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Neymar, giocatore utile
13 ago 2020
La prestazione del brasiliano è la perfetta sintesi tra onnipotenza e utilità.
(articolo)
10 min
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Forse il miglior Neymar aveva bisogno dell’Atalanta, di tutta quella fatica, di quel senso di urgenza. Per la prima volta non l’abbiamo visto crogiolarsi sui falli presi, perché sapeva che con l’Atalanta sarebbe stata questione di centimetri, che anche pochi minuti avrebbero fatto la differenza. Aveva bisogno anche di quegli errori sotto porta, specie il primo, per capire che non gli sarebbe venuto tutto facile, che non gli sarebbe bastato essere la normale versione di se stesso, per capire che avrebbe dovuto sbattersi fino alla fine e usare il talento eccezionale che si ritrova come le persone normali usano il proprio, cercando di farlo funzionare nel mondo, e farci capire che non gioca con uno specchio davanti. C’è voluta una partita difficile, con in palio un traguardo storico per la sua squadra e una possibile umiliazione come alternativa, per vedere come funzionava davvero il talento di Neymar. La sua utilità, il suo senso in una squadra composta di undici giocatori.

Per una volta sembra che Neymar abbia messo tutti d’accordo. Il PSG, se si chiama ancora così, ha raggiunto una semifinale di Champions League venticinque anni dopo l’ultima volta, nel giorno esatto dell’anniversario dei 50 anni della propria fondazione (o meglio, fusione), e persino chi non manca di sottolineare gli errori sotto porta del primo tempo stavolta ammette che non solo è stato decisivo nelle occasioni finali che hanno ribaltato il risultato, ma che lungo tutto l’arco della partita è stato il cuore e il cervello della sua squadra.

Che Neymar potesse durare una partita intera a questa intensità, che potesse restare concentrato, motivato e lucido fino al 93esimo, contro una squadra asfissiante che da un certo momento in poi è ricorsa al fallo sistematico, strategico più che tattico, devo ammettere, ha sorpreso anche me.

Vedere il volto di Neymar trasfigurato, non da un dolore fisico che è sempre sembrato (anche quando era realissimo, tipo la vertebra fratturata da Zuniga nel Mondiale 2014, che gli ha fatto saltare il Maracanazo) una scusa per la sua inadeguatezza alle nostre aspettative, ma dalla felicità trovata nella sofferenza, è stata una piccola epifania. Stavamo guardando l’impresa dell’Atalanta, eravamo attenti sulla loro sofferenza, sui palloni spazzati da Toloi, sul duello impari Mbappé-Hateboer, sulla coscia fasciata di Remo Freuler come la spalla di Beckenbauer, e quando il Paris Saint-Germain ha segnato due gol in tre minuti abbiamo ripetuto il mantra inconsolabile: “Questo è il calcio”.

No. Cioè, non solo.

Guardate gli stenti di Neymar, guardate quanto anche un talento fuori scala, generazionale, divino come il suo, abbia dovuto pensare per riuscire ad aiutare la propria squadra piena di talenti fuori scala contro una squadra di talenti normali (con qualche eccezione). Non è anche questo il calcio?

La prima palla, delle 113 totali giocate in tutta la partita, Neymar la tocca dopo quaranta secondi, abbassandosi a prenderla dalla propria difesa. Con tutta l’Atalanta davanti e Freuler a mezzo metro. Lo salta, o meglio gli scivola a lato e resiste al tentativo di recupero, poi prova a passare tra Gomez e Djimsiti che hanno raddoppiato ma si allunga la palla. Poco dopo riceve un passaggio dalla difesa nella situazione opposta, spalle alla porta e con il marcatore appiccicato alla schiena, e la gioca di prima, di tacco, verso Icardi, scappando in profondità per l’eventuale chiusura del triangolo (che non arriva).

Due minuti dopo, la grande occasione. Direttamente da un lancio di Keylor Navas, che lo pesca sul lato sinistro del campo, Neymar la passa di prima intenzione di interno destro verso Icardi, mettendo la palla rasoterra. Djimsiti anticipa Icardi ma in realtà fa quello che avrebbe dovuto fare l’attaccante, lascia la palla lì per Neymar che ha tutta la metà campo offensiva libera davanti a lui. Arriva davanti a Sportiello e sappiamo tutti come conclude, allargando troppo il piatto del piede destro, mandandola fuori di un paio di metri. Avrebbe potuto saltare il portiere, incrociare il tiro, persino mirare sotto le gambe, invece ha scelto la soluzione più difficile e controintuitiva e l’ha sbagliata di molto.

