Nick Kyrgios si abbandona alla sedia e comincia il suo monologo. Non si capisce con chi ce l’abbia, se con sé stesso, con l’arbitro o col tennis, che per lui è attività sommamente stressante. Borbotta cose incomprensibili, chiede di parlare col supervisor del torneo con la faccia serissima, mentre minaccia il giudice di sedia di raccontare tutto in conferenza stampa. Raccontare cosa non è chiaro. Nessun giocatore è tanto teatrale nelle sue proteste, così esagerato da sconfinare nel ridicolo. L’unico altro tennista che aveva questo gusto nel trascinare un campo da tennis in un’aula di tribunale era John McEnroe.
Si presenta il supervisor col sorriso di chi si deve mettere ad ascoltare i capricci di un bambino. Kyrgios, in sostanza, chiede che Tsitsipas venga squalificato: «Hanno squalificato Djokovic per una cosa simile». Si riferisce a un colpo che Tsitsipas ha sparato nella folla. C’è un video che lo mostra chiaramente: Tsitsipas tira un rovescio dritto nella prima tribunetta, e ha la fortuna di non colpire nessuno se non il muro sullo sfondo. La differenza con la pallettata di Djokovic agli US Open è che questa ha avuto la mera fortuna di non incrociare nessuno sulla traiettoria. Il greco se la cava con un warning al posto di una squalifica. Quando Kyrgios capisce che non succederà niente reclama altri supervisor, «tutti quelli che ci sono». Su un punto ha probabilmente ragione: se avesse tirato lui, quella pallina tra la folla, lo avrebbero squalificato, giusto?
McEnroe, come Kyrgios, non si limitava a protestare: metteva in pausa la partita e si metteva a disquisire con l’arbitro come chi aveva tutto il tempo del mondo. Il tennis diventava una questione secondaria, rispetto al suo ideale di giustizia. McEnroe lo faceva quando perdeva, ma soprattutto quando vinceva.
Chi si fosse sintonizzato sulla partita solo in quel momento, col tabellino del match occultato, magari poteva pensare che Kyrgios avesse appena perso un set. Invece era il contrario: aveva appena vinto il secondo pareggiando il conto con Tsitsipas. È questa la differenza tra un comune tennista frustrato e Nick Kyrgios, che come McEnroe ha trasformato la sua rabbia in campo in una scienza. Non l’abbandono all’irrazionale, bensì il tentativo di inseguire una razionalità perversa, che solo apparentemente viola tutte le regole non scritte di come sarebbe giusto comportarsi per giocare meglio.
Kyrgios aveva perso il primo set in modo scellerato. Aveva giocato meglio del suo avversario, gli aveva messo più pressione al servizio, aveva avuto più palle break senza concederne neanche una. Era così sicuro di sé che si era messo a fare il buffone. Si metteva a dondolare esageratamente prima del servizio, come per imitare qualcuno, tra le risate della folla; serviva dal basso con la racchetta tra le gambe. Il tipo di cose che si addicono a un’esibizione a Dubai, piuttosto che al campo uno di Wimbledon.
Tsitsipas, però, aveva mostrato una resistenza e una concentrazione nei momenti chiave non esattamente da lui. Poi era successo qualcosa sul 5 pari, qualcosa di molto piccolo per qualcuno ma non per Nick Kyrgios. Una chiamata controversa, un overrule del giudice di sedia («Io voglio che tu chiami bene. Siamo cinque pari» si è lamentato Kyrgios per il puro gusto della lamentela). Questa cosa insignificante distrugge la volatile concentrazione di Kyrgios, che passa il tiebreak a borbottare e a sparare colpi estemporanei in punti estemporanei del campo. Il solito Kyrgios, che per paura di fallire ci tiene a precisare che non gli interessa. Aveva perso 7-2 e cominciato il secondo set frustrato e fuori fuoco, mentre Tsitsipas manteneva un rendimento dittatoriale al servizio. È lì che abbiamo intravisto la possibilità di uno Stefanos Tsitsipas finalmente forte e maturo, anche sulla superficie a lui più avversa. Un tennista dalla perfezione neoclassica, che a tratti sembra finto per la levigatezza dei suoi colpi. Durante il tiebreak tira fuori una di quelle magie inclassificabili che da quei campi, senza Federer, pensavamo che non avremmo rivisto.
