.
Così come i loro connazionali della LDU otto anni fa, l’Independiente del Valle ha lastricato buona parte del suo cammino fino alla semifinale - e un pezzettino in più, che coincide con la sfida d’andata contro il Boca - in casa: l’altitudine è sempre una complice affidabile, e Pablo Von Clausewitz Repetto non si è mai vergognato di farsi spalleggiare dall’ipsografia. All’Olimpico Atahualpa i Rayados hanno vinto, in maniera un po’ scontata eppure sempre attuale, cinque partite su sei, rischiando poi di compromettere quanto di buono fatto sugli altipiani nelle gare di ritorno: le condizioni geografiche creano un momentum che il gioco dell’IdV da solo non sa modellare (hanno un tasso di conversione raccapricciante per una squadra che ambisce alla finale di Libertadores, del 10%), e fuori dal loro contesto naturale i calciatori ecuadoregni sembrano combattenti inca armati di cerbottane alle prese con gli archibugi dei conquistadores (contro il River, al Monumental, hanno subito 37 tiri nello specchio della porta, una specie di bombardamento a tappeto).
Anche la LDU, nella finale 2008, dopo essersi imposta per 4-2 in Ecuador si fece rimontare dalla Fluminense e strappò il titolo solo ai calci di rigore - una dinamica che ricorda in maniera esattamente combaciante il ritorno dei quarti dell’Independiente contro i Pumas messicani.
Visto che in Ecuador hanno l’usanza di intitolare gli stadi agli eroi della loro mitologia, perché non dovrebbe esistere in futuro un Estadio Librado Azcona? Contro il River il portiere paraguayano naturalizzato ecuadoreño è stato invalicabile: sembra che nello zaino che si è portato negli spogliatoi del Vespucio Liberti tenesse un santino della Vergine di Caacupé, e che sia sceso in campo con un rosario al collo.
Azcona è la cervicale di una spina dorsale sulla quale si regge l’essenza della squadra dell’Idv.
Tra le altre vertebre fondamentali ci sono Arturo Mina, l’iconico e dominante centrale difensivo protagonista pure di una buona Copa América con la Tri e forse già pronto, se non per l’Europa, per un calcio latinamericano più di livello.
Poi l’uruguayano Mario Rizotto, feticcio di Repetto che lo allenò per la prima volta dieci anni fa al Fénix e che gli ha affidato, affiancato da un vicario di prospettiva come Orjezuela, le chiavi del centrocampo; infine il triangolo isoscele d’attacco formato da Julio Angulo, Junior Sornoza, Bryan Cabezas e il punto di riferimento centrale José Angulo.
Questo è Cabezas, uno dei giocatori meno celebrati dell’IdV eppure con tutte le carte in regola per imporsi come feticcio di chi ama le ali turbobolide. L’allungo contro il terzino sembra un sortilegio, l’ombra che gli si stacca dai piedi e schizza verso il futuro.
L’avanzata dell’Independiente del Valle in Libertadores ha iniziato a farsi dolce come lo zucchero filato ad Aprile, quando nel pieno dell’hype, cioè prima della gara degli ottavi contro il River Plate nella quale erano dati per spacciati, l’Ecuador è stato sconvolto da un terremoto dell’ottavo grado della Scala Mercalli. La devastazione che ha interessato l’area costiera pacifica di Manta ha suscitato commozione, coinvolgimento e risvegliato un forte senso patrio: vincere partite di calcio è diventato quel tipo di surrogato della gioia che ti permette di tirare avanti la nottata in spiaggia, senza una casa in cui rientrare, facendo finta che il mondo continui a girare com’è sempre girato.
Portoviejo è nel cuore dell’epicentro del sisma, ed è la cittadina nella quale è nato Junior Sornoza, nella quale ancora vivono i suoi genitori. «Vorrei stare con la mia famiglia ma non posso, non ci sono voli, le strade sono chiuse. Volevo lanciargli un messaggio per fargli capire che sono con loro, che stiano tranquilli. Mia sorella ha perso parte della casa, tutto il secondo piano le è venuto giù, ma presto o tardi troveremo una soluzione».
Dopo aver segnato la rete del 2-0 contro il River, su rigore, ha mostrato alle telecamere una maglia sulla quale aveva scritto «Da qua non me ne vado… Portoviejo ti amo».
