Per il terzo anno consecutivo, a contendersi il premio di Most Valuable Player della regular season ci saranno di nuovo Nikola Jokic e Joel Embiid, finiti rispettivamente al primo e al secondo posto delle votazioni finali sia nel 2021 che nel 2022. Ma se nel primo anno il serbo vinse con ampio margine (91 voti per il primo posto su 100 disponibili, 971 punti finali contro i 586 del camerunense), lo scorso anno il margine ha cominciato ad assottigliarsi con 65 primi posti per il centro dei Denver Nuggets contro i 26 di quello dei Philadelphia 76ers, per un conto totale di 875 a 706.
Nel primo anno a fare la differenza fu la grossa discrepanza a livello di gare disputate (72 per Jokic, appena 51 per Embiid nella stagione ridotta per via del post-Covid), mentre nella scorsa stagione fu soprattutto un discorso di “narrazione” — con i Nuggets quasi miracolosamente al sesto posto della Western Conference pur non potendo contare su Jamal Murray e Michael Porter Jr. per quasi tutto l’anno — a spingere Jokic al suo secondo premio consecutivo, nonostante i 30.6 punti di media tenuti da Embiid, primo centro a vincere il titolo di capocannoniere dai tempi di Shaquille O’Neal nei primi anni 2000.
Arrivati al terzo anno consecutivo di questa “rivalità”, il discorso attorno ai due si è talmente polarizzato da diventare, a tratti, stucchevole. A corto di contenuti da proporre giorno dopo giorno per ravvivare una discussione che aveva esaurito gli argomenti da avanzare per l’uno o per l’altro, a un certo punto Kendrick Perkins (in quel momento fervente sostenitore di Embiid, non è chiaro se per vera convinzione o se per ruolo da ricoprire negli show televisivi visto che poi ha votato per Giannis Antetokounmpo) si è messo ad avvelenare i pozzi dicendo che l’80% dei votanti per il premio era bianco e per questo avrebbero votato per Jokic. Non ha nemmeno senso entrare nel merito di quanto detto (se proprio vi interessa trovate qui i dati che la smentiscono), ma serve a rendere l’idea di quanto possa diventare tossico un discorso attorno a quello che, in fin dei conti, rimane un premio importante ma dal quale di certo non dipendono le sorti dell’umanità, ed è sempre bene ricordarselo.
Della sfida tra Jokic ed Embiid per l’MVP abbiamo dibattuto, in maniera meno tossica, anche in Uno contro Uno, il nuovo podcast per gli abbonati dell’Ultimo Uomo. Se non l'avete ancora fatto, potete abbonarvi cliccando qui.
Il risultato è che gli stessi protagonisti in campo hanno finito per stancarsene. L’allenatore dei Denver Nuggets Michael Malone ha ammesso che persino Jokic non ne poteva più del chiacchiericcio — a un certo punto era stato accusato, sempre da Perkins, di fare “stat-padding”, cioè di gonfiare artificialmente le sue statistiche per farle sembrare migliori a discapito dei risultati di squadra — ed è difficile non notare nel suo ultimo mese di regular season un certo rallentamento nella sua produzione, coinciso con una brusca frenata a livello di record dei suoi Nuggets (7 sconfitte nelle ultime 12 partite con lui in campo). È sembrato quasi che Jokic, una volta fiutata l’aria, abbia voluto rallentare un po’ per prepararsi al meglio in vista dei playoff (forte anche del miglior record della Western Conference già messo in cassaforte) e un po’ anche per raffreddare la temperatura della stanza attorno a un potenziale terzo premio consecutivo di MVP che ha pochissimi eguali nella storia della lega, scomodando nomi del calibro di Bill Russell, Wilt Chamberlain e Larry Bird.