Invece pian piano Kyrgios rimette insieme la sua sensibilità sulla pallina. Chiunque abbia visto una partita di Kyrgios su erba può riconoscere molto chiaramente quelle fasi: il gioco va veloce, i punti, i game, i set. Kyrgios chiede una pallina, ace. Un’altra pallina, prima, servizio vincente. Un’altra pallina, rete. Un’altra pallina, ace. Il suo tennis sembra un flusso che ha fretta di inseguire, come per paura che possa svanire da un momento all’altro, ritornare dal posto da cui è venuto, che pare leggermente fuori da lui. Questo flusso parte naturalmente dal servizio, uno dei migliori del circuito. Il colpo su cui esaspera il suo tennis a massimo rischio: una seconda palla su 10, per lui è un ace. Una statistica francamente senza senso.
Quando il suo servizio gira bene, il tennis diventa uno sport di dettagli. Tsitsipas ha bisogno di essere perfetto per restare in partita, sapendo che a volte non sarebbe comunque bastato. Al servizio Kyrgios è inattaccabile, e in risposta è una minaccia continua. Gioca con i piedi sulla riga e prova una risposta aggressiva su prima e seconda palla, affidandosi al fatto che riesce a vedere la pallina prima di quanto riescano a fare gli altri (è questo o no, il talento dei grandi, un leggerissimo anticipo sulla realtà?). Sul 4 pari nel secondo set Kyrgios affronta una palla break che odora di match point, e la annulla con un ace - uno dei 14 della giornata, nemmeno troppi. Nel game successivo, sulla parità, Tsitsipas sbaglia un dritto inside-out di un metro. Un errore strano per lui, che ha uno dei migliori dritti del circuito. Poco dopo, sul set point, si gioca il punto della partita. Sulla prima robusta di Tsitsipas, Kyrgios fa un mezzo miracolo, bloccando la risposta poco di là dalla rete. Il greco è costretto a un attacco in chop scomodo, che però gli riesce, Kyrgios tenta un pallonetto che invece risulta corto. Tsitsipas tira uno smash abbastanza profondo, ma Kyrgios lo intercetta con un dritto istintivo che è quasi una parata di scherma, e gela l’avversario.
Cosa si prova a perdere un set così? Tiri uno smash che pensi ti darà il punto, riabbassi la testa dal cielo e hai perso il set.
Kyrgios torna alla sua sedia scuro e lì inizia la sua arringa. Qualcosa si rompe definitivamente dentro Tsitsipas: Kyrgios deve avergli manomesso qualche meccanismo interiore, e la partita diventa un circo. Tsitsipas e Kyrgios sono tra gli esseri umani più difficili del circuito, e la loro sfida prometteva non solo grande tennis ma anche rissa. Tsitsipas, col suo narcisismo introverso e un po’ infantile, sta attraversando un periodo difficile, bloccato nell’ultimo passo che precede la vera gloria, vedendo tennisti più giovani di lui pronti a rubargli il posto che pensava suo. Ultimamente è sembrato spesso sull’orlo di una crisi di nervi. Quale situazione più insidiosa, per una crisi di nervi, che incontrare un ispirato Nick Kyrgios a Wimbledon?
C’erano strani precedenti tra i due. Non sembravano amarsi particolarmente. Kyrgios aveva preso in giro Tsitsipas per uno di quei suoi tweet in cui sembra un adolescente su MySpace. «È incredibile quanti suoni puoi sentire camminando per New York. Chiudi gli occhi e ascolta»; Kyrgios lo aveva retwittato scrivendo «da fuq». Eppure a Washington del 2019 avevano giocato il doppio insieme. Dopo aver perso in 60 minuti circa, Kyrgios aveva scherzato: «Gli starò lontano, ho una brutta influenza su di lui». Tsitsipas era nel momento più promettente della sua giovane carriera, ma in semifinale perde proprio da Kyrgios una partita pazza e spettacolare, facendosi annullare anche un match point. Nell’ultimo punto Kyrgios aveva chiesto a uno spettatore dove servire, per poi abbracciarlo e ringraziarlo. In conferenza Tsitsipas non aveva lasciato parlare la frustrazione: «Qualcuno ama Nick, qualcuno lo odia. Io credo che abbiamo bisogno di giocatori come lui nel tennis, altrimenti le cose diventerebbero troppo serie». Kyrgios, da parte sua, aveva postato su Instagram una foto di loro due sorridenti come fidanzatini: «È stato incredibile condividere il campo con te».
