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Nato pronto
30 ago 2018
Nico Mannion ha solo 17 anni ma nessuna intenzione di aspettare il domani.
(articolo)
12 min
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Per provare a tratteggiare i contorni di una storia che è appena cominciata, forse, conviene partire proprio dalla fine. O, per meglio dire, dall’ultimo capitolo in ordine temporale. Perché il viaggio di Nico Mannion ha appena avuto inizio, ma la decisione di chiudere anzitempo l’esperienza alla high school rappresenta già una tappa di notevole importanza.

Grazie ad un percorso scolastico fin qui esemplare, Nico ha potuto decidere di anticipare di un anno la scelta dell’ateneo in cui proverà a compiere un ulteriore balzo in avanti. Oggetto di attenzioni da parte dei programmi cestisticamente più rinomati del paese, avrà ora tempo fino a novembre per sfogliare la rosa delle possibili destinazioni. Arizona viene data in netto vantaggio, con Duke immediata inseguitrice, ma nessuno nella cerchia del giocatore vuole sbilanciarsi.

L’annuncio con cui il giovane talento ha sancito il suo imminente addio a Pinnacle, a dire il vero, non è stato certo un colpo di scena. Erano infatti in pochi gli addetti ai lavori dubbiosi circa l’opportunità, per lui, di accelerare i tempi. Su una cosa, d’altronde, tutti quelli che a vario titolo hanno avuto a che fare con Nico Mannion concordano: il ragazzo è pronto per affrontare nuove, ambiziose sfide. Anzi, l’etichetta di “nato pronto”, spesso usata a sproposito, appare definizione perfetta per un 17enne che corre spedito verso il proprio futuro.

Dopo aver bagnato con 9 punti il suo esordio in maglia azzurra sotto gli occhi di Coach K., Nico guida una selezione dei migliori talenti della West Coast Elite alla vittoria nell’Under Armour Challenge con 15 punti e 13 assist in 25 minuti.

Da Salt Lake City a Cefalù e ritorno

All’altro capo di questa storia c’è un altro Mannion, di nome Pace. È nato a Salt Lake City e, dopo aver girovagato per un quinquennio tra NBA e CBA, sbarca in Italia a fine anni Ottanta. Il suo, alla soglia dei trent’anni, è un tentativo di rimettersi in gioco e l’idea è di vedere come va la stagione a Cantù per poi magari provare a ripercorrere in senso inverso il tragitto sull’oceano. Pace, in quel momento, ignora che l’avventura italiana durerà 13 anni, con qualche breve intermezzo nel paese d’origine. Ancor di più, non può sapere che quell’avventura gli cambierà la vita nel vero senso della parola.

Atterrato in Brianza munito di fervente fede mormone, Mannion tornerà negli States a metà anni 2000 con una nuova moglie, la seconda, e un figlio. Nico, infatti, nasce dall’unione con Gaia Bianchi, pallavolista conosciuta ai tempi di Caserta. Quando viene al mondo il primo erede della coppia, Mannion veste i colori della Virtus Siena ma la famiglia si ferma in Toscana per poco, perché l’ultima tappa della carriera da giocatore di Pace è a Cefalù, dove Nico muove letteralmente i primi passi. Appesi pantaloncini e canotta al chiodo, i Mannion tornano in America, prima nella natia Salt Lake City e poi a Scottsdale, dove Pace si costruisce una seconda, proficua carriera da broker finanziario. E Nico cresce proprio in Arizona, mostrando subito d’aver ereditato il giusto corredo di cromosomi. Se la disinvoltura con cui approccia il gioco del basket è eredità paterna, a detta del diretto interessato l’esplosività delle gambe discende direttamente da mamma Gaia. Al di là delle ipotetiche spartizioni di merito parentale, a funzionare a meraviglia è il connubio, peraltro in tutto e per tutto simile (padre cestista, madre pallavolista) alla combinazione che ha generato uno dei giocatori più importanti degli ultimi vent’anni, al secolo Steph Curry. Le similitudini con il due volte MVP, però, finiscono qui. Anche perché le simpatie NBA di Nico si spingono sì verso la California, solo qualche centinaio di miglia più a sud della baia.

