Novak Djokovic era considerato il favorito incontrastato di questa edizione di Wimbledon. Il tennis è uno sport gerarchico: il più forte vince, più o meno sempre, e anche a volersi sforzare, di trovare ostacoli alla sua vittoria finale, era difficile trovare qualcosa. E infatti Novak Djokovic ha vinto. Non è sempre stato perfetto, si è preso pause più o meno lunghe durante le partite, ha lasciato che gli avversari lo facessero sembrare piccolo e indifeso per certi momenti. Ha perso set per strada che ormai sembrano far parte di una sua strana routine di controllo, ma alla fine ha vinto. Come nello schema di Celebrity Death Match, nelle sue partite chi all’inizio subisce finirà per vincere.
Eppure, nonostante questi inciampi, la sua vittoria non è mai stata realmente in discussione e il finale è stato sempre lo stesso: lui col suo completo bianco Lacoste, inginocchiato, che mangia l’erba del prato del campo centrale, come nel 2021, come nel 2019, nel 2018, nel 2015, nel 2014, nel 2011. A celebrare un rito forse un tantino ruspante per il contesto formale dell’All England Club. Poco prima, però, era successa una cosa nuova: poco prima del matchpoint dagli spalti si era levato un canto inusuale: “Nole! Nole! Nole!”. Quello che lui tre anni fa aveva dovuto fabbricare nella sua testa, mentre il pubblico inneggiava a Roger, nella sua più straordinaria prova di manipolazione della realtà, oggi risuona intorno, allora sorride e chiude la partita.
Vince Wimbledon per la settima volta in carriera: le stesse di Renshaw e Sampras, una in meno di Roger Federer, al livello quindi dei migliori giocatori su erba della storia - nonostante non sia immediato considerarlo tale. Si è ripetuto per la quarta volta consecutiva, ma in un anno complicato, in cui il Djokovic politico si è mangiato parte del Djokovic tennista. Il suo personaggio ha guadagnato potere letterario, ma la sua bacheca è rimasta vuota - proprio nella stagione che portava gli auspici più favorevoli per la propria corsa ai titoli Slam.
Il momento più difficile è arrivato già a gennaio, quando gli Australian Open gli avevano concesso l’esenzione dal vaccino ma poi lo avevano rinchiuso per ore nello stanzino dell’aeroporto di Melbourne, usando il suo corpo per l’esibizione del potere repressivo dello stato. In quelle ore in cui il personaggio di Djokovic aveva assunto una natura bifronte - idolo dei no-vax e capro espiatorio dei progressisti del mondo - e Nick Kyrgios, il più importante tennista australiano in attività, era stato fra i pochi a parlare apertamente in suo supporto: «Sono favorevole ai provvedimenti. Mi sono vaccinato per rispetto degli altri e della salute di mia madre, ma il modo in cui stiamo gestendo male la situazione di Novak, molto male. (…) Tutti questi meme, questi titoli, è uno dei nostri più grandi campioni ma è soprattutto un essere umano. Fate qualcosa di meglio». Djokovic era rimasto piacevolmente sorpreso: «Avevamo avuto delle incomprensioni in passato».
Si riferisce forse a quando Kyrgios aveva definito “malato” il desiderio di Djokovic di essere amato, aveva definito “cringe” le sue esultanze, e tifato spudoratamente per Federer nella finale di Wimbledon 2019. «Ho davvero poco rispetto per lui» aveva detto Nole sconsolato. All’inizio di questo Wimbledon, fra i campi di allenamento, i due si sono incontrati per riconoscere reciprocamente la nuova fase del loro rapporto: «Ti ci sono voluti cinque anni per dire qualcosa di carino su di me» ha scherzato Djokovic; «Ti ho difeso quando contava di più»; «Lo so, e lo apprezzo». Magari un’amicizia di facciata, ma non era scontata nemmeno quella, considerando due dei caratteri più diversi del circuito tennistico.
Forse Djokovic non si sarebbe aspettato che questa nuova bromance avrebbe trovato una sua celebrazione in finale, ma è stato un Wimbledon strano. L'esclusione degli atleti russi ha tagliato fuori due teste di serie, nei primi giorni del torneo ne sono cadute altre e nel giro di una settimana si è formato un tabellone incredibilmente semplice per i due anziani sopravvissuti, Rafael Nadal e Novak Djokovic, che conoscono a fondo gli imprevisti dei primi turni e hanno smesso di cascarci da anni.
Senza più giovani in gara, non restava che augurarsi il capitolo numero sessanta della resa dei conti tra Djokovic e Nadal. Lo spagnolo, però, proseguendo il suo processo di penitenza e consunzione fisica, ha rimediato uno strappo di sette millimetri agli addominali nei quarti di finale: non abbastanza per farsi battere da Fritz, ma sufficiente per ritirarsi dalla semifinale e concedere a Nick Kyrgios la prima finale in carriera in uno Slam.
