«I calciatori sono come uccelli», è l’ultima metafora consegnata alla stampa da Michel Platini, per la verità un po’ forzata, perché gli uccelli migrano per sopravvivere, sottostanno a una necessità inscritta nel loro dna, non hanno scelta. I calciatori d’élite, invece, scelgono squadre che offrono loro i contratti più ricchi, sono attirati verso campionati dove c’è più esposizione mediatica, e dove c’è più pubblico ci saranno sempre più soldi, dagli sponsor, dalle tv, è una legge di mercato.
La nuova rotta migratoria dei calciatori di tutto il mondo è l’Arabia Saudita, questa è l’estate che ha visto non un cambio di passo nella politica del paese, ma una decisa accelerazione sì, lungo una strada aperta da tempo. I tentativi della monarchia mediorientale di costruirsi una nuova reputazione internazionale attraverso lo sport non si contano: secondo le stime del The Guardian, già nel 2021 le spese approvate da re Mohammed bin Salman ammontavano a oltre sei miliardi di dollari.
Dal tentativo, in parte riuscito, di impossessarsi del golf mondiale con la costituzione di un ricchissimo circuito di tornei alternativo, fino alla massiccia sponsorizzazione dei Gran Premi di Formula 1 attraverso la compagnia petrolifera di stato Aramco, l’Arabia Saudita ha riversato fiumi di denaro nelle casse degli organizzatori degli eventi sportivi più importanti al mondo. Oggi lancia la sua opa sul calcio con uno scarto deciso rispetto al passato. Non più attraverso l’acquisizione dei club iscritti ai prestigiosi e più antichi campionati europei, ma tramite la sottrazione del talento, l’impoverimento dei ranghi delle “nostre” squadre, con cifre sborsate per i trasferimenti e per gli ingaggi che non si erano mai viste prima.
Cristiano Ronaldo ha fatto da apripista lo scorso gennaio, ma dopo poco è stato raggiunto nella Saudi Pro League da molti altri. Nomi di grido, calciatori che hanno conquistato trofei internazionali o che comunque hanno impresso la loro impronta nei rispettivi campionati. Dal Bayern Monaco è arrivato Sadio Mané, dal Real Madrid Karim Benzema, dalla Premier League Riyad Mahrez e N’Golo Kanté, dalla Serie A Sergej Milinkovic-Savic e Marcelo Brozovic, tanto per fare alcuni nomi. La Saudi Pro League non è quindi un cimitero di elefanti, il buen retiro di atleti che non hanno più niente da dare allo sport, tutt’altro. Il mirino degli organizzatori sauditi è puntato al cuore del calcio europeo e mira a togliergli lo scettro dell’intrattenimento migliore.
Nella serata di ferragosto è stato ufficializzato il trasferimento di Neymar Junior, il giocatore forse di maggior talento tra quelli presenti attualmente in Europa, dal Paris Saint-Germain al Al-Hilal. Che un giocatore di primo livello, con ancora alcune stagioni competitive, in teoria, nelle gambe – Neymar ha trentun anni – rinunci a giocare la Champions League stranamente non ci indigna più di tanto, ci lascia invece piuttosto freddi. Forse ci stiamo abituando, forse c’è qualcos’altro. Non fanno notizia le cifre del trasferimento – Neymar percepirà un compenso di 400 milioni di euro, vivrà in una casa enorme dotata di servitù, si sposterà con un aereo privato più grande di quello che già possedeva – la vera novità è proprio questa assenza di stupore. Come in un romanzo scadente, quando i dettagli vergati uno a uno dallo scrittore non aggiungono nulla e la scena si satura per eccesso di accumulazione, nelle scorse settimane gli annunci si sono susseguiti di ora in ora, un vorticare di cifre da sembrare, a un certo punto, persino fasulle. Veniva da dire: ma non daranno via davvero tutti questi soldi per un calciatore? Il trasferimento di Neymar è solo l’ultimo di una striscia che, probabilmente, da domani proseguirà nella sua corsa. Lo stupore può esser venuto meno anche perché, in fondo, da uno come Neymar una mossa del genere ce l’aspettavamo. Semplicemente perché una cosa così il calciatore brasiliano l’ha già fatta.