Black Mamba Connection

Nonostante le insistenze materne, concretizzate in ripetuti tentativi di decantare al figlio le lodi del volley, Nico non viene mai nemmeno sfiorato dal dubbio: il magnetismo esercitato dalla palla a spicchi ne pilota i sogni fin da bambino. Quando ha da poco compiuto nove anni, poi, fa un incontro di quelli capaci di cementare per sempre una passione già ben salda. Per gentile intercessione di Pace, che nell’epoca d’oro della Serie A italiana ha duellato tra gli altri con Jelly Bean Bryant, Nico stringe la mano a un altro figlio d’arte piuttosto affermato.

I Lakers, quella sera, sono in trasferta a Salt Lake City per sfidare i Jazz e in palio c’è la finale della Western Conference. La contesa è di quelle infuocate ma Kobe, che da lì a non molto vincerà il suo quinto e ultimo anello, trova il tempo di fare due chiacchiere, rigorosamente in italiano, con quel bambino che lo aspetta tremante nel tunnel verso gli spogliatoi. Da lì, oltre ad azzerare gli eventuali dibattiti in merito a cosa fare da grande, Nico diventa uno sfegatato tifoso gialloviola. La connessione con Bryant non si esaurisce in quella notte, anche perché l’itinerario del Black Mamba e quello del figlio di Pace hanno un altro punto in comune. Se infatti le regole dell’epoca permettevano a Kobe di vestire la gloriosa maglia dei Lakers senza aver nemmeno compiuto 18 anni, alla stessa età Nico si è reso protagonista di un debutto altrettanto significativo. In entrambi i casi, nonostante il tachimetro dell’anagrafe segnasse piena adolescenza, l’introduzione al mondo degli adulti si è trasformata in un rituale di passaggio tutt’altro che prematuro.

Il debutto di Nico con la nazionale maggiore, il primo capitolo di quello che promette di essere un lungo romanzo.

Ereditarietà genetica

Calandosi da subito nella nuova realtà della nazionale maggiore, Nico ha dimostrato una disinvoltura davvero inconsueta per un liceale. Così come fuori dall’ordinario è sembrato lo scarto emotivo con cui ha cavalcato il momento più toccante del suo esordio tra i grandi. «Durante l’inno ho visto mamma davvero emozionata, e un po’ ho avuto i brividi anche io. Nel momento in cui si è cominciato a giocare, però, è sparito tutto e c’è stata solo la partita». D’altra parte, per uno cresciuto tra Cefalù e Salt Like City - posti agli antipodi se ne esistono due al mondo - la capacità d’adattarsi dev’essere qualità irrobustitasi col tempo.

Nonostante la sconfitta, peraltro indolore sul piano pratico, il gran debutto di Nico Mannion è filato via liscio. Un po’ meno lineare è stato invece il percorso che l’ha portato a vestire i colori azzurri. Le origini dell’arruolamento del prodotto di Pinnacle risalgono all’estate del 2017, quando il suo nome compare tra gli ultimi tagli della selezione di Team USA per i Mondiali Under 16. La notizia arriva all’orecchio di Pino Sacripanti che, oltre a lavorare per la federazione come allenatore della Under 20, si è fatto le ossa come assistente proprio nella Cantù in cui militava Pace a cavallo tra fine anni Ottanta e inizio anni Novanta. Parte un giro di telefonate che coinvolgono la dirigenza FIP, il coach dell’Under 17 Antonio Bocchino e i due Mannion, padre e figlio. La risposta, tutt’altro che scontata, è un sì entusiasta. L’obbiettivo, esplicitato o meno, rimane quello di arrivare in the league e l’impegno estivo con la nazionale, pronta a disputare gli europei di categoria, potrebbe essere considerato un impiccio. Invece, anche grazie all’intercessione di mamma Gaia, Nico si convince del fatto che un’esperienza al di fuori dei confini del basket collegiale - fin lì unico banco di prova - possa contribuire alla sua crescita come atleta e come persona. Il resto è cronaca: Mannion disputa un torneo di alto livello (19.9 punti, 5.7 rimbalzi e 4 rimbalzi di media), impreziosito dalla strepitosa prova contro la Russia (42 punti in 28 minuti d’impiego), e l’impressione generale è che il ragazzo sia decisamente più avanti di quanto segnala la data di nascita sul passaporto.