Non ci è arrivato per caso, comunque. Kyrgios era considerato la mina vagante del torneo sin dall’inizio. Per il suo talento da prestigiatore, certo, ma anche per la congiuntura irripetibile tra la sua predisposizione al gioco su erba e una condizione di forma per una volta accettabile. Dopo una carriera tormentata, passata più a discutere di sé stesso che a giocare, era arrivato a Wimbledon con l’intenzione dichiarata di vincere. Aveva giocato degli ottimi tornei di preparazione e ogni volta che aveva perso, nel 2022, aveva comunque dato l’impressione che avrebbe potuto vincere. Djokovic però non perde sul centrale di Wimbledon da quasi dieci anni (2013 contro Murray) e viene da 27 vittorie consecutive. Perché mai Kyrgios avrebbe dovuto interrompere questa striscia?
I più ottimisti facevano riferimento alla profondità del suo talento, al suo record contro i top-10, e in particolare contro Djokovic. Non giocavano contro dal 2017, ma in quella stagione l’australiano aveva vinto due volte e non aveva perso né un set né un servizio. Il loro contrasto di stili è entusiasmante: così appariscente e creativo il tennis di Kyrgios, così solido e sottile quello di Djokovic. Kyrgios è di quei tennisti che costruisce i suoi successi attraverso il dominio offensivo del gioco; Djokovic fa invece parte di quella categoria di tennisti - un club fatto di una sola persona, lui - che aspettano che la vittoria gli arrivi tra le mani perché il suo avversario, in un modo o nell’altro, se l’è lasciata sfuggire.
Kyrgios arrivava fresco e riposato, con tre giorni di mezzo tra la sua ultima partita e la finale. Ma quella che poteva essere una buona notizia per chiunque rischiava di non esserlo per Kyrgios. Come avrà usato quei tre giorni, a fare le 4 al pub tutte le sere?
Gira voce che abbia dormito poco, ma più per lo stress che per la festa; qualcuno lo ha visto stranamente teso durante gli allenamenti, lui che di solito li affronta come i ragazzini che devono ammazzare il tempo in qualche centro estivo in cui sono stati ficcati dai genitori. Eppure si presenta alla finale - la prima Slam della sua vita - sbadigliando e inizia a giocare senza la minima sofferenza scenica, immerso in quello stato di rilassamento creativo che per lui è la premessa di una grande partita. Servizio affilato, ritmi vorticosi, colpi inventati ex novo. Kyrgios è attento a mantenere il gioco rapido, rapsodico. Rifiuta di giocare certi punti, o quanto meno di entrare davvero nello scambio da fondo campo. Ha più paura di rallentare che di scialacquare punti. Certe sue risposte sembrano finire fuori di proposito, e quando sperimenta tutte le possibilità espressive del tennis non lo fa per clownerie, ma per mantenere il tennis imprevedibile. Restare mentalmente nella partita, per lui, significa soprattutto mantenere una certa energia creativa. Il primo set fila ai suoi ritmi, nel suo contesto. 7 ace, 5 punti persi al servizio.
Djokovic se ne è stato sereno e perdente, incapace di leggere una delle migliori battute del circuito, ma abbiamo imparato a riconoscere quest’apatia: queste fasi della partita ormai sembrano servirgli a raccogliere informazioni, come un computer che deve ancora finire di essere programmato. Siamo arrivati al paradosso che la sconfitta nel primo set, da spettatori, ci è sembrata la conferma che la sua vittoria sarebbe arrivata spietata.
Come quasi sempre succede in una partita di tennis, le cose sono cambiate in un momento preciso. Sull’1-1, 30-30 e servizio Djokovic, Kyrgios per la prima volta viene impelagato in uno scambio lungo e tatticamente tortuoso. Possiede delle armi anche per vincere questo tipo di scambi, e fino a quel momento li aveva vinti tutti o quasi (8 su 10 in quelli sopra i 9 colpi), ma in quel momento Djokovic trasmette un’impressione diversa, come se il suo motore fosse entrato a pieno regime. Djokovic vince due punti lunghi e faticosi e finalmente riesce a inchiodare il tennis nella sua natura iterativa, lenta ed enigmatica. Non il tennis fatto di guizzi creativi, di uno-due, di traiettorie impensabili. Un tennis invece prevedibile, che gli permette di entrare in ritmo.