Eppure dopo quel torneo Kyrgios inizia a entrare sotto pelle a Tsitsipas. I due si affrontano altre quattro volte, e il greco vince solo in un torneo minore come la Laver Cup. Ad Halle, poche settimane fa, Kyrgios vince ancora, sfruttando un’attitudine migliore alla superficie e una spensieratezza diversa dall’avversario. Per questa sfida a Wimbledon si sente il favorito.
Kyrgios sta giocando molto bene: il suo tennis è nato per l’erba. I movimenti corti di dritto e rovescio, il servizio dominante, la mano sensibile e un estro che i prati premiano più di altre superfici. Dopo quella sfuriata alla fine del secondo set finisce per calmarsi, forse sa che il grosso del lavoro è fatto, visto che dall’altra parte della rete Tsitsipas è fuori di sé. In tre o quattro occasioni mira al corpo di Kyrgios. Su un passante - mascherabile, ok - ma anche a rete. Nel terzo set, avanti di un break e 40-0 Kyrgios serve da sotto, Tsitsipas arriva per un pelo e prova a tirargli un dritto all’altezza della testa. Dopo la partita dirà che ha provato a colpirlo in varie occasioni, mancando purtroppo il bersaglio. In tutti i casi, comunque, Kyrgios non fa una piega: per una volta il matto non sembra lui.
La partita va avanti fra grande tennis e momenti drammatici. Tsitsipas salva diversi momenti delicati con degli ace o dei punti giocati in modo spettacolare e coraggioso. Alcuni dritti al volo rimangono tra gli highlights della partita. Non bisogna però lasciarsi confondere: Kyrgios è stato il giocatore più solido in campo, quello che ha servito meglio, risposto meglio e che ha dominato la diagonale decisiva della partita, quella di rovescio. Ha servito col 71% di prime (contro il 59% del greco), ha commesso meno errori e tirato più vincenti. Ha ottenuto e vinto più palle break. Tsitsipas non ha mai strappato il servizio all’avversario.
La tensione mentale tra i due inspessisce il carico emotivo della partita, fa vibrare i punti in modo speciale. C’è un’atmosfera drammatica e vagamente tossica tipica di Kyrgios. Quando è in campo nessuno ha la sua capacità magnetica di creare "drama", di suscitare un interesse morale intorno alle sue azioni. È il tipo di energia che nello sport hanno altri atleti divisivi e controversi, come Neymar o Conor McGregor, ma che con Kyrgios raggiunge una carica filosofica diversa per il contesto in cui si esprime, quello ultra-conservatore del tennis.
In Miti d’oggi Roland Barthes scrive che il catch ha il compito di «mimare un concetto puramente morale: la giustizia». I lottatori, impersonando i loro personaggi in un teatro morale da Commedia dell’arte, espongono continuamente i propri sentimenti, le proprie passioni. Personificano, in modo perfettamente intelligibile, il bene e il male. «I lottatori sanno assecondare benissimo la capacità di indignazione del pubblico presentargli il limite stesso del concetto di giustizia, quella zona estrema dello scontro in cui basta allontanarsi ancora un po’ dalla regola per aprire le porte di un mondo sfrenato». Secondo Barthes niente è più bello per il pubblico di un lottatore tradito che si getta con foga sul suo avversario sleale. Ciò che ci appassiona del catch, quindi, è l’ordine morale che esibisce, giocando sapientemente con i suoi limiti.
Nel tennis, a differenza del catch, le emozioni e le passioni non sono esibite, ma nel loro occultamento si muove comunque un desiderio di aderenza a un concetto di giustizia. Un ideale fondato proprio sull’occultamento delle emozioni, sull’espressione di un certo stoicismo in cui il tennista (un atleta olimpico) è al di sopra delle emozioni terrene dell’essere umano. Non esprime gioia o disappunto, è un involucro vuoto di correttezza ed eleganza, che rifiuta ciò che deve scorrere solo sotto traccia: la violenza dello scontro col suo avversario. Forse è per una forma di sopravvivenza che il tennis si è dato questo codice d’onore: è uno sport psicologicamente così violento che senza questo codice le partite diventerebbero uno spettacolo insostenibile.