I pochi che ancora ieri sono riusciti a indignarsi hanno pochi dubbi: il primo paletto nel cuore del calcio, o di una sua certa versione romantica, è stato messo proprio da Neymar, il giorno in cui ha accettato il trasferimento dal Barcellona al Paris Saint-Germain. La proprietà qatariota cercava di trasformare un piccolo club con poca storia nel campionato francese – il PSG è stato fondato nel 1970 e prima dell’arrivo dell’emiro ha vinto il titolo solo due volte – in una delle migliori squadre europee. La sua parabola dimostra quanto sia difficile vincere in Europa usando solamente i soldi. Di acquisti onerosi ne erano già stati fatti, ma quello di Neymar nel 2017 ha avuto tutt’altro significato. Innanzitutto per le modalità e le proporzioni economiche dell’impresa: un assegno da duecentoventidue milioni di euro, staccato con la leggerezza con cui si paga un weekend in un due stelle di una località di mare poco rinomata. Il trasferimento di Neymar è ancora, in quest'epoca folle, il trasferimento più costoso nella storia del calcio. Ciò nonostante, è il suo significato sportivo a sorprendere tutti.
Neymar era arrivato al Barcellona dal Brasile con la promessa di un cambiamento, di una cesura tra il prima e il dopo. Le clip che vivisezionavano ogni aspetto del suo gioco non facevano altro che restituire l’immagine di calciatore seducente, carica di speranze come i primi venti caldi e profumati di giugno che annunciano l’arrivo di un’estate favolosa. Neymar non era solo l’esterno d’attacco dai mille trick che faceva impazzire i difensori; che, all’occorrenza, tornava indietro palla al piede, per finire il lavoro se pensava che l’umiliazione sopportata dal marcatore non fosse ancora sufficiente. Neymar era fondamentalmente un calciatore nuovo, che univa la leziosità paulista a una straordinaria efficacia. Dai diciassette ai ventun anni, durante le stagioni passate al Santos – quando era chiamato “O Ney” per l’assonanza con “O Rei”, il soprannome di Pelé – Neymar ha messo a segno 108 tra gol e assist in 138 partite.
Un trasferimento al Barcellona sembrava nell’ordine delle cose (anche se non sono mancate delle forzature). Neymar arrivava nella Liga per prendere la corona di Leo Messi dalle mani dello stesso argentino, dopo un apprendistato che non sarebbe stato neanche troppo lungo perché nessuno, all’epoca, avrebbe immaginato una simile longevità dell’asso argentino. Erano gli anni in cui infuriava la sfida logorante tra Messi e Cristiano Ronaldo, tra il Bene e il Male (se siete tifosi dell’uno o dell’altro abbiate la pazienza di sistemare i poli della rivalità a vostro piacimento). Neymar non poteva andare al Madrid, anche se la Casa Blanca lo aveva cercato, perché si sarebbe pestato i piedi con il fenomeno portoghese e ne avrebbe pagato le conseguenze sedendosi in panchina. Al Barcellona invece c’era un slot libero nel tridente da sogno, al fianco di Messi e di Luis Suarez. Non avrebbe neppure potuto Neymar, a quell’età, lanciare una sfida ambiziosa a entrambi, accasandosi in una terza squadra, ad esempio all’Atletico Madrid (ipotesi concretamente fuori dalle possibilità, le richieste avanzate dal clan del giocatore erano tagliate su misura per il Barcellona). La scelta di stabilirsi in Catalogna era quindi sensata. Il gioco del Barça, ai tempi, non era alla ricerca di un primo violino, ma di ottimi interpreti, in grado di sopperire con il proprio mestiere alle giornate storte del solista.