In questo passaggio a vuoto più o meno volontario del serbo (i playoff ci diranno se i problemi dei Nuggets nell’ultimo mese e mezzo sono seri oppure se sono solo dovuti alla gestione del carico) si è infilato prepotentemente Embiid, che ha tenuto alcune delle sue migliori prestazioni stagionali per il rush finale, tra cui una prova da 46 punti in tv nazionale contro Golden State (pur perdendo) e soprattutto quella da 52 contro i Boston Celtics che, nella settimana di chiusura delle votazioni, dovrebbe aver definitivamente convinto i votanti a premiare i suoi sforzi.
Non che ce ne fosse davvero bisogno: l’ultimo triennio di prestazioni di Embiid è stato senza alcun dubbio meritevole di un riconoscimento del genere, e solo la presenza contemporanea di due All-Time Great come Jokic e Giannis Antetokounmpo — il quale, pur non essendo nella sua miglior stagione della carriera, ha messo comunque assieme un curriculum che in altri anni gli sarebbe bastato e avanzato per portare a casa il trofeo, e rimane con ogni probabilità il miglior giocatore del mondo ad oggi — glielo ha negato. Ma l’Embiid visto nel 2022-23 è certamente nella sua versione migliore, portando a compimento un percorso cominciato nel lontano 2014 quando su di lui circolavano voci quasi più vicine alla mitologia che alla realtà di una lega nella quale si sa tutto di tutti fin dalla giovanissima età, descrivendolo come una sorta di minotauro capace di segnare da fuori con la morbidezza di un liutaio.
Solo i dubbi sulle due condizioni fisiche, non ingiustificati col senno di poi, gli hanno impedito di essere prima scelta assoluta al Draft 2014, dopo aver mostrato alcuni lampi di grandezza all’università di Kansas. Nessuno però si sarebbe potuto aspettare che diventasse questa macchina da canestri inarrestabile.
Per sua stessa ammissione, oggi Embiid è più vicino a essere una guardia che non un “centro classico”, e lo ha dimostrato sera dopo sera pur essendo uno degli esseri umani più grossi su questo pianeta indipendentemente dallo sport o dalla professione. Embiid, ad esempio, non ha mai tirato così bene come quest’anno: il 57.3% di percentuale effettiva tenuta quest’anno è di gran lunga la migliore della sua carriera, così come al suo quasi career-high per tiri liberi (11.7 a partita) ha associato un eccellente 85.7% di realizzazione (solo due anni fa fece meglio ma di due punti decimali). Oggi Embiid è, semplicemente, l’attaccante più completo che c’è in circolazione: oltre a concludere al ferro con un 75% che non era mai riuscito a realizzare prima, dalla media distanza è ormai diventato una sentenza da 50% di realizzazione. Per rendere l’idea: il suo 47.6% nei tiri da due punti dal palleggio, oltre a essere una percentuale intoccabile per i suoi pariruolo (Jokic tira con il 48.1%, ma su meno di un tiro a partita) è in linea con quello di artisti del mid-range come DeMar DeRozan e Brandon Ingram, i quali però non hanno esattamente il gioco spalle a canestro di Embiid né i suoi 125 chili da portare a spasso.
A rendere particolarmente forte la sua candidatura per l’MVP c’è poi l’eccelsa continuità di rendimento avuta lungo tutto l’arco della regular season. Embiid non ha mai saltato più di quattro partite in fila e solamente quattro volte non ha raggiunto quota 20 punti (in due occasioni perché la partita era già in ghiaccio da tempo) e solo nel mese di ottobre ha viaggiato a meno di 30 punti di media, fermandosi a 27 nelle prime sei gare stagionali. Per il resto Embiid ha inanellato serate e serate in cui si è fatto carico dell’attacco di Philadelphia anche quando James Harden non era al meglio e Tyrese Maxey faceva i conti con gli infortuni, sobbarcandosi un’enorme mole di lavoro per tenerli in scia a squadre ammazza-regular season come Boston (nella prima parte di stagione) e Milwaukee (nella seconda) nei confronti delle quali, a conti fatti, non è arrivato così lontano a livello di record in classifica.