Nick Kyrgios - come John McEnroe prima di lui - non si fa problemi a esprimere le proprie emozioni in campo, e a portare in superficie la violenza del conflitto con i suoi avversari. Come gli abili lottatori descritti da Barthes, sa manipolare i codici di giustizia morale del tennis, danzando sui suoi limiti. Quando ne ha l’occasione, naturalmente Kyrgios provoca. Per provocare nel tennis spesso non è necessario fare qualcosa, ma non farlo. Per esempio, basta non chiedere scusa dopo un nastro in un punto molto importante, e invece esultare con un inchino.
È questo che ci attrae e che ci repelle di Nick Kyrgios, al di là del suo oltraggioso talento, del suo tennis estroso e spettacolare. La sua capacità di generare tensione morale, di interrogarci di continuo sui limiti del concetto di giustizia - nel teatro sportivo che sempre lo riproduce. Tsitsipas ieri ha fatto l’errore di cadere nelle sue provocazioni, nei suoi giochi mentali, alimentando uno spettacolo incredibilmente conflittuale e drammatico.
La partita è stata entusiasmante, carica di livelli interpretativi e spunti come nessun’altra in questa stagione, anche perché ha messo in discussione l’ordine morale del tennis, che più di tutti espone il conflitto tra valori sportivi e intrattenimento, rimasti in controluce in tutto lo sport contemporaneo. Il pubblico di appassionati sembra diviso: molti giovani amano giocatori come Bublik o Kyrgios, che hanno un approccio ludico, leggero e sempre ammiccante; chi è più in là con l’età legge i loro atteggiamenti come una minaccia inaccettabile alla correttezza e all'integrità del tennis.
Lo spettacolo è proseguito fuori dal campo, dove davanti ai microfoni i due hanno continuato a esporre le contraddizioni che incarnano. Kyrgios ha abbassato i toni, pur precisando che «Il circo lo ha fatto lui, ha problemi seri»; Tsitsipas ha definito il suo avversario «Un bullo. Probabilmente era un bullo anche a scuola». Poi ha chiesto provvedimenti: «Quando giochi con lui in ogni punto hai la sensazione che sta succedendo qualcosa dall’altra parte della rete. Provo a non farmi distrarre perché so che lo sta facendo apposta, che sta provando a manipolarmi. Non c’è nessun altro giocatore che si comporta così. Spero che riusciremo a fare qualcosa per ripulire il nostro sport da questi comportamenti». Quanto tempo è passato da quando diceva che il tennis aveva bisogno di Kyrgios?
Wimbledon ha curiosamente tagliato dalla diretta la stretta di mano tra i due. Eccola, col contatto visivo scrupolosamente evitato. Foto di Simon Stacpoole/Offside/Offside via Getty Images.
Tsitsipas coglie anche un punto importante: «Ha bisogno di fare il circo, senza circo non potrebbe giocare». Kyrgios in effetti pare aver bisogno del conflitto, di spargere caos, di dirottare la partita in un territorio che solo lui riesce a controllare. Gli piace il rumore, gli piace il conflitto, proprio come piacevano a McEnroe - sempre tormentato dal silenzio irreale del Centre Court. Nella sua autobiografia McEnroe confessa che durante l’edizione di Wimbledon del 1981 - quella del celebre “You cannot be serious” - ha fatto particolarmente il pazzo per una ragione, e cioè che era molto nervoso perché sapeva di dover vincere. Più sentiva quest’obbligo di vincere, più aveva bisogno di sfogare la tensione all’esterno. Kyrgios ha un lungo curriculum di escandescenze in campo, ma queste follie non sono mai sembrate così utili e centrate come stavolta. Qualcuno comincia a mormorare che può vincere quest'edizione di Wimbledon: lui in fondo lo ha sempre saputo, che quel giorno prima o poi sarebbe potuto arrivare.