Un errore incomprensibile, persino ridicolo. Ma adesso è chiaro cosa intendeva Tuchel quando prima della gara aveva parlato di Neymar come del giocatore “chiave” per vincere la partita. Neymar è il piede di porco con cui spezzare le marcature dell’Atalanta, il sapone che scivola dalle mani della difesa di Gasperini, l’unico in grado, da solo, di costringerli a difendere correndo verso la propria porta. E in quel primo quarto d’ora di partita in cui il PSG fatica a uscire dalla difesa è evidente che Neymar non è superiore solo per come controlla il pallone o per quanto è veloce (il suo gioco è così ricco di pause che ci rendiamo conto di quanto sia rapido solo quando alza i capelli degli avversari passandogli di fianco), ma anche con l’intelligenza. Con la tattica individuale.

Dopo quattordici minuti Kimpembé lancia per Sarabia che fa una sponda di petto per Neymar. Lui passa in mezzo a Caldara e De Roon, accelera, potrebbe servire Gueye in verticale ma lo manderebbe al due contro uno, allora frena, sterza, e cambia lato servendo l’uomo libero, Ander Herrera. L’azione dura in tutto meno di dieci secondi e Neymar ha attirato su di sé quattro giocatori dell’Atalanta, facendo arrivare la palla dalla linea di metà campo al limite dell’area.

Gli sono riusciti 16 dribbling su 23 tentati (record in una sola partita di Champions dal 2008, anche se il record assoluto è di Cristiano Ronaldo, 20 dribbling riusciti contro il Benfica nel 2006, nei gironi), è il giocatore che ha subito più falli (9) e che ha effettuato più passaggi nell’ultimo terzo di campo (19). Ha perso solo due palloni in tutta la partita, ha pressato i difensori e persino il portiere avversario. È stato, per una volta con il PSG, vero uomo squadra.

Non ha solo giocato bene lui, ma ha fatto giocare bene i propri compagni. Si è fatto trovare per offrire una via d’uscita dalla pressione della Dea, ha tenuto palla per far muovere i suoi compagni nello spazio, impegnando ogni volta due avversari contemporaneamente, facendo salire tutta la squadra, e ha giocato di prima cercando di eliminare le marcature anche con i triangoli, con i movimenti senza palla, oltre che con i dribbling, per sfruttare lo spazio alle spalle della difesa dell’Atalanta. Per quasi tutto il primo tempo è stato difficile persino fargli fallo.

Dopo diciotto minuti si è procurato la sua seconda grande occasione della partita, smarcandosi vicino al fallo laterale per far giocare in verticale Bernat, facendo poi una sponda di prima verso Herrera e scappando alle spalle di Toloi. Herrera chiude il triangolo lungo con il piatto, anche lui di prima, e Neymar porta palla fin dentro l’area, dove prova a servire Icardi rasoterra tra difensore e portiere, mentre l’argentino voleva la palla all’indietro.

Dopo ventisette minuti salta Pasalic (l’Atalanta nel frattempo è passata in vantaggio proprio con un suo gol) con un tunnel a centrocampo, porta palla sul destro al limite dell’area e calcia di nuovo al lato. Stavolta, anche quando brucia un avversario facendogli passare la palla sotto le sue gambe (come farà con De Roon nel secondo tempo), non è per compiere un’umiliazione fine a se stessa ma per crearsi uno spazio dove uno spazio non ci sarebbe, per passargli letteralmente attraverso.

Poco prima della fine del primo tempo ha un’altra grande occasione sfruttando un retropassaggio di Hateboer, arriva al tiro da posizione defilata, a sinistra, e cerca il primo palo di sinistro, ma spara alto. Finisce steso a terra, schiacciato dal peso di quella partita complicata in cui ce la sta mettendo tutta per sbagliare il meno possibile ma sta sbagliando le cose fondamentali. Con degli uccellini tatuati che sembrano voler lasciare la pelle del suo collo e spiccare il volo, Neymar forse si sta chiedendo perché deve essere così difficile.