La partita contro la Russia che ha messo Nico sulla mappa del basket italiano.

Sempre in tema di anagrafe, l’ingresso sul campo di Groningen il primo luglio scorso ha reso Nico Mannion il quarto esordiente più giovane di sempre. E se il nome di Vinicio Nesti si perde nei rivoli della memoria, quelli di Sandro Riminucci e Dino Meneghin inquadrano bene la portata storica dei 29 minuti giocati contro l’Olanda. Non solo, la scelta di rispondere alla chiamata di coach Sacchetti rende Nico azzurro a vita, senza possibilità di giocare con altre rappresentative. La scritta Italia sul petto, d’altro canto, è con ogni probabilità anche l’unico espediente attraverso cui sarà possibile vederlo su questa sponda dell’oceano nei prossimi anni, considerato che il punto d’arrivo del percorso intrapreso è ovviamente la NBA.

Quanto e come sarà possibile vederlo, per ora, rimane questione dal difficile pronostico. Di certo Mannion non sarà disponibile per le gare di qualificazione del prossimo autunno, momento nel quale sarà impegnato a concludere la sua esperienza scolastica a Pinnacle. Per il resto, considerata anche l’acclarata tendenza di coach Sacchetti a fare del playmaker il fulcro delle proprie squadre, non appare esagerato sostenere che buona parte delle speranze di un rinascimento del basket tricolore passi proprio dalla presenza e dal cammino di crescita che il figlio di Pace dovrà percorrere nei prossimi mesi. Se il Draft è l’appuntamento cerchiato sul calendario del 2020, non è da escludere che qualora all’Italbasket riuscisse l’impresa di qualificarsi, il tragitto potrebbe prevedere una fermata intermedia con vista sui Mondiali cinesi nel settembre del prossimo anno.

Che tipo di giocatore è Nico Mannion?

Al di là del suo potenziale futuro in maglia azzurra, la domanda - considerata la baraonda mediatica che ha circondato il prodotto di Pinnacle - è più che legittima.

Le prestazioni in maglia Pioneers e la singolare storia personale hanno inevitabilmente attirato le attenzioni di media e potenziali sponsor, ma Nico rimane un 17enne che deve tenere in ordine la sua cameretta.

O, meglio, il quesito dovrebbe essere: che tipo di giocatore può diventare Nico Mannion? Perché, oggi come oggi, valutazioni sulle caratteristiche tecniche di classe 2001 godrebbero della stessa volatilità dei tanti oroscopi che affollano quotidiani e programmi televisivi. A 17 anni, l’esordio in maglia azzurra rappresenta di fatto il suo primo contatto con lo sport professionistico e, messi da parte i comprensibili entusiasmi, è necessario partire proprio dalla limitatezza del campione in esame. Più che definire il Nico Mannion di oggi, le prestazioni offerte a livello di high school e gli scampoli visti in nazionale lasciano intravedere quello che l’avvenire potrebbe avere in serbo per il figlio di Pace e Gaia.