Djokovic tiene il servizio e Kyrgios inizia a sbraitare contro il suo angolo, contro l’arbitro, contro uno spettatore che secondo lui «si è fatto 700 drink». Nel turno successivo Djokovic strappa per la prima volta il servizio a Kyrgios in carriera, poco dopo vince il suo primo set, e tutti sappiamo che la partita è all’incirca finita. A dire il vero l’australiano rimane lì: serve bene, si concede delle possibilità, arriva a giocare punti importanti. Quando ci arriva, però, sappiamo già che non riuscirà a vincerli. Cosa ci aspettavamo, da Nick Kyrgios, che non si sciogliesse nei momenti decisivi? Che dopo una carriera passata a cazzeggiare si rivelasse duro e acuminato nei momenti in cui il tennis diventa ostile?
Djokovic non vince punti particolarmente appariscenti, e non sembra davvero giocare meglio del suo avversario, ma lo fa. In realtà gioca meglio, anche se è difficile accorgersene. Quanto è diverso, da Rafael Nadal, che ha vinto Australian Open e Roland Garros con una marcia epica tutta enfasi, braccia al cielo, occhi sofferenti. Un uomo impegnato in una dolorosissima lotta per piegare le leggi del tempo, il tennis come rottura prolungata del limite. La grandezza di Djokovic, invece, sta nel non fartela percepire, nascondendo il superamento dei limiti che Federer e Nadal hanno costantemente esibito. Djokovic non offre mai la sensazione di star facendo qualcosa di più grande di lui. Un modo di vincere che trova una curiosa corrispondenza col suo modo di giocare, fondato sull’esercizio di un controllo sottile e impercepibile, che lascia i suoi avversari sconfitti e confusi. Una sensazione espressa anche da Kyrgios dopo la partita: «Per me è strano perché mi sembra che non abbia fatto niente di speciale oggi». È sempre così: non sembra fare niente di eccezionale, fuorché vincere.
Abbiamo sempre la sensazione che Djokovic stia giocando bene, ma non così bene; che sia forte, ma non così forte. È sempre questa la sensazione con Djokovic: che stia giocando bene, ma non così bene, che sia forte, ma non così forte. E così sembra sempre sfuggirci il motivo per cui è da anni il più forte al mondo, almeno su due superfici su tre. Un motivo così evidente eppure così sfuggente. Una sensazione ancora più acuta sull'erba, che sembra premiare più di altre un tennis sensibile e brillante che pare non appartenere a Djokovic. Una sensazione ancora più acuta quando si trova di fronte tennisti come Kyrgios, che hanno un talento appariscente mentre il suo rimane occulto, e per questo - forse - ancora più mistico.
Dovremmo provare a scrollarci di dosso questa ipnosi che lui stesso esercita, per continuare a riconoscere la sua grandezza senza farci venire a noia questo sport incredibilmente gerarchico e conservativo, in cui l’imprevedibile è stato ridotto a prevedibile e in cui i grandi anziani non sembrano mai stancarsi di esibire la propria differenza di natura dal resto dei tennisti.
Djokovic vince il suo ventunesimo Slam superando Federer e portandosi a uno da Nadal. Per proseguire la sua corsa, però, dovrà forse aspettare altri dieci mesi. Non giocherà gli US Open e forse nemmeno gli Australian Open, perché non è vaccinato e non ha intenzione di farlo. Il tennis senza di lui si continuerà a giocare con un asterisco in cima a tutte le partite, a tutti i trofei. Chi vincerà a New York, o in Australia, lo farà senza essersi confrontato con lui, e continuerà quindi a coltivare una storia di successo minore. È un peccato per tutti. Djokovic e Nadal hanno ripristinato la diarchia erba-terra che un tempo era di Federer e Nadal, mentre il cemento rimane l'unica superficie in cui possono essere contrastati.
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Chissà se ai piani alti dei tornei continueremo a vedere Nick Kyrgios, che ha avuto bisogno di una decina d’anni di circuito per raggiungere la sua prima finale Slam. Dopo la partita gli hanno chiesto se la sua prima finale non gli ha forse messo fame per i prossimi tornei: «Decisamente no, sono stanchissimo» ha detto col solito stile di chi tiene a passare per quello a cui non frega nulla di nulla. In conferenza è tornato a più miti intenzioni, e ha ammesso che non aver vinto forse lo motiverà di più. Con che spirito si sarebbe presentato ai tornei 250, dopo aver vinto Wimbledon? Ha chiesto (noi pensiamo, semplicemente: con lo spirito di sempre).
Kyrgios ha poi dichiarato di essere felice, che in una finale Slam il suo livello era vicino a quello di uno dei più grandi di sempre. È vero: la sensazione, che tutti abbiamo avuto guardando la partita, era che i due fossero molto vicini a livello di tennis. Ma il tennis, a dire il vero, non può essere ridotto a quello. Nella distanza che passa tra la vittoria e la sconfitta, in una partita come quella di ieri, c’è un universo oscuro e più esteso di quanto possiamo immaginare, e di quanto forse Kyrgios stesso può immaginare. Un universo che nessuno conosce bene come Novak Djokovic.