Quando sono maturati i tempi per il parricidio, Neymar non se l’è sentita. Al Barcellona era rimasto un passo indietro rispetto a Messi e Suarez, confinato sulla fascia sinistra, lontano dal centro gravitazionale del gioco. Proprio per questa sua disponibilità a un ruolo da comprimario, le cose avevano funzionato, per la squadra ma anche per Neymar stesso. L’apice della sua esperienza catalana è stata la conquista della Champions League, nella finale berlinese vinta contro la Juventus. Nell’ultima stagione in blaugrana, le prestazioni di Neymar erano salite a un livello molto vicino a quello del dieci argentino. A quel punto, O Ney avrebbe potuto pensare di cambiare sponda, di trasferirsi dal Barcellona al Real Madrid che stava per staccarsi da CR7, magari utilizzando la sponda di una terza squadra, per mettere un paio di stagioni in mezzo e non passare da traditore della patria. Oppure, più semplicemente, avrebbe potuto pretendere una centralità maggiore nel gioco, reclamare il Barcellona per sé, aumentare la sua influenza come peraltro aveva già iniziato a fare. Sono prevalse altre ragioni. Quelle economiche, soprattutto, viene da pensare. Forse l’idea di poter trasformare il PSG in una creatura interamente sua, ciò che era diventato il Barcellona per Messi. La necessità di strapparsi da dosso gli abiti del comprimario. Se anche avesse trascinato il Barça alla conquista di un’altra Champions League, quante chance avrebbe avuto di vincere il Pallone d’Oro, avendo Messi come compagno di squadra? Xavi e Andrés Iniesta ne avevano già pagato lo scotto, finendo più volte sui gradini meno nobili del podio. Il PSG offriva ancora una sfida, ma più semplice di altre.
Oggi sappiamo che il progetto del PSG Neymar-centrico è fallito. Non si compra la storia, né si mette in piedi una squadra tenendo insieme undici atleti di talento, con i soldi come unico minimo comune denominatore. Il Manchester City per vincere la Champions League ha avuto bisogno del lavoro lento e paziente del miglior manager al mondo. Di Neymar in questi anni si è parlato di più per i suoi capricci, nonostante abbia continuato a essere un gran calciatore, persino migliore dell’ultima versione vista in Catalogna. Più vicino al cuore dell’azione, più libero di muoversi per il campo per tessere la sua tela. Intorno a Neymar accadeva sempre qualcosa. Come fa l’elastico elettrificato con la biglia di ferro di un flipper, Neymar caricava il pallone di un’energia potenziale che si liberava per il campo. Forse la miglior versione di sé di questi ultimi anni, l’ha messa in mostra nel pazzo torneo estivo che nel 2020 ha assegnato la Champions League in epoca Covid. Un repertorio di controlli che sfidano le leggi della fisica; di pause e accelerazioni che restringono e dilatano lo spazio per la giocata. Un'infinità di tempi di gioco rubati, talvolta nemmeno servendosi del pallone, solo utilizzando il corpo, uno sguardo, un’intenzione. La grandezza di Neymar non stava neanche nelle cose che faceva in campo, ma nel modo in cui le faceva: il suo.
Neymar lascia il PSG quando il club francese reintegra Kylian Mbappé, l’uomo che dopo Messi lo ha ridotto ancora una volta al rango di comprimario, almeno agli occhi del grande pubblico. Può essere una coincidenza, ma Neymar sembra incapace di lottare per imporre la propria autonomia in campo. Come ai tempi del Barça, Neymar rifiuta le responsabilità, in cuor suo è ancora il “menino” del Santos, coccolato e iperprotetto. Mentre oggi lo vediamo andar via, lo trattiamo come uno che ha buttato via il suo talento, mettendo in bacheca pochissime coppe se commisurate a quello che avrebbe potuto fare. Una buona volta, però, dovremmo deciderci, se davvero contano i trofei nella considerazione che abbiamo di un atleta, o se si deve valutare l’impatto che ha sul suo sport, anche al di là dei risultati. Non è una domanda semplice alla quale rispondere. Quest’anno è morto Dick Fosbury, l’uomo che nel 1968 ha cambiato per sempre il salto in alto. Avremmo ricordato la sua innovazione con lo stesso favore se a Città del Messico non avesse conquistato la medaglia d’oro olimpica? Quando Messi ha vinto il Mondiale, lo scorso dicembre, è cambiata la nostra considerazione sull’uomo più che sull’atleta, quest’ultima sarebbe rimasta intatta, probabilmente, anche in caso di sconfitta.