Questa immagine potrebbe NON essere precedente al rigore decisivo contro il River.
Enganche votato alla verticalizzazione, dotato di un’intelligenza tattica che si sposa con un tocco di palla delicato e un’esplosività atletica più consono a un’ala, Sornoza ha messo a segno sei delle quattordici reti dell’Independiente del Valle, lo stesso numero di Angulo.
Nonostante sia il leader tecnico della squadra, ha soltanto 22 anni - per quanto alle spalle possa già vantare un’esperienza all’estero, sebbene non proprio positiva, con il Pachuca nel 2015.
Prima che l’IdV cominciasse a inanellare risultati sbalorditivi in Libertadores il suo nome era stato accostato al Cultural y Deportiva Leonesa, una società spagnola che milita di Segúnda B, la Lega Pro spagnola, diventata famosa qualche tempo fa per un completino abbastanza ridicolo. La verità è che l’interesse nasceva nel contesto di una più ampia collaborazione che la CD Leonesa stava intraprendendo con Aspire, l’academy qatariota, già collaboratrice a livello giovanile con l’Independiente. Perché la società di Salgonquí ha una tradizione molto radicata in termini di giovanili, e i sempre crescenti risultati nel calcio ecuadoreño, nonché le tre partecipazioni consecutive alla Libertadores - 2014, 2015 e 2016 -, sono anche il frutto di una politica oculata di valorizzazione e utilizzo di giovani calciatori cresciuti nella propria cantera.
Il diamante grezzo più prezioso fuoriuscito dalle miniere dell’altipiano è José El Tin Angulo. È arrivato all’Independiente nel 2011, un anno dopo l’accesso della società nella Serie A ecuadoreña, appena sedicenne. Repetto lo ha incluso nella rosa della prima squadra del 2014: durante una partita d’allenamento nel precampionato Angulo ha effettuato un movimento brusco e si è procurato la rottura del legamento crociato anteriore. Dopo uno stop di cinque mesi è tornato a giocare con la squadra riserve, ha segnato nove gol in sei partite e Repetto lo ha richiamato in prima squadra, dove è diventato il punto di riferimento dapprima dello schema offensivo del tecnico uruguagio, poi di tifosi e compagni.
Nella semifinale d’andata El Tin ha segnato la sua sesta rete in Libertadores (assist ancora di Rizotto): un gol non solo pesante, perché è stato quello del 2-1, ma anche bello di quella bellezza che hanno le cose destinate a durare poco. Il suo agente, Gustavo Mascardi, già procuratore di grandi argentini del passato, lo ha paragonato a Crespo e sta cercando di dirimere le sue controversie con Zamparini pur di tornare a piazzare una Joya degna di tal nome in Italia.
Pochi giorni prima della semifinale d’andata el Mudo Riquelme è tornato a sollevare più di un dubbio sul perché gli sia stato affibbiato poi quel soprannome sparando a zero sull’Independiente. Ha detto «è la finale più facile che il Boca abbia mai conquistato. Noi ci aspettavamo il River, perché con tutto il rispetto l’Independiente del Valle non si rende neppure conto di dove sta».
L’ultima volta che un grande Diez del Boca si era sbottonato sulla presunta superiorità del calcio argentino e sul fatto che la storia non si può cambiare, com’era andata a finire ce lo ricordiamo un po’ tutti. El Tin Angulo - che deve il suo soprannome alla somiglianza, in campo, con Agustín Delgado, forse il centravanti più forte che la Tri abbia mai avuto - ha risposto per le rime, dimostrando una personalità molto forte: «Vorrà dire che Riquelme lo azzittiremo. Così la fanno finita di dire cose cattive sull’Independiente».
Per resistere agli assalti xenéizes alla Bombonera Repetto dovrà studiare ancora una volta, più a fondo, il «Vom Kriege» di Von Clausewitz, soprattutto i paragrafi sulle muraglie difensive e sugli assalti repentini, alla baionetta. Il suo Independiente è atteso da una grande, forse abnorme prova di maturità e tenuta psicologica, l’unica arma che può opporre allo strapotere tecnico degli auriazul.
Arrivati a questo punto, però, crederci un po’ di più non costa nulla.
Nelle notti terse di Quito, se ti arrampichi sull’altopiano puoi vedere ad occhio nudo come i pianeti, quest'anno, sembrano essersi allineati in una maniera nuova.