Dall’alto di un fisico ancora comprensibilmente gracile (poco sopra i 70 chili il suo peso forma attuale) ma già ben posizionato quanto a centimetri (1.91 all’ultima misurazione, età dello sviluppo ben lungi dall’essersi conclusa), Mannion dimostra innanzitutto di possedere un notevole feeling con il canestro. La disinvoltura con cui è in grado di battere l’avversario sul primo passo gli permette di attaccare il ferro con incisività, concludendo spesso e volentieri con una schiacciata. Non bastasse, almeno pari è la naturalezza con cui Nico riesce a ricavare la corretta spaziatura tra sé e il difensore, movimento che gli consente di tirare dal palleggio con il giusto ritmo. E se la pratica difensiva è per il momento un mero esercizio di volontà assolto piegando le ginocchia, lungo le otto sfide sin qui giocate in West Coast Elite Nico ha registrato la pregevole media di 6 assist a partita, a riprova di una visione di gioco incline a coinvolgere i compagni.

Durante la sua recente esperienza in azzurro, una delle domande che Nico si è sentito rivolgere con maggiore frequenza è stata relativa a quanto si sentisse più playmaker o più attaccante - come se nell’epoca di Curry, Westbrook e Harden tale distinzione avesse ancora senso. Lui, che tra le sue fonti d’ispirazione cita anche Steve Nash e Jason Kidd - due che in Arizona hanno lasciato ricordi indelebili - ha risposto ogni volta con pazienza e cortesia, dimostrando tra le altre cose doti comunicative non proprio comuni a tutti i 17enni del mondo. Infine, Charlie Wilde, suo coach a Pinnacle, lo definisce semplicemente un pleaser, ovvero uno che vuol sempre fare la cosa giusta. Il che può significare mettersi in proprio e segnare 30 punti o dedicarsi a servire i tiratori meglio piazzati per la conclusione, a seconda delle necessità della squadra.

Tuttavia, sempre tenendo presente la limitatezza del campione a disposizione, l’aspetto del gioco di Nico Mannion che impressiona maggiormente è un altro, ovvero la sbalorditiva velocità d’apprendimento. Nell’esaminare le partite giocate al college e nelle competizioni internazionali, è quasi impossibile vederlo ripetere due volte lo stesso errore. E questa qualità, più dell’atletismo e della bravura nel fare canestro, doti non così rare al livello di competizione a cui Nico aspira, potrebbe aprirgli una corsia preferenziale in direzione NBA. Soprattutto perché anche dal punto di vista caratteriale il ragazzo sembra messo piuttosto bene.

La scelta di vestire l’azzurro spiegata dal diretto interessato (e da Pace).

Educato, non remissivo

Al termine della prima esperienza con la nazionale maggiore, ad accomunare le impressioni di staff tecnico, compagni e addetti ai lavori è proprio il livello d’educazione e professionalità espresso dall’ultimo arrivato. Allo stesso tempo, tuttavia, ogni interlocutore tiene a specificare come, nel caso di Nico Mannion, il confine tra educazione e timidezza, tra garbo e remissività, sia ben tracciato. Impeccabile in sala stampa e davanti ai microfoni, puntuale e zelante durante allenamenti e sedute video di preparazione alle partite, l’attitudine di Nico subisce una fulminea metamorfosi quando si alza la palla a due.

Che si tratti di un cinque contro cinque in palestra o di gare ufficiali, per lui non fa nessuna differenza. Compagni e avversari diventano vittime designate di un ecosistema in cui la cannibalizzazione del proprio marcatore si fa bisogno primario e dove la parola compassione perde di significato. Per il momento, quell’improbabile zazzera fulva e il viso solcato da lentiggini lo rendono più simile a un nerd allampanato piuttosto che a un predatore del parquet, concedendogli il beneficio dell’indulgenza. Questo dono della sua giovane età, però, è un espediente che non durerà a lungo. Presto la benevolenza si sarà esaurita, rimpiazzata da attenzioni molto meno paternalistiche e dal prevedibile impiego delle maniere brusche.

A Nico, tutto questo, sembra preoccupare il giusto. Un po’ perché da bravo adolescente coltiva l’abitudine di vivere il momento senza pensare troppo alle complicazioni future, e un po’ perché porta con sé la consapevolezza di essere ben equipaggiato per fronteggiare prove del genere.

È così che funziona, quando sei nato pronto.

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