In queste ore i nostri giudizi su Neymar sono spietati e sommari. Ha sprecato una carriera, ha gettato al vento il suo talento. Non sarebbe meglio dire che ne ha fatto quel che ha voluto? Ha ottenuto dal suo talento ciò che le circostanze – le proprie spinte interne tanto quanto gli ostacoli esterni – gli hanno permesso di raggiungere. Il talento non piove dal cielo, né si vince alla lotteria. Non poteva capitare a noi e non lo avremmo utilizzato meglio di così. Ragioniamo come se il talento di uno sportivo ci appartenesse, ma non è così, il talento afferisce soltanto alla sua essenza. Per di più un atleta si costruisce con il lavoro quotidiano, coltiva il talento con l’ossessione. E ciò nonostante, per un miliardo di ragioni differenti, soltanto pochissimi arrivano sulla cima della piramide, sono molti di più quelli che rallentano nella corsa ai vertici. Quante volte abbiamo scommesso sul successo di un ragazzo dotato di un talento straordinario, e invece abbiamo visto l’ascesa di un altro, che non ci sembrava nulla di speciale in confronto al primo?
Non solo il calcio: ogni sport ha il suo Neymar. Di Nick Kyrgios si dice che abbia nelle corde della sua racchetta, potenzialmente, decine di vittorie negli Slam e numerosissime settimane in cima alla classifica ATP. Ha più volte dichiarato di allenarsi quanto basta per mantenere il ranking e ottenere così l’accesso ai trofei più prestigiosi, quelli che pagano di più anche in caso di sconfitta al primo turno. Se questo sia uno spreco o no, Kyrgios dovrà risponderne solo alla propria coscienza e a nessun altro. In Formula 1 c’è un caso secondo me ancora più clamoroso. Fernando Alonso ha vinto due titoli mondiali, ha battuto Michael Schumacher all’apice della sua legacy ferrarista, lo ha fatto alla guida di un mezzo meccanico, la Renault, probabilmente inferiore (la controprova a volanti invertiti non l’avremo mai). Eppure, per molti tifosi il talento di Alonso doveva portare tra le sue mani ben più di due soli titoli, se avesse fatto scelte contrattuali più oculate, se avesse avuto un carattere più docile. Alonso, oggi quarantaduenne, ne ride. Dice che in Formula 1 tutti devono recitare un ruolo e a lui è toccato quello del villain. Ed è vero: dovremmo badare alla sostanza, apprezzare Alonso per la sua arte al volante, per la longevità della sua carriera, e invece non riusciamo ad andare oltre la rappresentazione delle cose.
Cosa ne sarà della carriera di Neymar Junior adesso? La relativa marginalità della Ligue 1 nel panorama europeo lo aveva già tolto dalla luce dei riflettori, lasciandogli una manciata di notti di Champions League per brillare. Cosa succederà ora che si sposterà in un campionato che, nonostante i recenti impulsi verso la grandezza, è ancora alla periferia del calcio che conta? Neymar potrebbe liberarsi delle proprie catene, in un contesto con una pressione relativamente bassa, e trovare di nuovo la gioia della giocata. Il calcio come arte, il gesto per la bellezza del gesto stesso. Ma è più probabile che Neymar, che funziona più come una Luna che come un Sole, finisca per spegnersi nella penombra saudita. La coda della sua carriera potrebbe donarci la versione più abulica del calciatore, e una ancora più eccessiva dell’eterno ragazzino fuori dal campo.
Nel frattempo, la Saudi Pro League potrebbe acquistare sempre maggior prestigio, fino a diventare una concorrente della Premier League inglese; oppure pretendere un accesso alla Champions League, cambiando la confederazione di appartenenza. Potrebbe accadere nel giro di qualche anno, al massimo di un decennio. Un tempo troppo grande per le ultime scintille della carriera di Neymar. Forse lui stesso, in cuor suo, non spera più in una seconda, o terza, occasione di grandezza.