A quel punto sembra anche stanco, prende qualche fallo plateale e il pensiero che non possa durare tutta la partita a quei ritmi, che non sia in grado di mantenere la concentrazione e il desiderio necessari, prende piede. Nel secondo tempo, con l’Atalanta che abbassa il proprio baricentro, scende dietro la linea del centrocampo a prendersi palla e fare da playmaker, ma quando arriva nella zona di rifinitura sbaglia l’ultimo passaggio, la gioca sempre troppo lunga, o troppo tardi. Improvvisamente non c’è più spazio per far passare la palla, i giocatori di Gasperini intercettano i suoi passaggi e riescono ad anticiparlo o a spingerlo all’indietro. All’ora di gioco, sembra che la partita di Neymar sia finita.

E invece Tuchel fa entrare Mbappé e Paredes: il primo offre una soluzione in più in profondità, il secondo moltiplica le linee di passaggio e la possibilità di creare triangoli in mezzo al campo. A un quarto d’ora dalla fine Neymar si riaccende. Arriva al tiro di nuovo, con una ricezione centrale che controlla girandosi verso Caldara, sfruttando i pochi metri che gli ha lasciato per dribblarlo verso sinistra e portando palla fin dentro l’area dove era scappato Toloi, calciando poi, troppo piano, verso l’angolino lontano rasoterra. Poco dopo prova a partire da dentro la propria metà campo, salta Caldara e De Roon (che l’azione prima gli aveva tolto palla due volte) e di nuovo Caldara sulla fascia sinistra. Poi si allunga la palla per superare in velocità anche Palomino ma è finito il campo.

Neymar ci prova, ma ormai sa che non tutto gli riesce. Eppure continua a provarci.

Tutta la partita di Neymar contraddice chi pensa che il dribbling sia un vezzo estetico, fine a se stesso. Chi contrappone individuo e collettivo in modo manicheo, chi pensa che i grandi talenti non si sappiano mettere a disposizione della squadra. Di chi parla di giocatori come Neymar come sommamente egoisti, quasi fosse un’equazione matematica, più talento hai più sei egoista. Ma Neymar non stava giocando per sé, per riguardarsi su YouTube. E chissà se gioca mai davvero con quello in testa, o se il pubblico è semplicemente troppo severo con uno stile barocco, esuberante, perché viviamo in un’epoca che scambia la paura e il conformismo per umiltà.

La sua elettricità, la rapidità di gambe e testa degna di un pugile, servivano a mandare fuori giri l’Atalanta, a lavorarla ai fianchi se non a mandarla al tappeto. Perché gli è mancato il colpo da KO, d’accordo, ma alla fine è stato decisivo in entrambi i gol. Nel primo controllando di coscia una palla difficile, crossandola senza neanche guardare, contrastato, fregandosene della pulizia del gesto tecnico, giusto per metterla dentro. E con un po’ di fortuna, finalmente, ha trovato Marquinhos. Nel secondo poi ha dimostrato come il suo talento si esprima anche nelle cose più piccole. Appunto, nella velocità di reazione su una palla che gioca come se stesse per suonare la campana, inventando un filtrante da fermo per Mbappé senza quasi guardare, con una specie di no look che inganna il difensore, con la gamba tesa in modo innaturale, per dare la giusta frustata alla palla. Mettendola in uno spazio che solo una manciata di giocatori avrebbero visto, e non tutti sarebbero riusciti a farlo a quella velocità.

A fine partita Neymar ha ceduto il premio di miglior giocatore della partita a Choupo-Moting, che ha ricevuto il passaggio di Mbappé a un paio di metri dalla porta e che ha dato il via all’azione del primo gol pescando proprio Neymar in area di rigore. Uno scherzo, una battuta, o un gesto sinceramente altruista del giocatore che per alcuni più simbolizza l’individualismo del calcio moderno? Per Neymar probabilmente questa contrapposizione non esiste in partenza, perché a 28 anni si deve essere reso conto di quanto il suo talento, per quanto grande, non gli permetta di fare tutto da solo.

Questa è la partita che dobbiamo ricordare quando proveremo a dare un posto a Neymar nel Pantheon del calcio contemporaneo. Una partita in cui è stato sia onnipotente, impossibile da fermare, che utile. E quando non è stato onnipotente è stato utile lo stesso. Una partita in cui ha fatto quello che serviva, piuttosto di “quello che voleva”. In cui ha avuto bisogno dei suoi compagni per vincerla ma, soprattutto, in cui è stato più chiaro che mai che loro avevano bisogno di lui.

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