A questa continuità da metronomo ha poi aggiunto la capacità di salire di livello quando contava. Se non fosse per l’assurda stagione disputata da De’Aaron Fox a Sacramento, Embiid avrebbe avuto legittime chance di competere anche per il Jerry West Award che andrà al giocatore più “clutch” della stagione, non solamente per il rendimento offensivo (3.6 punti di media nelle 36 gare finite punto a punto, 8° in NBA e con un record di 23-13) ma anche per la capacità di alzare il livello nella propria metà campo, dove se vuole sa essere un difensore in grado di tenere in piedi la squadra con la sola imposizione delle mani — o, per meglio dire, con la sola protezione del ferro.
Chiedere a Ja Morant per informazioni.
Il risultato è che per il secondo anno in fila Embiid ha chiuso come miglior realizzatore della lega (non accadeva a un centro in stagioni consecutive da metà anni ’70 col venerabile Bob McAdoo) e sembra aver raggiunto la sua forma definitiva, imparando a gestire anche molto meglio il suo storico tallone d’Achille, vale a dire i raddoppi (4.2 assist a partita, pareggiato il suo career-high dello scorso anno). Ora non c’è più niente che Embiid non abbia già visto, analizzato, processato e risolto con anticipo rispetto alle intenzioni della difesa, e anche quando si difende al meglio contro di lui c’è poco che si possa fare se riesce ad arrivare nell’ultimo metro di campo o se si guadagna quel mezzo passo di vantaggio che ti costringe, inevitabilmente, a mandarlo in lunetta per due tiri liberi. C’è un motivo se Philadelphia ha il terzo miglior attacco della lega, e quel motivo è Joel Embiid — senza il quale i Sixers crollano di quasi 11 punti su 100 possessi, precipitando tanto in attacco (-6.2 punti segnati su 100 possessi) che in difesa (+4.7 concessi).
Sul premio di MVP a Embiid ci sarebbero stati meno dubbi se negli scontri diretti con gli altri candidati non ci fossero state così tante ombre, una tra tutte l’ultima trasferta saltata sul campo dei Denver Nuggets. Una partita che arrivava in un periodo particolarmente complicato del calendario: i Sixers erano alla 12^ gara in trasferta su 15 nel mese di marzo ed erano all’ultima tappa di una trasferta da quattro gare che li aveva già visti affrontare un pesante back-to-back tra San Francisco e Phoenix, per di più senza James Harden rendendo ancora più gravoso il carico sulle spalle di Embiid. Resta il fatto che aver saltato il secondo scontro diretto con Jokic, specialmente dopo aver dominato il primo con una prestazione mostruosa da 47 punti, ha fatto storcere il naso a qualcuno, e con ogni probabilità la prossima volta la NBA nella compilazione dei calendari ci penserà due volte prima di mettere il testa a testa tra i suoi due ultimi MVP in un momento così concitato delle loro stagioni.
Come scritto anche da John Hollinger su The Athletic, sarebbe ingiusto se gli ultimi cinque anni della lega vedessero finire 3 titoli di MVP a Jokic o Giannis e zero ad Embiid. La differenza tra i tre è stata talmente minuscola nell’ultimo lustro che, anche solo per compensazione, il camerunense merita di averne almeno uno. Ma non siamo nella situazione in cui i votanti non premiano più Michael Jordan o LeBron James perché sono stufi: Embiid ha legittimamente disputato una stagione migliore rispetto agli altri candidati dall’inizio alla fine, senza avere mai degli evidenti cali di prestazione e, allo stesso tempo, toccando dei picchi che gli altri non sono riusciti ad eguagliare. Il premio di MVP, dovesse finire nelle sue mani come appare ormai evidente, è più che meritato. Con la speranza che la salute lo assista anche in questi playoff, permettendogli di giocarsela fino all’ultimo con una squadra che ha tutto quello che serve per arrivare fino in fondo.